Paolo, adolescente: Ecco perché sono diventato un bullo!
La strada della vita Lazio Roma

Paolo, adolescente: Ecco perché sono diventato un bullo!

martedì 2 ottobre, 2018

Paolo, adolescente: Ecco perché sono diventato un bullo!

Seduta al tavolino del bar dell’ospedale aspetto il mio cappuccino. Fuori fa freddo; la primavera è appena iniziata, e l’aria è gelida…

Inaspettatamente vedo entrare Paolo. Abita nel mio quartiere e frequenta la stessa scuola di mia nipote. È un ragazzo dall’aria tranquilla, ma so che in passato si è reso protagonista di episodi di bullismo. Secondo alcune persone, comuni conoscenze, sembra che sia stato addirittura il terrore della scuola media che frequentava. Aveva accumulato lunghi periodi di sospensione, e cosi ha dovuto ripetere l’anno.

Mi guarda e accenna un saluto; io ne approfitto per invitarlo al mio tavolo. Mi sembra sorpreso, e anche un po’ diffidente, ma… accetta!

«Perché?» mi chiede curioso.

Fingo di non capire: «Perché cosa?».

«Per quale motivo mi inviti al tuo tavolo e mi offri un cappuccino?».

«Te lo spiego subito: voglio farti una proposta. Sto scrivendo un libro sull’adolescenza; sto raccogliendo storie particolarmente significative, non banali; le testimonianze di ragazzi che hanno vissuto situazioni difficili, che potrebbero interessare i loro coetanei e, forse, anche i loro genitori.

So che tu hai attraversato un momento di sbandamento, e…».

Non essendo preparata a quell’incontro, nemmeno io avevo ancora le idee chiare su come formulare la mia proposta, e il discorso mi è venuto fuori un po’ tentennante. Lui non mi lascia finire e fa l’atto di alzarsi.

Decido di giocare subito la carta più importante: ora o mai più. Cercando di dare alla voce l’intonazione più convincente possibile, e ricordandomi di aver sentito dire che Paolo è perdutamente innamorato di un’amica di mia nipote, che a sua volta prova un certo interesse per lui ma è ostacolata dai genitori per via della cattiva reputazione del ragazzo, azzardo la mia mossa:

«Aspetta! Ascolta un momento quello che voglio proporti. Lasciami parlare e poi decidi… Fallo per Lilli».

«Cosa c’entra Lilli?».

«Siediti e ne parliamo» gli dico, congratulandomi intanto con me stessa per aver trovato all’ultimo momento il pulsante giusto.

«Avanti allora, ma fa’ presto».

Si siede. Arrivano i cappuccini; comincia a sorseggiare, e intanto mi pianta in faccia uno sguardo indagatore, mentre aspetta che cominci a parlare.

«Nel mio libro ci sono tutte storie di ragazzi e ragazze che hanno vissuto un’esperienza particolare. Ma non sono ancora riuscita a trovare adolescenti che abbiano avuto a che fare con il bullismo. Ho sentito dire che tu alle medie ti comportavi da prepotente e, a volte, da violento; ma so anche che adesso hai cambiato vita: sei diventato uno studente modello e mi dicono che fai del volontariato. L’ho saputo da mia nipote, che mi tiene al corrente di ciò che succede a scuola».

«E allora?» mi chiede, sempre più preso.

«Allora io vorrei raccontare la tua storia, e i motivi del tuo cambiamento… Ovviamente, non scriveremo niente che possa ricondurre direttamente a te. Daremo solo ai lettori la possibilità di mettere in relazione queste due fasi della tua vita, e capire, così, come si possa cambiare, diventando ragazzi per bene: li aiuteremo, cioè, a comprendere che dietro ogni storia di bullismo c’è in realtà un problema esistenziale».

«Tu che ne sai dei miei problemi?» ribatte, in tono provocatorio.

«Adesso posso solo fare delle supposizioni, ma se tu me li racconti possiamo decidere insieme cosa scrivere. So che fra pochi giorni diventerai maggiorenne… Rivelando la tua storia, anche se con un nome di copertura, possiamo aiutare quegli adolescenti che, in questo momento, stanno vivendo una vita sbagliata, fatta di rancore e di violenza».

Lo vedo più rilassato.

«Ho letto qualche pagina del tuo libro 110 e lode, una storia d’amicizia, e mi è piaciuto; mi sono anche ripromesso di leggerlo tutto».

È fatta.

«Grazie, Paolo; vuoi parlarmi un po’ di te?».

Accendo il registratore e aspetto con calma che inizi il suo racconto.

«Da piccolo ero un bambino difficile. Non volevo andare a scuola, non volevo praticare sport, e non volevo mangiare quello che era in tavola. E allora prendevo le botte da mamma e da papà. Mi picchiavano per ogni cosa, e io diventavo sempre più cattivo. Ricordo che una volta mia madre, che era particolarmente nervosa, e che forse aveva bevuto, mi percosse più duramente del solito perché non avevo voluto mangiare i cavoli, che a me facevano schifo. Poi mi chiuse nella mia stanza per punizione.

A quell’epoca avevamo una gattina che io adoravo. Venne a farmi le fusa; io la presi in braccio e la strinsi al petto. Il calore del suo corpo mi consolava.

Non so cosa sia scattato nella mia testa: improvvisamente presi la gattina e la scaraventai per terra. La sentii gemere e la vidi rotolarsi e mugolare per il dolore… I suoi occhi mi fissavano, terrorizzati.

Provai sollievo: anch’io ero capace di infliggere sofferenza agli altri.

Mi sedetti accanto a lei, che continuava a gemere immobile; le presi le orecchie fra le dita, stringendogliele con forza. La gattina raccolse le energie e scappò, rintanandosi sotto un mobile.

In quel momento avvertivo una strana sensazione; non era una cosa negativa: ero esaltato, compiaciuto; avevo provato di essere forte, di essere anch’io capace di fare del male.

A scuola c’era un compagno dall’aria mite, sofferente; era orfano di entrambi i genitori, morti in un incidente d’auto.  Si chiamava Orazio, e di solito cercavo di aiutarlo, perché mi faceva pena. Viveva con la nonna, in condizioni economiche molto precarie.

Ricordo che, una volta, era arrivato a scuola più depresso che mai: la nonna non aveva potuto dargli i soldi per la gita. La maestra, accortasi dello sconforto del ragazzo, aveva fatto una colletta fra le colleghe e racimolato la somma necessaria per farlo partecipare. La diede direttamente a Orazio, affinché la consegnasse alla persona che si interessava delle iscrizioni.

Mi venne un’idea. Riuniti i miei tre amici più intimi, proposi loro di fargli uno scherzo. Gli altri non erano entusiasti della cosa, anzi: dovetti fare pressione per convincerli. Uno, in particolare, disse chiaramente che, secondo lui, si trattava di una carognata. Allora io lo presi per il collo e gli gridai, inferocito: ‘O dentro, o fuori!’.

‘Va bene… ma… non è una cosa bella…’ farfugliò.

In quel momento mi sentii un leone: l’avevo intimorito.

Antonia, non puoi capire come tanti ragazzi siano soggiogati dalla violenza, come siano sempre disposti a seguire il più forte…

Aspettammo Orazio all’uscita dell’aula e lo accerchiammo. Io lo presi sottobraccio e gli intimai di consegnarci i soldi, minacciandolo che, se la cosa si fosse saputa, lo avremmo riempito di botte.

Lessi nei suoi occhi terrore e sottomissione; non osò aprire bocca, ci consegnò i soldi e scappo via.

In quel momento sentii che la rabbia impotente che avevo tanto a lungo covato dentro di me diventava soddisfazione: tutto il male che mi era stato fatto potevo restituirlo! Certo, a persone innocenti, che non avevano niente a che fare con la sofferenza che mi era stata inflitta, ma che importava? Avevo trovato il modo di liberarmi del dolore.

La mattina seguente aspettammo all’entrata della scuola Orazio, che, ormai, era diventato la nostra vittima, e dopo averlo accerchiato lo minacciammo di morte. Avrebbe dovuto dire alla prof di essere stato lui stesso a perdere i soldi, altrimenti lui e la nonnetta avrebbero passato un brutto guaio. Giurò che non avrebbe mai fatto parola con nessuno delle nostre intimidazioni.

Cominciò così la mia affermazione nel gruppo. Mi ripetevo in ogni occasione che ero io il più forte. Ne ero talmente convinto che, ben presto, altri due componenti si aggiunsero al branco.

Ognuno di noi aveva in antipatia qualche compagno, e, allora, tutti insieme lo pestavamo con un pretesto; gli distruggevamo il cellulare o gli tagliuzzavamo i vestiti.

Un giorno una vecchietta ci rimproverò per il baccano che stavamo facendo in piazzetta, chiamandoci maleducati e teppisti. La seguimmo fino a casa mentre lei, con molta difficoltà, camminava con il deambulatore. Quando l’anziana signora varcò ignara il portone entrammo anche noi. La spingemmo violentemente, e lei cadde gridando; poi fuggimmo via veloci lasciandola per terra.

In famiglia, invece, avevo cambiato tattica: ero più accondiscendente e cercavo di trarre in inganno i miei facendogli credere che ero cambiato. La gattina, però, quando io ero a casa andava a nascondersi sopra l’armadio della camera di mamma.

Un giorno papà tornò nero e, senza chiedermi spiegazioni, mi prese a cinghiate: aveva saputo della bravata della vecchietta. Ormai, nel quartiere, il mio branco cominciava ad essere conosciuto. Dopo avermi massacrato di botte, mio padre uscì con la mamma per andare al lavoro. Rimasto solo, mi ricordai della scala che i miei tenevano nello sgabuzzino e decisi di usarla per agguantare la gatta che si era rifugiata sul guardaroba. Rendendosi conto delle mie intenzioni, la bestiola mi si avventò contro, facendomi cascare dalla scala. Dopo essermi ripreso dalla caduta la cercai per tutta casa. La scovai, alla fine, nascosta in camera mia; riuscii a prenderla e la seviziai fino a quando non smise di respirare. Allora cessai di percuoterla e, infilatala in una busta, andai a buttarla nel bidone dell’immondizia.

Rientrato a casa, per la prima volta mi sentii smarrito e colpevole. La mia gattina non c’era più… Raccolsi la sua ciotola e mi misi a piangere: era da tempo che non lo facevo. Mi sentii una bestia; avrei voluto essere punito, e questa volta con giusta ragione. Il lamento straziante della micetta rimarrà per sempre nella mia memoria. Quando mamma scoprì che avevo ucciso il povero animale ebbe un infarto e fu ricoverata. Io, convinto di dover subire delle conseguenze per quanto avevo fatto, rimasi per giorni nella mia stanza, pregando perché mamma guarisse. Finalmente si riprese, e il suo ritorno a casa segnò un cambiamento: questa volta invece delle cinghiate, che sarebbero state pienamente meritate, mi fu prenotato un appuntamento con uno psicoterapeuta.

I miei genitori stavano cominciando a capire che tutte le botte che mi avevano dato, convinti di educarmi nel modo migliore, avevano fatto di me un mostro.

La morte della gattina e la malattia di mamma mi hanno fatto capire quanto sbagliavo a riversare il mio odio sui più deboli».

La mia intervista non è ancora completa; dopo qualche istante di pausa lo sollecito nuovamente:

«Fra pochi giorni compirai diciotto anni. Vorrei sapere come hai vissuto il dopo bullismo…».

«Alcune tra le persone che conoscono la mia storia e il percorso che ho attraversato cominciano a ridarmi un po’ di fiducia; ma, ovviamente, mantengono molte riserve, e so che ce ne vorrà prima che ricomincino a fidarsi completamente di me…».

«Paolo, hai un messaggio per gli adolescenti che hanno vissuto o stanno attraversando un’esperienza simile alla tua? Questa testimonianza, lo spazio che avrai in questo libro, possono essere una bellissima occasione…».

«Vorrei dir loro tante cose per convincerli a rispettate il prossimo. Io ci sono passato, e posso garantire che voler diventare dei modelli per gli altri sul piano della prevaricazione e della violenza non porta niente di buono. È una strada che conduce alla distruzione della propria personalità e sporca la giovinezza.

Grazie, Antonia!».

«Grazie a te, Paolo. Io credo che la personalità di ognuno di noi abbia una componente violenta che, in fondo, è uno strumento di sopravvivenza. Comprendere questo è importante, perché la consapevolezza di possedere un lato oscuro ci può aiutare a tenerlo a bada, consentendoci di non danneggiare gli altri, innanzitutto, ma anche di salvaguardare noi stessi».

Storia vera tratta dal libro,  (L'adolescenza...un volo di farfalla" di Antonia Caprella)

Antonia Caprella


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