Politica

“Perché, in fondo, a noi la mafia ci piace!” di Davide Romano, giornalista

Alla fine del meraviglioso film "I cento passi" su Peppino Impastato, c’è una frase che mi colpisce ogni volta che vedo un politico, di quelli in odor di mafia – un fetore che, chissà perché, nessuno sembra più sentire – che si pavoneggia davanti alle telecamere.

È lo sfogo di Salvo Vitale, amico di Peppino, in diretta su Radio Aut, subito dopo l’assassinio di quest'ultimo.
La sua dichiarazione ha una crudezza che risuona ancora oggi: “E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo. Non perché ci fa paura, ma perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace! Noi siamo la mafia! E tu, Peppino, non sei stato altro che un povero illuso! Sei stato un ingenuo, un 'nuddu miscato cu' niente!'”



Questa frase squarcia il velo di ipocrisia con una brutalità disarmante, mettendo a nudo un’amara verità: in fondo, la mafia è un’istituzione ben accetta e consolidata nella nostra cultura, e i tentativi di combatterla spesso sembrano scontrarsi con un’ampia complicità di fondo e, purtroppo, non solo in Sicilia ma nell’interno Paese.



Benvenuti nel paradosso italiano, dove la mafia è un po' come il vino: più invecchia, più diventa pregiata.
Nella nostra terra di santi e di eroi, di commemorazioni e di festeggiamenti, c’è un bel mistero da svelare.
Mentre innalziamo monumenti e celebriamo con fervore le vittime della mafia, ci troviamo a eleggere, con una disinvoltura da far invidia al miglior prestigiatore, personaggi con legami più o meno nascosti con il crimine organizzato.
Che meraviglia di coerenza, non è vero?



Ogni anno, le celebrazioni per le vittime della mafia sono quasi religiose.
Le strade si riempiono di manifestazioni, le scuole parlano di loro come di santi, e i media si scatenano in reportage agiografici.
Gli eroi caduti sono celebrati con una solennità che farebbe impallidire persino i protagonisti delle più epiche storie bibliche.
Ma, ironicamente, questo culto di superficie sembra servire più a sollevarci dalla nostra coscienza collettiva che a promuovere un vero cambiamento.
Come ha scritto Roberto Saviano, “Abbiamo costruito un mausoleo per le vittime, ma i veri templi di culto sono le urne elettorali dove scegliamo i loro assassini”.



La retorica e la pompa delle celebrazioni sono più uno sport nazionale che un impegno reale.
La nostra predilezione per il rito del ricordo ci permette di addormentarci sul cuscino della nostra apparente moralità, mentre il vero lavoro – combattere la mafia in modo incisivo e costante – viene rimandato a un futuro indefinito.



E qui viene il bello.
Per ogni commemorazione di un martire della mafia, abbiamo una schiera di candidati con amici poco raccomandabili o con carriere torbide.
Un fenomeno così unico che quasi ci si aspetterebbe un premio Nobel per la coerenza nella schizofrenia politica.
D’altra parte, è anche un fatto curioso che mentre sventoliamo bandiere per le vittime, molte elezioni locali e nazionali vedono l’elezione di personaggi notoriamente imparentati con la criminalità organizzata.
La Sicilia, regina incontrastata di questa contraddizione, è un caso emblematico.



Daniele Luttazzi ha descritto questa situazione con un lampo di saggezza sarcastica: “In Italia, il culto dei martiri e la promozione dei mafiosi non sono semplicemente compatibili; sono complementari. L'uno senza l'altro non potrebbe esistere”.
Certo, mentre stringiamo la mano ai familiari delle vittime e cantiamo in coro “Bella ciao”, è incredibile vedere come lo stesso elettorato voti per quelli che hanno forse studiato il manuale di come ingrassare il potere mafioso.



Siamo un popolo straordinario: adoriamo le vittime e facciamo di tutto per dimenticare i complici.
Questo sistema di doppio standard è un trionfo di ipocrisia, una forma d’arte che ci ha resi famosi in tutto il mondo.
Non solo accettiamo i mafiosi nella politica, ma ci troviamo anche a sorprenderci quando le elezioni non vanno esattamente come ce lo saremmo aspettati.
È come se avessimo un occhio per la condanna pubblica e l’altro per il segreto appoggio a chi la mafia la fa funzionare.
Che bellezza!



Tiziana Ferrario ha catturato perfettamente l’essenza di questa paradossale commedia: “La mafia in Italia è come un virus che non solo infetta il corpo politico, ma che trova anche terreno fertile in una società che applaude i suoi martiri e chiude un occhio sui suoi attivi sostenitori”.
Questo è il trucco di magia più ingegnoso: un popolo che canta “Libertà” e si preoccupa di sistemare tutto il resto con la stessa nonchalance con cui si aggiusta una cravatta.



I media italiani sono maestri nell’arte del dramma e della distorsione.
I film e i programmi televisivi che glorificano la mafia non fanno altro che perpetuare la visione romantica del crimine organizzato.
Non è solo una questione di raccontare storie; è un modo per rendere il crimine sexy, affascinante, quasi irresistibile.
La mafia diventa una sorta di anti-eroe, e il pubblico, complice inconsapevole, continua a tifare per il cattivo che ama a dispetto della sua malvagità.



Leonardo Sciascia non ha risparmiato critiche a questa deformazione: “Il vero danno è che la mafia non solo corrompe, ma si glorifica attraverso una narrazione che la trasforma da mostro in mito”.
I media non solo raccontano il crimine, ma lo vendono come se fosse il miglior prodotto sul mercato, mentre la nostra società, affascinata e distratta, continua a credere nella farsa.



In conclusione, il nostro paese vive una commedia dell’assurdo dove la celebrazione delle vittime e la promozione dei complici della mafia sono due facce della stessa medaglia.
Questa schizofrenia collettiva non è solo un fastidioso paradosso; è una tragedia che riflette il nostro fallimento nel confrontarci con la realtà.
Se vogliamo davvero onorare le vittime della mafia, dobbiamo smettere di eleggere i loro assassini.
È tempo di svegliarsi e di smettere di accontentarci di una coscienza pulita che, in realtà, è sporca di compromessi e ipocrisie.



Dobbiamo smettere di applaudire i martiri mentre tacitamente accettiamo i loro avversari.
Solo allora potremo sperare di costruire una società che non sia solo brava a piangere sui morti, ma anche capace di combattere e vincere contro il male che continua a corromperla.



 

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