Estero

“Popolo d'Israele, la tua storia ti chiama alla pace. Un appello” di Davide Romano

Popolo d'Israele, figlio di una storia plurimillenaria di sofferenza, esilio e speranza, oggi ti trovi in un crocevia che mette alla prova la tua anima e il tuo futuro.

La guerra con i palestinesi, il sangue che scorre nelle strade di Gaza e della Cisgiordania, non può essere la tua eredità. Il Talmud dice: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”.
Quante vite si stanno spegnendo ora, mentre le cicatrici della tua stessa storia ci ricordano il dolore dell'ingiustizia e dell'oppressione?


In questi giorni bui, risuonano le parole di Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah, che ci ammoniva: “Il contrario dell'amore non è l'odio, è l'indifferenza”.
Noi non possiamo essere indifferenti alla sofferenza, alle lacrime delle madri, alle grida dei figli.
Non possiamo distogliere lo sguardo pensando che la guerra e la violenza possano in qualche modo essere una soluzione, quando in realtà non fanno altro che perpetuare cicli di vendetta e disperazione.


Popolo d'Israele, sei nato dal fuoco della persecuzione, dall'orrore di un genocidio.
Gli ebrei della diaspora hanno cercato per secoli un rifugio, un luogo di pace. Ma come può la pace germogliare dal sangue versato su una terra condivisa?
Martin Buber, uno dei tuoi più grandi filosofi, ci ha insegnato che il rapporto con l'altro deve essere di dialogo, non di scontro: “Il vero dialogo implica il riconoscimento reciproco, e questo è l'inizio della pace”.


Oggi, il mondo ti osserva.
Non con l'odio, ma con una speranza che riposa sulle tue spalle.
Ricorda le parole di Abraham Joshua Heschel, il rabbino che marciò con Martin Luther King: “Poiché la libertà è il dono più grande che Dio ha dato all'umanità, non possiamo mai giustificare l'oppressione o la sofferenza imposta agli altri”.
Popolo d'Israele, sei stato schiavo in Egitto, hai conosciuto la sofferenza dell'esilio e dell'oppressione. Non permettere che il tuo dolore diventi la ragione per infliggerne altro.


Non possiamo ignorare la paura e il dolore che hai vissuto, le sirene che risuonano, la minaccia costante di razzi e attentati.
Ma è proprio da questo dolore condiviso, da questa comune umanità ferita, che può sorgere un nuovo patto di convivenza.
Shimon Peres, uno dei padri fondatori di Israele, disse: “Non ci sono vincitori in una guerra. O perdiamo tutti o vinciamo insieme”.
Il vero trionfo non sarà militare, ma la capacità di costruire un futuro di coesistenza.


La Bibbia, cuore pulsante della tua storia, grida per la giustizia.
Isaia, il profeta della pace, proclamava: “Forgeranno le loro spade in vomeri, e le loro lance in falci;
nessuna nazione alzerà la spada contro un'altra nazione, e non impareranno più la guerra”
.
Questo è il tuo destino, non la guerra, non la distruzione, ma la costruzione di un futuro di pace.


Il dialogo deve nascere tra la gente comune, tra te e i palestinesi che vivono fianco a fianco, nonostante tutto.
Amos Oz, scrittore e voce della tua coscienza, affermava: “La pace non è il matrimonio di due amanti; è piuttosto un compromesso tra due nemici”.
Questo è il coraggio richiesto: non di impugnare le armi, ma di abbassarle, guardando negli occhi chi ti sembra nemico e cercando un terreno comune.


Popolo d'Israele, sei una nazione costruita sulla speranza, sulla promessa di un futuro diverso.
Non lasciare che questa promessa venga spezzata dalla violenza.
Ricorda le parole del tuo stesso Talmud: “Non devi completare il lavoro, ma non sei libero di abbandonarlo”.
La pace è un cammino lungo, difficile, ma necessario.
Se non ora, quando?


La tua storia ti chiama a essere un modello per l'umanità, a dimostrare che anche nelle terre più contese, nelle situazioni più disperate, la pace è possibile.
Io ti supplico: non dimenticare chi sei, non dimenticare da dove vieni.
E soprattutto, non dimenticare dove sei diretto.