Editoriale
Morto Rosi, Viva Rosi
NAPOLI, 10 GENNAIO 2015 – Esiste una generazione, in Italia, che io personalmente ho incrociato – per questioni puramente anagrafiche – già dimenticata; una generazione già stanca, affannata, che aveva già girato l'angolo, forse perché era in fondo già nata dietro l'angolo. Sto parlando di quella generazione di cineasti e attori figli della Seconda Guerra Mondiale, ma un passo dopo il Grande Neorealismo italiano, quel filone capace di ergersi a Maestro sul cinema mondiale tutto.
Quando la Francia partiva dal neorealismo e s'addentrava nelle sperimentazioni estetiche della Nouvelle Vogue, in Italia ci si manteneva saldi alla natura embrionale e intrinseca, alla quintessenza del Neorealismo stesso: quella di raccontare la realtà così com'era, nella purezza che declinava più un'arte documentaristica che cinematografica in senso stretto. Se nell'immediato dopoguerra i nostri artisti e intellettuali sentirono il bisogno di narrare il loro tempo attraverso le storie della povera gente, la generazione – cinematografica – appena successiva non fece da meno, e l'esigenza non poteva sottovalutare il caos politico e sociale che regnava sovrano in tutta la penisola.
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Nacque su questi presupposti più o meno coscienti, più o meno spontanei, la generazione di cui parlo, quella che annovera, tra i tanti nomi, antesignani e capostipiti come Francesco Rosi, Elio Petri, Giuliano Montaldo e Gian Maria Volonté. Nomi che nel loro impegno artistico non hanno saputo scindere l'estetica della settima arte da un impegno politico, sociale e pedagogico.
«Una cosa è la realtà, una cosa è la verità», come disse al tempo il regista napoletano Francesco Rosi, uno dei pilastri se non il sommo autore di questa generazione. Ci lascia oggi, Rosi, all'età di 92 anni, con l'ultima produzione datata 1997, ma con un patrimonio cinematografico che andrebbe imparato a memoria.
Un incontro, con tutta questa generazione, che ha rappresentato per me una scoperta meravigliosa: dentro ogni film un nuovo scrigno, un attore da scoprire, da conoscere e studiare, un nuovo mondo che apriva milioni di mondi, tutti nel loro anonimato e vestiti di quella aurea “di nicchia” che non trovava spazio in nessuna forma di mainstream. Devo tanto a tutti loro, che nonostante la distanza temporale che ci separa, sono stati loro a forgiare la mia coscienza politica e sociale, o comunque ad approfondirla. Mai avevo sentito parlare di Salvatore Giuliano o di Enrico Mattei prima di aver visto i film di Rosi, con quel modo diretto, asettico, di presentare le cose “così come stanno”, senza artifizi o giochi di parole, chiare elucubrazioni del non-detto, dove un surrogato della “fantasia” trovava spazio soltanto nella rigida cerchia dell'indagine, dell'inchiesta, cerchia pignola e attenta, che si basa sui dati, sui fatti, sulle concatenazioni, sulle piste e i depistaggi; pari pari a come siamo – o dovremmo essere – abituati a volgere lo sguardo a ciò che era l'Italia della Democrazia Cristiana, quella comunista e quella filoamericana, l'Italia vittima indiretta della Guerra Fredda, della massoneria e delle stragi, della nuova ribalta della mafia e quella dell'imposizione della camorra, l'Italia dei se e dei ma che senza risposte s'è poi accartocciata su se stessa. E di cui ne siamo tutti figli, e figli non disconosciuti.
Era un cinema coraggioso, quello di Rosi e compagni, che denunciava nell'attimo esatto in cui bisognava denunciare, non attendeva e fremeva, sparava in faccia la verità, e urlava fotogramma per fotogramma a tutte le coscienze la propria sete di far luce. Uno dei capolavori di Rosi, 'Salvatore Giuliano', esce appena 10 anni dopo la misteriosa morte del bandito Giuliano, portando un caso che sembrava quasi di cronaca locale ad imporsi come mistero italiano sommo – e a tutt'oggi –, dove “la cronaca viene innalzata a storia e si trasforma in tragedia sociale”. Scende in Sicilia, Rosi, e porta a Portella della Ginestra i sopravvissuti dell'omonima strage, conduce le sue indagini riversandole e distillandole nel film, in cui il bandito Giuliano non compare mai, ma è mosso dalle circostanze e dalle atmosfere che al tempo attanagliavano la Sicilia e l'Italia tutta.
Il film rappresenta addirittura uno spartiacque nel modo nazionale di concepire il fenomeno Mafia: per la prima volta viene ipotizzata la connivenza di Cosa Nostra nell'uccisione del bandito, con i coinvolgimenti di politici e carabinieri “in una sola trinità” – come fu gridato al processo; a seguito dell'uscita del film fu approvata anche una Commissione parlamentare d'inchiesta, dopo la quale viene deciso per la prima volta, per volontà del parlamento nazionale e col consenso dell'opinione pubblica, che la mafia era a tutti gli effetti una “associazione a delinquere”.
Non da meno 'Il Caso Mattei', dove Rosi dipinge con ruvide e sonore pennellate un personaggio simbolo degli anni di piombo italiani, anch'esso quasi dimenticato. Giusto il gusto di riportare un esempio: alla visione del film mi incuriosì il personaggio di Enrico Mattei, fui intriso di spunti sullo strapotere del petrolio; da lì il passo divenne breve, a interessarmi delle politiche americane e sull'egemonia delle società petrolifere, le guerre del petrolio, il controllo del Medio Oriente, l'influenza americana anche in Italia; il coinvolgimento, nel film, della figura di Mauro de Mauro, giornalista sparito nel nulla nel 1970; ma non solo: i collegamenti a 'Petrolio' di Pasolini, il romanzo mai terminato, e il capitolo 'Lampi sull'Eni' sparito, e la morte stessa di Pasolini, e l'annuncio del ritrovamento del capitolo, non molti anni fa – anche se pare già un secolo – da parte di Marcello Dell'Utri, ma che alla fine non s'è mai materializzato.
Intrighi di palazzo e internazionali capaci di tracciare fili lunghi settant'anni, fili invisibili e mai recisi, che la logica – o la paranoia – sarebbe pronta a vederli intrecciati, connessi, concatenati. Eccolo, il valore più alto del cinema di Rosi: la capacità di rendere immortale il dubbio in cui siamo stati generati, l'arte posta a scuotere l'immobilismo delle nostre memorie storiche, le nostre coscienze lobotomizzate da priorità seconde e per scelta degli altri, il cinema posto a recuperare le nostre verità alla deriva. Perché le domande irrisolte che il giornalista Rosi pone alla fine del film di Mattei restano ancora senza risposta.
Non ha eredi, il vero cinema di inchiesta in Italia, che pare sia nato e morto seguendo i tumulti sociali e politici del proprio tempo; oggi i sentimentalismi che dominano gran parte della produzione cinematografica italiana ben poco hanno a che vedere con quel taglio feroce e netto, arrabbiato, di un film di Rosi o di Petri, o della tenacia camaleontica di un istrione come Volonté. Oggi il cinema italiano anch'esso riflette il tempo in cui vive, in cui lo pseudo-impegno sociale, pedagogico e politico è affidato alla sterile creazione di miti, osannati da generazioni che riescono a nascondersi dietro le loro effigi, incapaci di rifletterci su e di rifletterle, o partorite da quella sinistra radical-chic che parte bene ma si dissolve nella sua vanità intellettuale, con i suoi prodotti che arrivano esattamente dove dovrebbero cominciare.
Foto: lospettacolo.it
Dino Buonaiuto