Cultura e Spettacolo

Our War: occidentali che lasciano tutto per combattere l'Isis

'’Sometimes in your life you just got to fight, fight for what’s right’’ 

 

ROMA, 26 GENNAIO - L’associazione mentale foreign figters - stato islamico - martiri ci consente di intuire, se non troppo comprendere, il profilo psicologico di chi abbandona tutto per lottare dalla parte del Daesh; individui che spesso non hanno nulla da perdere, esclusi da una società che non li accetta e che hanno maturato una rabbia interiore tale da fare attecchire la visione più integralista dell’islamismo. Ma chi sono i volontari internazionali partiti per la Siria, a combattere l’autoproclamato Stato islamico?[MORE]

Le storie di tre di loro sono state raccolte in Our War, il documentario di Benedetta Argentieri, Bruno Chiaravalloti e Claudio Jampaglia, che in 68 minuti apre uno spaccato su una realtà inedita e ancora poco conosciuta rispetto ai “foreign fighters” del terrorismo islamico, di cui spesso si sente parlare. Sono Karim, Joshua e Rafael, rispettivamente provenienti da Italia, America e Svezia: tre ragazzi che per motivi diversi hanno scelto di abbandonare le proprie certezze e benessere, per arruolarsi come volontari alle Unità di Protezione Popolare (YPG), le milizie curde che controllano la regione Nord Est della Siria, denominata Rojava.

Il documentario, presentato lo scorso 24 gennaio al Cinema Caravaggio di Roma, dopo il Fuori Concorso al Festival del Cinema di Venezia, riunisce i filmati dei tre ragazzi che immergono lo spettatore direttamente nelle postazioni di tiro, a pochi metri dalla prima linea di fuoco dell’Isis, luoghi che fanno da sfondo talvolta a momenti di tensione, rabbia, dolore per i compagni persi, altre volte ad abbracci, attimi di soddisfazione dopo un attacco andato a buon fine, o commozione, quando i villaggi liberati e impegnati nella ricostruzione dedicano il nome delle nuove strade ai martiri - gli shadid - dello YPG.

 

Le storie dei protagonisti:

Karim Franceschi (in foto copertina) Madre marocchina, padre italiano e partigiano, ha fatto studi superiori classici, è appassionato di scacchi ed è stato un buon pugile dilettante. Dopo anni di militanza nei centri sociali e nelle reti antirazziste, ha iniziato a occuparsi delle carovane di aiuti per i rifugiati della guerra civile siriana, arrivando sul confine turco-siriano e nei campi profughi a Suruç. Lì ha capito che voleva entrare nel conflitto da protagonista, così nel gennaio 2015, si è presentato come volontario nello YPG a Kobane, nel pieno dell’assalto di Isis alla città. In pochi giorni è finito in prima linea e da lì per quattro mesi ha seguito l’avanzata YPG fino all’Eufrate, prima come assaltatore e poi come tiratore scelto. Nei suoi quattro mesi di guerra ha girato con la sua camera amatoriale tre ore di filmati. E dopo qualche mese in Italia, è tornato in Siria a combattere. Nel 2016 ha pubblicato per Bur-Rizzoli, con Fabio Tonacci: “Il Combattente - Storia dell’italiano che ha difeso Kobane dall’Isis”.

Joshua Bell Nato e cresciuto in una fattoria del Nord Carolina. Dopo la scuola si è iscritto a sociologia, ma presto ha capito che non faceva per lui e si è arruolato nei Marines con cui è stato due volte in missione in Iraq e una in Afghanistan. Una volta terminato il suo impegno militare ha cambiato molti lavori – ha persino partecipato al reality show “Naked and Afraid” su Discovery Channel – non riuscendo mai davvero ad abituarsi alla vita da “civile”. Poi l'Isis ha invaso l'Iraq, e ha deciso di tornare nel Paese dove aveva combattuto come volontario nello YPG, uno dei primi foreign fighters a unirsi ai curdi. Negli undici mesi di guerra con i curdi ha gestito un’armeria, costruito bombe, guidato carri armati e difeso villaggi in prima linea. L’amore lo ha poi portato via dal fronte ma si è ritrovato esausto, senza un soldo ed è tornato negli Stati Uniti con la bandiera dello YPG in tasca.

Rafael Kardari Nato e cresciuto in Svezia, da genitori curdo-iracheni. Da ragazzo era una testa calda del quartiere e dopo aver abbandonato gli studi, si è dedicato alla sua passione: la musica, per poi iscriversi a un corso professionale di sicurezza. Oggi lavora come guardia del corpo per persone sotto grave minaccia – in particolare donne vittime di stalker –, ha un figlio ed è soddisfatto della sua vita. Ha deciso di andare a combattere in Siria, nel novembre 2014, dopo aver visto un video di propaganda di Isis. È stato tra i primi volontari occidentali in Rojava, diventando comandante di un tabur (unità di combattenti) formato in prevalenza da foreign fighters. Al suo quinto viaggio in Siria è stato arrestato dai peshmerga curdo-iracheni insieme ad alcuni compagni e trattenuto per tre settimane in prigione. Dallo YPG ha imparato molto, anche sulle sue origini, ma la sua casa è la Svezia. Nel 2016 ha pubblicato per Fischer & Co. il suo libro – con Daniel Fridell – intitolato: “La vita in gioco” (Med livet son insats).

 


A seguito della presentazione, i registi si sono fermati a rispondere alle domande del pubblico nella sala del Cinema Caravaggio.

Da dove è nato il progetto?
Benedetta Argentieri (una delle registe ndr) è una giornalista che ha iniziato ad andare sul campo nel 2013, ed è stata una delle prime ad accorgersi di questo fenomeno di volontari internazionali ce andavano a combattere, proprio incontrandoli fisicamente in una base militare, e ha iniziato a occuparsene e a seguirli. Fra i vari che ha incontrato vi è anche Karim Franceschi, l’italiano, che le ha proposto delle immagini. Una volta dopo aver visto quelle immagini, il progetto è iniziato e ci siamo adoperati per cercare più storie. Sono arrivati poi dei musicisti che ci hanno sostenuto, fino poi a Venezia.

Quanti sono esattamente i volontari occidentali che combattono l’Isis?
Non c’è un numero preciso, perché lo YPG non lo riferisce, pensiamo siano alcune centinaia provenienti da tutto il mondo: in prevalenza dall’America, molti dall’Australia, Cina, Spagna, Italia, Germania. I volontari che partono hanno caratteristiche molto diverse, che noi abbiamo cercato di mettere insieme nel documentario: dalla militanza politica alle persone che hanno un background militare e vogliono metterlo a disposizione. Ci sono anche alcune donne.

Come si finanzia lo YPG?
Prima di tutto, chi va a combattere è un volontario è non ha uno stipendio. E’ importante sottolineare con non sono mercenari. Per finanziarsi si autotassano a Rojava, hanno poi finanziamenti dalle altre comunità curde nel mondo e altri aiuti militari, in particolare americani.

 

 

Maria Azzarello


Credit: ourwar.net e Vanity Fair