Politica

Pillole di Storia della Repubblica italiana: Gronchi, il Presidente della censura

ROMA, 14 APRILE 2013 - È la primavera 1955: un clima mite avvolge l'Europa. Nel Regno Unito Winston Churchill si dimette da Primo Ministro, negli Usa sbarca il premier democristiano Mario Scelba per stringere la mano a Eisenhower, a Roma si inaugura, dopo anni di lavori, la prima linea della metropolitana e il Parlamento italiano si trova alle prese con l'elezione del terzo Presidente della Repubblica.

Lo scenario è, mutatis mutandis, sempre lo stesso: opposizioni interne, impedimenti, candidati a sorpresa e sabotaggi. All'appuntamento questa volta la Dc, galvanizzata, si presenta con un nome che sembra sicuro e alieno da qualsiasi recriminazione: Cesare Merzagora, presidente del Senato e uomo di spicco del partito: è il favorito di Fanfani e del premier Scelba. Così, quando si arriva all'Assemblea plenaria, si pensa di avere partita facile, ma sin dal primo scrutinio si intuisce che le cose non stanno esattamente così: Merzagora raccatta meno suffragi dell'illustre ma anziano Parri, sponsorizzato dai socialdemocratici. Lo scontro si profila aspro e le linee interne al partito cominciano, da copione, a divaricarsi troppo. Molti rappresentanti della sinistra democristiana iniziano a disperdere i propri voti su un personaggio che i quadri non hanno e non vogliono prendere in considerazione, Giovanni Gronchi, presidente della Camera, su cui vanno a convogliare i voti degli antifanfaniani. Di scrutinio in scrutinio, la tensione sale e i dissapori si inaspriscono: in questo clima si arriva al quarto voto, quello decisivo.

In qualità di Presidente della Camera, ė Gronchi stesso a leggere ad alta voce il proprio nome per ben 422 volte: ecco l'applauso, il quorum è stato raggiunto, è lui il terzo inquilino del Colle. In aula è caos: i visi tesi e vistosamente arrabbiati di Fanfani, di Scelba. A lui l'on. Pajetta, con ghigno cagnesco, manda un Cynar, a sottolineare l'amarezza del colpo inferto.[MORE]

Giovanni Gronchi non piace affatto a certa destra del partito: pesantemente antiamericano, ė un rischio troppo grande in una fase della politica mondiale così delicata. Non piace poi per quell'occhio perennemente strizzato alle masse lavoratrici, alle fazioni collocate più a sinistra, ai socialisti. Una disdetta insomma. E forse Amintore e amici non hanno poi tutti i torti: sin dal discorso di insediamento, in cui è già tutta manifesta quella mania di interferire con la legislatura che caratterizzerà l'intero settennato, la Presidenza Gronchi non è passata agli annali per liceità e rettitudine.

Ma ciò che forse più colpisce di quest'uomo venuto da Mussolini per approdare all'Italia democratica, è certa chiusura mentale, certa sterilità di pensiero che ai più fanno rimpiangere il suo predecessore. Silurati in un attimo Tognazzi e Vianello che avevano avuto l'ardire di mimare una caduta pubblica del Presidente il quale, durante una prima alla Scala, manca la poltroncina, ritrovandosi praticamente in terra. Il programma Rai che ospita la performance dei due comici viene immediatamente chiuso. Evidentemente il Gronchi Presidente, prigioniero di vecchi schemi di governi- regi forse, fascisti più probabilmente- non rammenta l'art. 21 di quella Costituzione di cui pure dovrebbe essere il garante e a cui il pensiero corre pensando al suo settennato: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione".

Alla fine del suo mandato- è il maggio 1962- sono in tanti a tirare un sospiro di sollievo. Nessuno più tollera il suo continuo interferire, le ubbie sue e di consorte, il suo modo di fare troppo spesso arrogante. È tempo di voltare pagina.

(fotogramma: quirinale.it)

Emmanuela Tubelli