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"Poetry", metti lo spleen in Corea

NAPOLI, 7 APRILE - Scrivendo del noto artista francese Paul Gauguin, la penna sempre fervida di Giulio Carlo Argan ne tratteggiava icasticamente il profilo: “Gauguin si è creato da sè la propria leggenda: la leggenda dell’artista che si mette contro la società del proprio tempo e ne evade per ritrovare in una natura e tra genti non guaste dal progresso, la condizione di autenticità e di ingenuità primitive… in cui può ancora sbocciare il fiore, ormai esotico, della poesia”. Il fiore, sì esotico, della poesia nel film “Poetry” sboccia tra genti “guaste”, guastissime. [MORE]

Guasti sono gli adolescenti, gioventù coreana bruciata che dorme, mangia, gioca e – nel tempo libero – stupra. Ne fa le spese una giovane ragazza, suicida per disperazione, il cui corpo mollemente riverso nell’acqua a mo’ di Ofelia dell’Est, segna l’epifania del dramma nel prologo.
Guasti sono i genitori dei colpevoli, impegnati nella strategia dell’immagine piuttosto che in quella dell’educazione: affaristi benpensanti che cercano di riparare, tra una birra e l’altra, con una colletta di insano medicamento morale per la madre della vittima.
Guasta comincia a diventare la mente della protagonista, la sessantaseienne Mija, badante part-time e nonna full-time – il nipote è uno degli stupratori – che cerca parole nuove per descrivere il mondo, mentre le vecchie sono dissipate dall’Alzheimer incipiente. “Poetry” è la storia dell’affaticato itinerario mentale della protagonista alla ricerca della poesia. Un po’ pacchianamente, frequentando un corso: come se la si potesse insegnare con un pugno di meetings che finiscono a tarallucci e vino. Proverà a scrivere il suo componimento, cercando di non farsi avvilire dallo spleen di una realtà ingrigita nella coazione della routine e della tragedia da piccola borghesia. L’ideale è la poesia, il reale è un corpo violato sull’acqua ed una mente che decade.

Da Friburgo a Cannes, fino agli Asian Awards, non si può negare che Lee Chang-dong abbia incassato un tributo trasversale. Qua e là si sono lette le solite recensioni-inchino alla poetica circolare, alle lentezza che annida il senso ultimo della poesia, all’estremismo romantico con cui coraggiosamente il regista affronta un tema demodé, all’intensità ed alla vetta pindarica di più passaggi a destra e a manca, perfino – con sospetta vena “avvocatizia” – alla difficoltà di poter cogliere la vera poesia del film, lasciata intravedere in un discorso filmico che procede più per ellissi e ficcanti quanto fatue accensioni dello sguardo, che per vera scorrevolezza narrativa.

Evidentemente i benpensanti non abitano solo provincia coreana, ma anche il provincialismo della cultura europea. Basterebbe una scorsa veloce all’opera di Lee Chan-dong, da “Oasis” a “La luce segreta”, per accorgersi che “Poetry”, in confronto, è un film più furbo che coraggioso, più goffamente impantanato che sublimemente lento, più asfittico che ellittico, più meccanico che ipnotico. I vessilliferi del “relativismo ad ogni costo” replicheranno che gli occhi di un occidentale sono inadatti a penetrare la naiveté del regista coreano, ma se una buona volta vedessimo il film “e basta”, senza pregiudizi, si, ma anche senza buonismi, facilmente osserveremmo la disarticolazione di 135 minuti (troppi) di incongrue alternanze tra improbabili visioni pseudo-profetiche e momenti morti, che vorrebbero gabellarci per necessaria stasi.

Lee Chan-dong è tutt’altro che un regista scadente, la stoffa si vede in più di un passaggio (il piano-sequenza in campo lungo all'inizio, l’arresto “defilato” del nipote), ma in realtà il film è sorretto appena dall’interpretazione magistrale di Yu Junghee, la superstar a singhiozzo della Corea, che torna a sorpresa a calcare un set dopo 15 anni e più. I suoi giochi di sguardi funzionano meglio delle astuzie della macchina da presa, i suoi silenzi meglio dei silenzi del narratore.

Una storia di cui ci si vorrebbe innamorare, ma la sensazione è che il vero itinerario catartico sia quello del regista, alla ricerca della propria “poesia”. E probabilmente resta una catarsi a metà.

ANTONIO MAIORINO