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Nudo Mixteco di Ángeles Cruz premiato a San Francisco, intervista alla regista: il cinema trasforma

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Nudo Mixteco di Ángeles Cruz: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.


Connettersi: è la parola chiave del cinema di Ángeles Cruz – ammesso che il cinema si possa condensare in una parola. La Giuria del Festival di San Francisco 2021 deve essersi connessa col film della regista messicana – anche nota attrice – visto il prestigioso riconoscimento del Critics Jury Award. Hanno problemi di connessione, invece, le protagoniste del film: donne indigene di un villaggio della Mixteca, nello stato di Oaxaca, Messico, che faticano a farsi ascoltare da uomini un po’ patriarchi; ad affermare la libertà dei propri corpi; a vivere il piacere dell’esperienza sessuale senza condizionamenti della società o della memoria. Nel pueblo, se vengono i nodi al pettine a decidere è l’assemblea del villaggio. Due donne che se ne sono allontanate (María, Toña) vi ritornano per causa di forma maggiore (un funerale, una denuncia). Un’altra (Chabela) vive – meglio, subisce, il ritorno del proprio uomo, Esteban. Perché il paesino è luogo di ritorni, per lo più spaesati; e di tradizioni, da prendere perché rassicuranti, o da evadere come gabbie.


LA TRAMA DI NUDO MIXTECO


Tre storie che si intrecciano durante la celebrazione del santo patrono in un villaggio della Mixteca, Oaxaca, nel Messico. María seppellisce sua madre, suo padre la rifiuta e, incerta, propone a Piedad, il suo amore d'infanzia, di andarsene con lei. Esteban torna dopo tre anni per scoprire che Chabela, sua moglie, vive con un altro uomo; infuriato, raduna la gente del villaggio per perseguirla in un'assemblea. Toña rivive il proprio dolore di fronte agli abusi subiti da sua figlia quando torna a confrontarsi con la sua famiglia per proteggerla.


PERCHÉ INNAMORARSI DI NUDO MIXTECO

Il cinema di Ángeles Cruz è fatto di sensazione e silenzio. Chiede allo spettatore di riempire gli spazi del non detto. Non è laconico, ma discreto. Se Nudo Mixteco, nel sollevare la questione del corpo delle donne indigene e della loro libertà sessuale, sembra rivestire anche un valore che oscilla tra l’antropologico e il sociale, sul piano artistico a colpire è la fluidità con cui storie appena sbozzate sappiano diventare familiari frammenti di vita con cui entrare in simbiosi emotiva.


L’INTERVISTA: ÁNGELES CRUZ RACCONTA LOOKING NUDO MIXTECO


ANTONIO MAIORINO: Parto dalla fine. Se dovessi presentare Nudo Mixteco a uno spettatore che non l’abbia visto, e dovessi farlo a partire dalla canzone che compare nei titoli di coda, ossia Semilla de Piedra di Lila Downs, come lo faresti? Mi sembra che nel testo di questa canzone, il sentimento di tornare, della terra, della nostalgia siano molto in linea con Nudo Mixteco.

ÁNGELES CRUZ: credo che il senso della nostalgia sia molto forte. Quando vai via dalla tua terra e poi ci ritorni, pensi che nulla si sia mosso, e invece tutto è cambiato. Allorché ho iniziato a lavorare a Nudo Mixteco, mi è venuta in mente la canzone di Lila Downs che dicevi, mi risuonava nella testa proprio per questo senso del tornare alla propria terra e riprendere quanto in sospeso. Parlando delle donne di Nuxo Mixteco, “territorio” è anche il corpo sul quale le donne indigene non hanno potere di decidere: è lì che nasce la mia esigenza di scrivere il film, dalla necessità che noi donne indigene abbiamo per decidere del nostro corpo.


A.M: visto che apri la conversazione alla questione della comunità indigena, mi piace ricordare, come ho avuto modo di fare in molte interviste, quell’osservazione del pittore Giorgio De Chirico sul fatto che per un artista sia più importante essere originario che originale. Tu sei originaria di una comunità a larghissima maggioranza indigena, vieni da Villa Guadalupe Victoria, San Miguel el Grande. In che modo aver girato un film originario, su comunità che conosci bene, è stato importante per l’identità artistica di Nudo Mixteco?

A.C: penso che una caratteristica del film sia quella di essere stato pensato non tanto per il pubblico all’esterno, quanto per la comunità stessa, per parlare di temi che ho a cuore e che voglio discutere al suo interno. L’assemblea stessa è indicativa di come la comunità sia retta da usi e costumi propri; in questo momento, io stesso sto servendo in rappresentanza dell’autorità. Credo che questo modo di fare ci metta a confronto con noi stessi: c’è chi ti applaude, o ti giudica davanti a tutti con la mano alzata, e questo scranno della democrazia, in qualche modo, investe tutti i membri. L’idea di Nudo Mixteco, dunque, non è quella di presentarsi all’esterno: all’inizio della scrittura, ho lungamente riflettuto sulle nostre questioni interne, su questo perdurante machismo che è difficile da scalfire. Non volevo dimostrare niente a nessuno, all’esterno, bensì mettere sul tavolo argomenti di discussione per il villaggio stesso.


A.M: c’è uno scambio di battute del personaggio di Esteban con un compagno circa il tornare nel proprio villaggio dopo esserne vissuti lontani per diverso tempo. Nel tornare al pueblo, i personaggi vivono più un sentimento di radicamento o una sensazione di sradicamento?

A.C: l’ultima cosa che hai detto è pienamente indovinata. Il disagio della nostalgia dopo tutto questo tempo: torni e senti che non appartieni né qua né là, né dove sei andato, né dove ritorni. Quando ritorni, pensi semplicemente di riprende da dove avevi smesso, ma ti accorgi che tutto è cambiato e che tu stesso sei cambiato. È anche il mio caso: sono partita per studiare e quando sono tornata mi sono sentita in mezzo a due mondi. Ora che torno, questa comunità, posso dire, è cambiata, si sta trasformando; c’è un sentimento di non-appartenenza, sento persino che si genera una sorta di romanticizzazione del villaggio, per cui hai questa idea che sia meraviglioso e poi ti trovi ad affrontare situazioni che non avevi previsto. La gente che ritorna dice di non ritrovarsi, di non appartenere. Siamo cittadini del mondo e in qualsiasi luogo c’è la nostra terra. Ma ora che me lo chiedi e mi ci fai pensare, direi che quando ritorniamo alla mia vera terra c’è un sentimento di tristezza profonda perché sentiamo di non sapere dove siano le radici. Quando siamo partiti le abbiamo lasciate sepolte e quando torniamo le cerchiamo dentro la terra perché non sappiamo se nel frattempo siano cresciute. Soprattutto con la famiglia può essere complicato. È una contraddizione tra cuore e sradicamento, è come l’amletico essere o non essere: un non ritrovarsi.


A.M: la sceneggiatura di Nudo Mixteco è nata da tre monologhi corrispondenti alle tre storie del film. In ognuna di esse, sembra che i monologhi diventino falsi dialoghi: le donne si confrontano sistematicamente con uomini sordi, ottusi, poco inclini all’ascolto. Qual è la conseguenza di aver sviluppato Nudo Mixteco da questa base dei monologhi?

A.C: la struttura determinata dai tre monologhi è quella di porsi in ascolto delle voci. Sento che poche volte ci ascoltiamo davvero, sia uomini che donne: siamo in costante monologo tutto il tempo. Per me era importante sentire quello che i personaggi volevano dire in ogni storia. In quella di Toña  e María  ci sono pochi dialoghi, mentre in quella di Esteban ci sono più conversazioni, col culmine dell’assemblea del villaggio, che mescola il livello personale con quello del comunitario. Il grande personaggio del film è proprio il villaggio, attraverso il funerale, la festa, l’assemblea.



A.M: a proposito di villaggio: il pueblo di San Mateo si converte, in Nudo Mixteco, in un protagonista grazie alla propria voce corale. In che modo hai gestito la relazione tra individuo e collettivo, singolo e comunità? A volte il singolo trova appoggio, altre un rifiuto.

A.C: il momento dell’assemblea abbiamo deciso di realizzarlo improvvisando. Abbiamo parlato del problema di Esteban spiegandolo per come è raccontato nel film: lui parte, Chabela resta e incontra un nuovo compagno, Esteban ritorna e via dicendo. Tutti si sono espressi liberamente su quello che pensavano, perché non c’era sceneggiatura con battute fisse: era importante che la gente potesse prendere le proprie decisioni su questo conflitto, apportando punti di vista diversi e contraddittori. La parte più difficile di Nudo Mixteco è quella di chiedere il permesso alla comunità, ora che il film ritorna, di sollevare una voce critica nei confronti del machismo. È il villaggio stesso a essere il pubblico più complicato.


A.M: con tre storie in 90 minuti, è quasi una questione materiale: sembrerebbe non esserci molto tempo per quell’indagine psicologica che genera l’intimità coi personaggi. Ma il tuo film ci riesce, ed è esemplare in questo senso che la prima delle tre storie, quella di María  che ritorna nel villaggio per il funerale della madre e rincontra la donna che ha amato, ci riesca riducendo al minimo i dialoghi: bastano pochi scambi col padre e si ricostruisce un’intera storia familiare. Visto che sei anche una famosa attrice, ti chiedo: come si costruisce il senso di intimità dei personaggi, guardando alla sfida da entrambe i punti di vista – attrice e regista?

A.C: parlando con le attrici, ho detto loro due cose importanti. La prima è che in queste storie sono molto importanti le sensazioni. La seconda è che la parola completa, ma non è essenziale. Piuttosto, è essenziale ciò che tacciamo, che teniamo per noi, che non confessiamo a nessuno: i pensieri che ci accompagnano nella solitudine prima di addormentarci. La complessità dei personaggi risiede in ciò che non dicono, che non verbalizzano. Nel personaggio di María, per esempio, basta uno sguardo del padre per capire il rapporto col genitore e cosa pensi quest’ultimo sulle donne, mentre María parla pochissimo. Io lancio una parola, il pubblico completa: è intelligente, non lo sottovaluto. Ho sempre pensato che lo spettatore sia molto di più di un ricettore passivo: lo spettatore completa le storie. La sceneggiatura offre pochi spazi e noi li completiamo con le nostre storie, col nostro coinvolgimento, col nostro proprio sentire. Ci succede sempre, almeno nel cinema che sa toccarti; c’è poi anche quel cinema che ti spiega tutto, ma non è quello che piace a me. Io lavoro col cast chiedendo di porre l’accento su ciò di cui non si parla, su ciò che non viene detto.


A.M: qualcosa che si vede in Nudo Mixteco è il nudo, appunto; l’intimità è colta anche negli amplessi, di fronte ai quali la macchina da presa non si tira indietro. Come legheresti questa scelta sia al discorso dell’intimità, sia alla tua volontà di trattare il tema del corpo delle donne indigene e della loro autodeterminazione sessuale?

A.C: alla fine, ho deciso di mostrare il sesso per non lasciarlo nello stesso posto dove sta sempre: nascosto, fino a smettere di esistere. È necessario nominarlo e vederlo, non farlo restare dietro la porta. Ci ho riflettuto non poco in fase di scrittura: bisognava mostrare i corpi femminili che fanno l‘amore, perché tutto questo esiste dal momento in cui ne parli e lo metti sullo schermo. Dopodiché la decisione più importante è stata quella di far scorrere la macchina da presa sui corpi con un percorso sulla pelle che ricordasse, col proprio andamento sinuoso, le stesse montagne che contraddistinguono il nostro territorio. Nel cinema di massa, siamo abituati a dare per scontato l’atto sessuale: c’è un’ellissi, i personaggi hanno già fatto l’amore e andiamo oltre. Mostrarlo per me è stata una delle decisioni di cui sono più soddisfatta: serviva per aprire il tema dell’intimità nella nostra comunità, un valore prezioso che non può essere dato per scontato.



A.M: la centralità del corpo si manifesta anche nell’affiorare del trauma. C’è violenza soprattutto nella seconda storia, con Esteban, ma c’è anche il ricordo di un abuso nella terza, con Toña. Quest’ultima, tuttavia, mi fa pensare anche a un’altra forma di violenza: i suoi amplessi sono passivi, di malavoglia, a tratti grotteschi. È anche in questo concedersi stancamente, a un uomo dal quale si dipende, che si può vedere una forma di violenza?

A.C: quello sui cui mi sono interrogato è come le donne indigene abbiano perso il controllo del proprio corpo, la possibilità di decidere su di esso. Questo è evidente soprattutto nella storia di Toña: il suo corpo, vittima di un abuso, è rimasto chiuso e non può permettersi di sentire, rifiuta di farlo, altrimenti sarebbe un dolore tremendo, e preferisce allora richiudersi in sé stesso. Anche al di fuori della comunità, molte donne non godono della propria esperienza sessuale e del proprio corpo, eppure non lo dicono. Questo non poter essere soddisfatte o a proprio agio quando si ha una relazione, questa insoddisfazione taciuta è una violenza che si va costruendo a partire dalla nostra storia e in base alle relazioni antecedenti. Puoi stare con una persona amabile e generosa, ma avere cicatrici così forti che ti impediscono di godere, di consegnarti, di vivere la tua sessualità in maniera libera e piacevole. Al momento di una relazione, quello che ci precede parla di noi attraverso cicatrici che ci segnano. Così nella relazione di Esteban con Chabela e in quella di Toña  col suo uomo, queste cicatrici stanno parlando e c’è una violenza che si non riesce a portare alla luce.


A.M: oltre all’intimità, c’è il suo apparente contrario: la distanza. La posizione della macchina da presa, specie nella prima parte, è molto studiata, come quando riprende i dialoghi o i momenti di solitudine da finestre e porte. Mi colpisce soprattutto, però, una scena girata a distanza, con María che dice qualcosa di molto importante alla sua compagna Piedad tra le dune. Perché questa lontananza, nel momento in cui lo spettatore si aspetterebbe di scorgere indizi emozionali anche dai visi e dalle espressioni?

A.C: perché volevo trasmettere un senso di desolazione. Quando le due donne sono tra le dune, María  dice alla compagna che sarebbe andata via di lì a poco e le chiede di partire con lei. Spesso pensiamo che sia il viso a dover dire tutto, ma anche il paesaggio può farlo: un paesaggio con due donne sole che cercano intimità in uno spazio aperto. Ho scelto il luogo più adatto per una confessione così intima. Esiste un linguaggio cinematografico che preferisce avvicinarsi per scorgere i sentimenti, ma io penso che a volte sia la distanza a mostrare meglio. La sensazione che volevo dare è quella di saper rispettare un momento così intimo e di porlo in uno spazio a livello visivo meraviglioso ma desolato: due piccoli esseri, quello che siamo nel mondo. Ci crediamo importanti, ma siamo due puntini nella natura. Ne ho discusso con il direttore della fotografia, perché voleva stare attaccato agli occhi dei personaggi, mentre io volevo mantenermi a distanza per inquadrare la dimensione del nostro conflitto rispetto alla natura, come a dire: i nostri problemi sono poca cosa rispetto a questo universo. Intimità, dunque, non è semplicemente denudare i personaggi e vederli fare l’amore, ma anche allontanarsene per far sì che possano avere un momento in cui interrogarsi su loro stessi.



A.M: questi amplessi “passivi” di Toña  col suo uomo, mi fanno quasi dire che, forse anche a causa del proprio trauma, non appaia mai “in the mood for love”. Sai già dove voglio andare a parare: ho citato deliberatamente il capolavoro di Wong Kar Wai, che so piacerti molto. Ti chiedo un’opinione su questo classico del terzo millennio, di recente rivisto sul grande schermo in Italia grazie alla Tucker Film, e sulla sua eventuale influenza sul tuo cinema.

A.C: Wong Kar Wai mi piace molto in generale come regista, perché crea un mondo di sensazioni in cui tutto passa per il cuore, nemmeno per la testa. Quando vedo i suoi film mi connetto con queste sensazioni, prima ancora di farne un’analisi critica. Penso sia un regista capace di generare uno spazio di appartenenza: vedo il suo cinema e mi piace, mi sento identificata, crea qualcosa che mi piace completare. Mi piace immaginare ciò che vive nei suoi silenzi. In generale, è questo che mi piace del silenzio. Quando entro in una sala, ne esco con uno stato d’animo diverso, ma la trasformazione non è nella testa, bensì nel modo in cui fluisce il sangue nel mio corpo. Questo è cinema: trasformare qualcosa dentro di te, questo flusso di sangue, memoria, percezione, energia che siamo e che promana da un film. Per sei anni sono stata spettatrice di un unico film, perché nel nostro villaggio c’era una sola pellicola 6 millimetri, e non facevamo altro che vederla e rivederla. Quando sono uscita dalla mia comunità e ho scoperto il cinema, mi sono sentita trasformata, mi ha cambiato la vita. Anche io voglio toccare un’anima lì fuori che possa uscire dalla sala con questa sensazione, con questa emozione di aver toccato qualcosa. Ci riescono nello stesso modo l’arte, la musica, la letteratura, ma il cinema ci trascina e ci penetra, anche quando è manipolatore o incantatore, il suo è un territorio di confronto, emozione pura, sensazione.


A.M: per chiudere, parlando ancora di connessione e di registi influenti. Ci sono cineasti che sembrano “sconnessi” dalle proprie origini. Il cinema messicano sta esprimendo talenti affermati come Cuaròn, Del Toro, Iñárritu, ma in confronto a un cinema così radicato come quello di Nudo Mixteco, ti chiedo: il loro è cinema messicano, o solo cinema americano fatto da messicani?

(Ride, n.d.R.) Lo hai detto tu, eh! Non saprei dire cosa sia il cinema messicano. Credo che il cinema americano abbia permeato tutto il mondo e creato canoni di consumo che hanno generato una narrativa specifica per raccontare una storia. Non saprei dire cosa sia il cinema messicano e non so se mi rappresenti. Non saprei descrivere nemmeno la sensazione della patria: a volte è una gabbia, dobbiamo avere una mentalità aperta per pensare prima di tutto all’umanità. Il concetto di frontiera ci ha fatto male, ci ha fatto sentire diversi e separati. Chi può dire, a proposito di Nudo Mixteco, che non sia un film meglio recepito in Thailandia, Cile o in qualsiasi altro luogo del pianeta? È vero che parlo del mio villaggio, ma le mie domande non hanno nazionalità, sono universali, interrogano il più profondo sentire umano. So cos’è il cinema industriale, e non riesco a trovarvi una connessione. Le barriere che ci siamo creati non ci hanno permesso di considerarci persone uguali che vengono dallo stesso universo, con lo stesso sangue nelle vene e le stesse contraddizioni nella testa. Tutti siamo migranti o migrati, tutti non ci ritroviamo, abbiamo subito duri colpi nella nostra vita e li portiamo nel corpo. È in queste connessioni che voglio trovare il cinema che mi piace, il cinema che vedo, il cinema che voglio fare.


SCHEDA DEL FILM

TITOLO INTERNAZIONALE: Nudo Mixteco
PAESE: Messico
ANNO: 2021
GENERE: drammatico
DURATA: 90'
REGIA: Ángeles Cruz
SCENEGGIATURA: Ángeles Cruz
CAST: Sonia Couoh, Noé Hernández, Myriam Bravo, Eileen Yañez, Aida López, Jorge Doal
MONTAGGIO: Miguel Salgado
FOTOGRAFIA: Carlos Correa
MUSICHE: Ruben Luengas
PROGETTAZIONE DEL SUONO: Basia Pineda
PRODUTTORI: Lucía Carreras, Lola Ovando
PRODUZIONE: Madrecine
VENDITE INTERNAZIONALI: FiGa Films


(immagini: principale, dettaglio di un fotogramma di Nudo Mixteco con Toña e sua figlia; all'interno, fotogrammi tratti dal film Nudo Mixteco, in particolare: prima immagine, il funerale della madare di María; seconda, María e Piedad stanno per baciarsi; terza, María e Piedad sulle dune)


Antonio Maiorino