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"Paranormal Activity 4", quei vecchissimi spettri in videochat

È ufficiale: per diventare spettatori di Paranormal Activity serve molta pazienza. Giunti al quarto capitolo della serie, si può affermare che “lo stesso film” è stato ripetuto, praticamente, per la quarta volta. E non si tratta di un’impressione rafforzata dal fatto che il produttore sia sempre lo stesso (Oren Peli, regista del primo film), o che, a differenza del cambio di guardia dietro la macchina da presa dei primi tre capitoli, questa volta siano stati riconfermati i due registi del terzo (H. Joost, A. Schulman). Il problema – o la consuetudine furbamente piacevole: de gustibus – è che la struttura resta la medesima: acclimatamento in una casa; prime manifestazioni paranormali, scetticismo iniziale, sospetto e panico crescenti, 20 minuti finali di orrore più insistito, ultimissima scena da brividi. Solita pappa, insomma: ma non vuol dire che non possa avere un retrogusto tutto sommato saporito.

Premessa alla trama – che è scarna, ma esiste: il film è il prequel del primo, ma si colloca dopo il secondo. La scomparsa di Katie (Katie Featherston) assieme al neonato Hunter, infatti, è rievocata nelle prime battute. Cinque anni dopo, in un’altra casa, la famigliola alle prese con l’entità diabolica è composta da genitori (piuttosto anonimi), la figlia adolescente Alex (Kathryn Newton, molto naturale e credibile) ed il fratellino Robbie. Bazzica l’abitazione anche il ragazzo di Alex, Ben (Matt Shively). La famiglia accoglie poi il piccolo Wyatt (Aiden Lovekamp), bambino dei vicini, la cui madre è stata ospedalizzata. È Alex ad accorgersi di qualcosa di paranormale. E soprattutto del fatto che, pare, la madre di Wyatt non stia poi così male.[MORE]

Paranormal Activity 4, nel formato ormai immancabile del found footage, sembra ripetere l’esperimento di Diary of the Dead di George Romero: quando un tema è stato iper-sfruttato – nel caso di quest’ultimo, quello degli zombie – una boccata d’aria nuova può venire da un’estetica modernizzante. Ma, appunto, modernizzante e moderno non sono la stessa cosa: anche sostituendo, alle solite videocamere, supporti di più raffinata tecnologia come videochat, Macbook, telefoni cellulari e perfino il sensore ad infrarossi di Kinect (estensione della Xbox360 che rileva i movimenti delle persone per consentire la simulazione del videogioco), l’effetto visivo appare grosso modo lo stesso, con anzi qualche forzatura di troppo rispetto ai precedenti capitoli. Non si capisce, ad esempio, perché nel panico della fuga finale, Alex porti con sé la videocamera. Il confine tra credulità sospesa ed esser fessi si fa pericolosamente labile.

Il primo Paranormal Activity era stato realizzato con un sputo (15000 dollari di budget), per poi incassare 193 milioni di dollari (i protagonisti erano stati pagati 500 dollari!). Della serie, per ora Paranormal Activity 4 è risultato quello più deludente ai botteghini. Eppure il profitto è ancora mostruoso: solo nel primo weekend, a fronte di un budget di 5 milioni di dollari, ne sono stati incassati 26. Ancora oggi, il pubblico reagisce così, come mostra un video da Youtube: 



Il giocattolo, dunque, non s’inceppa – tanto più considerando che ad Halloween 2013 è già programmata l’uscita di Paranormal Activity 5. Qualche punto a proprio favore, d’altronde, il film lo segna, a giustificare la fidelizzazione. In prima istanza, la riduzione di qualità della visione, con l’utilizzo di supporti di ripresa diversi dalle camere HD del protagonista del terzo film, valorizza la caratterista atmosfera ombrosa dell’opera, dove movimenti a volte repentini, altre impercettibili, creano indubbiamente un’avvolgente inquietudine al ralenti. Il formato visivo della prima pellicola, dunque, viene ad un tempo ripreso e rinnovato. Ancora coerente, inoltre, è la gestione complessiva della storia tra un film e l’altro: il disegno complessivo della serie si fa sempre più chiaro, e forse per la prima volta certi riferimenti ai film precedenti diventano indispensabili, privando però Paranormal Activity 4 del suo aspetto di film concluso in sé.

Ma è un altro l’aspetto larvatamente schiantante dell’opera, anch’esso in parte riciclato, in parte riformulato. Il fatto che spesso la giovane Alex porti con sé il pc portatile, mentre chatta col ragazzo, produce delle riprese che mai come adesso rendono esplicita l’influenza del progenitore dichiarato, The Blair Witch Project. Si tratta di uno sviluppo che si era già registrato dal punto di vista tematico nel terzo film, con la svolta “stregonesca”, ma che ora diventa lampante nel finale davvero agghiacciante. Così come, tuttavia, il filone sabbatico si era innestato su quello della possessione, e quest’ultimo, prima ancora, si era inserito nel solco della “casa infestata”, in Paranormal Activity 4 a questo pout pourri dell’orrore si aggiunge l’ingrediente del bambino malefico, altro topos di genere. Tra i tanti collegamenti possibili, quelli che appaiono più sensati appaiono Rosemary’s Baby di Roman Polanski – soprattutto nel finale – e, naturalmente, The Omen di Richard Donner.

In bilico tra macchina sforna-soldi e reinvenzione della saga horror, collaudata ripetitività e timidi tentativi di aggiornamento, immobilismo e scossoni, Paranormal Activity 4 si adagia sul cliché del found footage, citando ed auto-citandosi, ma almeno compone il già visto con diligente maestria. Da morire di paura, a patto che prima non si muoia di noia.

Titolo originale: id.
Regia:
Henry Joost, Ariel Schulman
Interpreti:
Katie Featherston, Kathryn Newton, Matt Shively, Sprague Grayden, Brady Allen
Origine:
USA, 2012
Distribuzione:
Universal Pictures
Durata:
88'

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Antonio Maiorino