Palermo: dopo trent'anni riaperto il caso Bosio, vittima della guerra tra cosche mafiose
Cronaca Sicilia

Palermo: dopo trent'anni riaperto il caso Bosio, vittima della guerra tra cosche mafiose

lunedì 21 novembre, 2011

PALERMO, 21 NOVEMBRE 2011 - La voce è spezzata dall’emozione, le lacrime trattenute a fatica. La vedova di Bosio racconta nell’aula della Corte d'Assise di Palermo, al processo che vede come unico imputato il boss mafioso Antonino Madonia, i terribili momenti di quel tardo pomeriggio di trent'anni fa in via Simone Cuccia, in cui il marito, Sebastiano Bosio, primario di chirurgia vascolare all’ospedale Civico, venne ucciso davanti ai suoi occhi. [MORE]

"Eravamo appena usciti dallo studio medico. Mio marito si trovava qualche passo davanti a me perché stava andando a prendere l'auto. Io ero girata. All'improvviso ho sentito una voce che diceva "dottor Bosio". Pensavo fosse un paziente. Dopo una frazione di secondo ho sentito gli spari, mi sono girata e ho visto un giovane, in jeans e maglione che ha iniziato a sparare contro mio marito e ha continuato anche quando mio marito era già a terra, morto. Non dimenticherò mai il suo sguardo di ghiaccio". E quegli occhi, nonostante i trent’anni trascorsi, sono indelebilmente impressi nella mente di Rosalba Patania. "L'assassino di mio marito aveva uno sguardo di ghiaccio che non dimenticherò mai nella vita, erano occhi freddi, glaciali”, erano gli occhi di Mario Prestifilippo.

In aula la donna ha raccontato che qualche tempo dopo l'omicidio, sfogliando il Giornale di Sicilia vide una foto ed ebbe l'impressione che quell'uomo fosse il killer del marito. “Chiesi subito di parlare con il giudice, Giovanni Falcone - racconta la donna - mi disse che mi avrebbe sentito volentieri ma non in Tribunale, perché troppo pericoloso. Mi disse che ci saremmo dovuti vedere presso la Caserma dei Carabinieri. Così gli raccontai della foto e mi disse che quella persona era Mario Prestifilippo", mafioso ucciso nel 1987 da Cosa nostra per un regolamento di conti.

Di li a poco iniziarono le ripetute minacce. "In una telefonata - racconta - mi hanno intimato di non mettere più piede in Tribunale. Mi dissero cose terribili"; “Subito dopo un uomo entrò con la sua auto nel mio cortile di casa e io gli dissi di andare via subito lui non mi rispondeva . Era muto e mi guardava. Scese dall'auto e farfugliò qualcosa. Cercava un cantiere o qualcosa di simile. Poi andò via". Ma a queste seguirono tante altre minacce. La figlia Lilli, all’epoca ventenne, nelle stesse ore, incontrò in un circolo un ragazzo "che si presentò come 'Mario'", probabilmente Mario Prestifilippo. Durante la deposizione è anche emerso che la figlia minore, Silvia, era stata fidanzata con Sergio Ciancimino, figlio maggiore di Vito Ciancimino e fratello di Massimo Ciancimino, la vedova racconta anche di un episodio avvenuto tra la primavera e l'estate del 1982 "una sera mia figlia in discoteca venne avvicinata da Vito Ciancimino che le disse: 'mi spiace per tuo padre ma non si è comportato bene con un mio amico, se l'è cercata e lei lo lasciò parlare". Dell’accaduto la stessa Silvia Bosio racconta che quella sera Vito Ciancimino “Cominciò un discorso molto complicato dicendomi che si era comportato male con l'amico di un amico. Mi disse più volte che era corleonese e che mio padre non aveva voluto curare un amico che veniva proprio da Corleone. Mi fece intendere con uno sguardo di disprezzo che mio padre avesse meritato di morire...".

Furono proprio queste ripetute minacce ad indurre la vedova Bosio a tornare da Falcone per ritrattare "Credo di essermi sbagliata sulla foto di quell'uomo", disse al magistrato. "Lui mi guardò e non disse nulla. Ma non gli dissi perché decisi di ritrattare e Falcone disse: 'non si preoccupi'. Capì la mia paura. Nel '90 chiedemmo la chiusura delle indagini perché non era venuto fuori nulla".
 

Dal banco dei testimoni, interrogata dal pm Sava, la vedova Bosio parla anche di una burrascosa telefonata, avvenuta pochi giorni prima dell’omicidio, tra il marito e Giuseppe Lima, l’allora dirigente del Civico “A Lima urlò che non lo avrebbe fatto nemmeno se fosse sceso in terra il Padreterno e se continui ti denuncio. Quando chiuse disse di non preoccuparmi ma ero spaventata. Forse parlava di un ricovero di qualcuno. Di chi parlavano non so. Ma all’epoca veniva spesso ricoverato anche Vittorio Mangano”.

Rosalba Patania non è sola, a combattere con lei questa difficile battaglia ci sono anche le figlie, Lilli e Silvia. Anche loro non hanno dimenticato. In tutti questi anni hanno lottato con tutta la loro determinazione affinché il padre ottenesse il riconoscimento a vittima di Cosa nostra. Sono determinate ma anche molto arrabbiate perché dicono “c'è ancora chi sa ma non vuole raccontare la verità”. "Mio padre non era da solo nel reparto che dirigeva all'ospedale Civico - racconta Silvia Bosio - spero che dopo tanti anni qualcuno parli". "Abbiamo subito trent'anni di umiliazioni - prosegue - di sguardi di traverso delle persone, i giudici quando ci sentivano non ci guardano negli occhi. Il pm dell'epoca, Domenico Signorino, se n'è fregato. Quando si uccise non mi stupii. Per trent'anni i bossoli sono rimasti nascosti in un cassetto - si sfoga ancora la figlia della vittima - ho tormentato per anni i magistrati".

Le tre donne hanno deciso di porre fine a questo fin troppo lungo silenzio. Ora pretendono verità. “Basta col silenzio. Lo diciamo all’intera città, ai colleghi di papà, a noi stesse. Uno tace quando ha qualcosa da nascondere” dicono le figlie; un esplicito appello raccolto dalla Corte che per il 20 dicembre ha convocato anche alcuni colleghi di Bosio. Un modo per riportare a galla quegli strani movimenti che avvenivano al Civico che, stando a quanto riferisce la moglie, lo stesso Bosio definiva “un concentrato di malaffare”, dove era usuale pratica far trasferire, grazie alla complicità di alcuni medici, i loro padrini dall’Ucciardone nei comodi reparti ospedalieri. Una pratica a cui il Professor Bosio non si è voluto piegare. Per questo è morto.

Sara Marci


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