Osservatorio Medio Oriente: un 2015 tra stallo, trappole e catastrofi
Estero Molise

Osservatorio Medio Oriente: un 2015 tra stallo, trappole e catastrofi

mercoledì 7 gennaio, 2015

 DAMASCO, 5 GENNAIO 2015 – Sarebbe confortante pensare che il 2015 possa portare un sollievo alla miriade di problemi che affliggono il Medio Oriente, ma ad essere obiettivi, negli utlimi anni la regione appare più instabile e imprevedibile persino rispetto al passato. I rischi posti dalla sua violenta instabilità risultano di natura globale e si intensificano con spaventosa rapidità. Nessuno può potenzialmente eluderne le minacce, nonostante i musulmani, e in particolare gli arabi, saranno i primi a fronteggiarle già a partire da questo nuovo anno.

La situazione sembrava diversa sei anni fa, quando Barack Obama salì al potere e promise una risoluzione agli scenari in Iraq e Afghanistan. In un famoso discorso al Cairo, nel giugno del 2009, Obama auspicava a un “nuovo inizio” con il mondo musulmano, “basato sul mutuo interesse e rispetto”. L'Occidente e l'Islam non hanno bisogno di essere in competizione, diceva. “Questo ciclo di sospetto e discordia deve terminare”.

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Non è mai successo. Le differenze si sono intensificate negli anni a seguire, la Rivoluzione Araba – e l'ambivalente responso occidentale – ha rivoluzionato le dinamiche della regione, e il baratro di diffidenza nei confronti di Obama si è marcatamente ampliato. In tanti nel Medio Oriente hanno puntato il dito contro lo stato cronico del ripetuto “interventismo straniero”. Eppure, al contrario, proprio il crescente intervento straniero, da un punto di vista militare, diplomatico, finanziario e umanitario, potrebbe oggi essere visto come il migliore e forse unico modo per affrontare le molteplici e connesse crisi in Siria, Iraq, Iran, Turchia, israelo-palestinese e nordafricane. Pressioni da parte dei governi occidentali per un coinvolgimento più diretto potrebbero crescere in maniera esponenziale nei prossimi dodici mesi; ciò potrebbe portare la regione a raggiungere uno stato di ebollizione. Certo, potrebbe tutto funzionare per garantire le migliori soluzioni. Ma non è da escludere che il 2015 possa rappresentare per il Medio Oriente l'anno di una ancor più profonda degenerazione.

La minaccia jihadista

Uno dei principali rischi e pericoli, almeno per determinati aspetti, potrebbe essere inteso nella minaccia jihadista dell'ISIS all'integrità politica e geografica dell'Iraq, includendo i pozzi petroliferi del sud e la ricca regione del Kurdistan, che potrebbe portare ad un nuovo massiccio intervento militare americano, inteso come il ritorno di un significativo numero di truppe. Obama ha ripetutamente escluso il ritorno di “truppe di terra”. Ma a oggi è politicamente indebolito, e si ritroverà inoltre ad affrontare un Congresso conservatore nel 2015. Obama ha già inviato di nuovo delle truppe in Iraq, lasciando il dubbio sulla volontà di mandarne ancora, con l'opzione di ampliare il raggio a Iraq e Siria.

Sia il Pentagono che i generali americani sono d'accordo sul fatto che i raid aerei da soli non sarebbero in grado di sconfiggere l'ISIS. Gli alleati nella regione, fatta eccezione per i curdi, hanno mostrato una certa riluttanza nel fornire personale di terra sia in Iraq che in Siria, dove l'ISIS ha le proprie roccaforti. Numerose manifestazioni di estremisti sunniti, tra cui gruppi legati ad al-Qaida come il fronte al-Nusra, hanno minacciato di destabilizzare – in maniera contagiosa – paesi come il Libano, la Giordania e la Turchia, e peggiorare le condizioni di sicurezza – già più che precarie – in Libia, Yemen e Somalia.

Se gli Stati Uniti intensificheranno il proprio coinvolgimento nel 2015, la Gran Bretagna si sentirà sotto pressione a seguirne l'iniziativa, in ciò che con molta probabilità potrebbe trasformarsi nella terza guerra irachena. L'ISIS ha già minacciato la stabilità dei paesi alleati con gli Stati Uniti attraverso attacchi di rappresaglia, e la presenza di numerosi jihadisti di origini europee nelle file del gruppo renderebbe ancor più possibili le eventualità di atrocità di natura terroristica. I servizi segreti britannici ne sono al corrente, da qui la loro “rigorosa” allerta terroristica.

La minaccia dell'ISIS è resa ancor più pericolosa da numerosi altri fattori. Uno di questi è sicuramente la capacità di fare propaganda e l'astuto utilizzo delle moderne piattaforme di informazione. Un altro importante fattore è la prontezza del gruppo a ignorare i precetti islamici comuni, e a fornire invece personalissime interpretazioni del Corano. Poco conta quanto strenuamente le principali figure dell'Islam abbiano condannato le decapitazioni o lo stupro, ignorate con disprezzo da parte dei militanti dell'ISIS.

Un contesto che lascia pericolosamente intendere il fallimento di una leadership morale e religiosa, che infonde i germi di una guerra interna tra sunniti e sciiti, la quale in teoria metterebbe contro il Pakistan e tutte le monarchie del golfo arabo guidate dall'Arabia Saudita contro gli sciiti d'Iran, gli Hezbollah libanesi, e gli alleati aleviti nel regime siriano di Assad.

Altro aspetto da non sottovalutare è il continuo finanziamento all'ISIS da parte dei ricchi qatarioti e sauditi in tutto il Medio Oriente e in nordafrica, altro elemento basilare dello scisma tra sciiti e sunniti, in cui gli unici a beneficiarne risultano essere in ultima analisi i terroristi stessi. Nel frattempo, la complessiva violenza jihadista continua a far aumentare il proprio bilancio, secondo le ultime indagini effettuate. Più di 5,000 persone sono morte per mano jihadista nel solo mese di novembre, e nonostante a rilento, ostacolate dalla stessa situazione, il bilancio verrà ancora catastroficamente aggiornato.

L'insurrezione dell'ISIS è la lineare erede dell'insurrezione sunnita guidata da al-Qaida in Iraq nella metà degli anni 2000, ma questa volta coinvolge più di un paese. Il generale americano David Petraeus e le sue “chirurgiche” truppe dovettero fronteggiare l'estremismo sunnita nel 2007; Obama e gli alleati potrebbero decidere una soluzione simile per questo 2015.

La catastrofe siriana

La guerra civile in Siria entrerà nel suo quinto anno nel 2015. Il prezzo riguardo le vite umane è sconcertante, e in crescita: circa 200,000 persone sono morte, e più di 3 milioni di rifugiati sono scappati nelle vicine Turchia, Libano e Giordania. Circa ,5 milioni di persone sono state dislocate internamente. E non si parla ancora di processi di pacificazione, i combattimenti proseguono, incontrollati. Le Nazioni Unite, con il loro più grande appello mai lanciato, hanno fatto sapere che nel 2015 non saranno in grado di provvedere al fabbisogno di così tanti rifugiati.

La situazione è insostenibile. La Siria è paragonata al disastro del genocidio ruandese – e, come in quel caso, non è stato fatto abbastanza. Meno di 150,000 siriani hanno ottenuto asilo in Europa; molti stati membri, tra cui la Gran Bretagna, hanno serrato le frontiere e accolto solo una esigua manciata. L'85% degli asili previsti nel 2015 saranno elargiti in Germania. Gli altri paesi preferiscono inviare aiuti umanitari, ma ciò risulta insufficiente di fronte alla portata della catastrofe.

I vicini della Siria stanno esaurendo le loro risorse oltre ogni limite, e stanno allentando i loro sforzi. In Libano si teme che nel 2015 si possa scatenare una crisi sociale legata alle tensioni settarie, persino un ritorno a una guerra civile come quella che devastò il paese negli anni '80. un detonatore che potrebbe pericolosamente propagarsi in combattimenti faziosi anche oltre i confini del paese, come è avvenuto lo scorso ottobre. Le stesse difficoltà sono sostenute dalla Giordania: stando ai dati delle Nazioni Unite, nel paese sarebbero presenti circa 640,000 siriani. Ma il governo parla di numeri che superano il doppio. Si fa fronte all'approvvigionamento di acqua ed energia elettrica, le cui risorse scarseggiano, oltre ai disagi in quanto a cure mediche, sistema scolastico e disoccupazione. Situazione simile anche per la Turchia, nonostante si tratti di un paese più ampio, ma che sta avendo difficoltà ad affrontare l'emergenza. Erdogan, così come la leadership israeliana, ha criticato duramente Assad. Entrambi Ankara e Tel Aviv sono state impegnate in sporadici scontri negli ultimi mesi con le forze siriane.

Il rischio di uno scontro più ampio è scongiurato dall'appoggio dell'Iran al regime di Assad: Teheran sa bene che il governo di Damasco lotta per la sua sopravvivenza, e che la Siria continua a supportare gli estremisti palestinesi, il cui principale obiettivo resta Israele. Il paradosso è che la situazione potrebbe cambiare con una deposizione del regime di Assad; ma ciò porterebbe la Siria nell'anarchia e nel caos, e l'inizio di una nuova e più terrificante fase di terrore.

Ulteriori minacce di un improvviso – e più profondo – caos incombente sulla regione potrebbero giungere dai sospetti di Israele sul programma nucleare iraniano. Non è chiaro se la strada intrapresa sappia pacificamente portare a un accordo tra le parti; sta di fatto che attualmente l'Iran è chiusa nel suo silenzio sin dal 1979, e Netanyahu potrebbe considerare l'opzione, menzionata da tempo, di attaccare personalmente i complessi nucleari iraniani. Le imminenti elezioni in Israele potrebbero portare la popolazione a compiere una mera scelta ideologica: da un lato Netanyahu, che sta rendendo Israele un paese “isolato, chiuso e alienato”; dall'altro l'alternativa di Livni, tendenzialmente più orientato a sinistra, che da tempo accusa il governo di Tel Aviv sulle questioni più spinose, soprattutto sullo stallo dei negoziati con la Palestina.

Altra questione chiave è il monitorato Egitto, che ancora fa i conti con le conseguenze della sua rivoluzione, mentre la Turchia sta vivendo un profondo periodo di deriva islamica che la allontana dalle alleanze e dagli standard dell'Unione Europea. Non manca la Libia, con i suoi problemi “esplosivi” che potrebbero influenzare anche le sorti del vicino Sudan, anch'esso prossimo ad entrare nell'“anno delle elezioni”.

Lo stesso occidente potrebbe ritrovarsi a fare i conti con le proprie debolezze: Obama viene già fuori dalle umilianti mid-term, mentre Hollande in Francia e la stessa Merkel in Germania potrebbero essere sopraffatti da una nuova crisi dell'eurozona e dai dissidi con Putin in Russia. Il tutto con una volontà più o meno esplicita di voler intervenire in soccorso al Medio Oriente con una politica sempre più spostata sul “si salvi da sé”.

Foto: nbcnews.com

Dino Buonaiuto


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