Cronaca

#ParlareCivile, le parole giuste per la formazione di una società inclusiva

ROMA, 19 APRILE 2013 - «Non esistono parole sbagliate. Esiste un uso sbagliato delle parole». La frase, scritta dal sociologo Enrico Pugliese e scelta per la quarta di copertina del libro “Parlare civile. Comunicare senza discriminare” (Mondadori, 2013), ben sintetizza il senso del volume, scritto da Federica Dolente, Giorgia Serughetti e Raffaella Cosentino e curato dall'agenzia di stampa Redattore Sociale.

La scelta delle parole, specie per chi opera nel mondo dell'informazione e della comunicazione, non è mai innocua. Né sono innocue e neutrali le parole stesse. Ciascuna di esse ha un preciso significato e, a seconda del contesto e delle modalità con cui vengono usate, veicolano un preciso messaggio. È una regola che vale sempre, ma assume una particolare rilevanza nel momento in cui si affrontano tematiche – disabilità, genere e orientamento sessuale, immigrazione, povertà ed emarginazione, prostituzione e tratta, religioni, Rom e Sinti, salute mentale. Queste le otto macro-tematiche affrontate nel libro - per le quali è forte il rischio di alimentare discriminazioni attraverso un uso scorretto del linguaggio.

La pubblicazione di “Parlare Civile”, un libro che ha il merito di fornire un valido aiuto sulla scelta delle parole più appropriate da utilizzare nell'ambito della comunicazione sociale e non solo, con numerosi esempi di parole scorrette o mal utilizzate, è stata al centro di un seminario organizzato da Redattore Sociale, svoltosi ieri a Roma e incentrato proprio sul corretto utilizzo delle parole nell'ambito della comunicazione sociale. Si tratta – come ha spiegato Stefano Trasatti, direttore dell'agenzia di stampa, durante il seminario di ieri – di un primo gradino verso la realizzazione di un lavoro molto più grande che vedrà la luce in autunno con la creazione di un sito internet che verterà proprio su queste tematiche.[MORE]

Durante il seminario di ieri si sono susseguiti interventi e tavole rotonde con giornalisti, esperti di comunicazione, operatori del sociale e intellettuali sensibili alle tematiche affrontate nel libro e impegnati nella lotta contro le discriminazioni, i quali hanno discusso di come le parole possano essere “muri o ponti”, di come il loro utilizzo corretto o sbagliato possa “creare distanza o aiutare la comunicazione”, e di quanto sia imprescindibile per chi opera nel mondo della comunicazione utilizzare le parole appropriate ai contesti, non dimenticando mai che le stesse parole, utilizzate in contesti differenti, possano essere appropriate, sbagliate o offensive, e di quanto un loro utilizzo scorretto possa contribuire ad alimentare stereotipi e a favorire le discriminazioni.

Non è possibile qui esaminare ogni parola presente all'interno del libro. Per ognuna di esse, come ha evidenziato nel suo intervento la giornalista Daniela De Robert, potrebbe essere oggetto di uno specifico seminario. Si pensi, ad esempio, all'utilizzo smodato e il più delle volte scorretto del termine “clandestino”, usato troppo spesso, a torto, come sinonimo di “migrante”. Un termine scarsamente usato nel contesto delle migrazioni fino a pochi anni fa – cioè fino all'approvazione della legge Bossi-Fini, nella quale, peraltro, il termine clandestino non è presente – ed entrato prepotentemente nel linguaggio della comunicazione per indicare qualsiasi straniero che entra in Italia in violazione delle leggi sull'immigrazione. Il suo utilizzo ossessivo ha contribuito ad alimentare gli stereotipi sulla presunta pericolosità degli stranieri e ha dato man forte alla retorica secondo la quale un immigrato irregolare è necessariamente criminale, fuorilegge e delinquente. Un'equiparazione poi di fatto sancita per via legislativa con l'introduzione del reato penale di immigrazione illegale punibile con il carcere, poi bocciato dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. A dimostrazione del fatto che «sulle parole sbagliate si costruiscono politiche sbagliate», come ha evidenziato durante il seminario di ieri Giulio Marcon.

Discorsi simili possono essere fatti per ciascuna parola o espressione presente nel libro, anche in ambiti differenti rispetto a quello relativo all'immigrazione. Si pensi al frequente utilizzo dell'espressione “delitto passionale”, che si legge spesso nelle cronache relative ai femminicidi – parola corretta entrata nell'uso comune solo da pochissimo tempo – il cui utilizzo sottintende una parziale giustificazione dell'omicida e, di conseguenza, una colpevolizzazione della vittima.

Se usare le parole giuste per descrivere determinati fenomeni è imprescindibile per gli operatori della comunicazione e dell'informazione, dall'uso di un corretto linguaggio non possono essere esclusi tutti gli altri cittadini, i quali, come ha evidenziato nel suo intervento Loredana Lipperini, devono essere «responsabili delle parole che scrivono», in un contesto sociale nel quale chiunque ha la possibilità di comunicare pubblicamente attraverso la rete.

Il linguaggio, si sa, è in continuo mutamento, così come sono in continuo mutamento le società. Parole che fino a pochi anni fa erano considerate corrette e di uso comune, oggi possono risultare inappropriate e addirittura offensive. Senza cadere nell'estremo opposto del “politically correct” a tutti i costi, correndo il rischio di utilizzare una terminologia ridicola e anch'essa inappropriata, è sempre opportuno seguire una regola generale ben spiegata ieri da Luigi Manconi: rispettare il diritto di ogni persona all'autodeterminazione di sé, attraverso l'utilizzo di termini con i quali ogni soggetto definisce se stesso in rapporto con gli altri.

Per chi è convinto che “parlare civile” sia possibile e che il linguaggio serva a contribuire al miglioramento della società, il libro curato da Redattore Sociale è un'utile guida, che costringe a interrogarsi su quanto le parole siano uno strumento politico e su quanto esse possano servire a creare una società inclusiva e rispettosa dei diritti di tutte le minoranze, il primo dei quali è il diritto alla dignità di esseri umani.

Serena Casu