Cultura e Spettacolo
Moriamo per la libertà d'espressione: Oui, d'accord, mais de mort lente
PARIGI, 14 GENNAIO 2015 - Da circa una settimana i fatti di Charlie Hebdo, nella loro piena efferatezza, hanno spinto molti a schierarsi lestamente sul versante della dimensione repentina del web. La ferocia dell'attentato al magazine francese non ha lasciato molto spazio a dubbi o interpretazioni. Piogge di hashtag e cambi subitanei di profile picture e cover photo, matite che s'innalzavano al cielo, e una rara forma di solidarietà eurocentrica che grondava a frotte, manco si profilasse una nuova battaglia di Lepanto.
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«Mourir pour des idées, l'idée est excellente, moi j'ai failli de ne l'avoir pas eue»
Eppure i medesimi milioni di Charlie della prima ora non hanno atteso molto prima di pentirsi di aver avuto un nome francese per un giorno: è bastato probabilmente cercare in rete qua e là qualche vignetta del giornale francese – forse prima sconosciuto – di cui tutti parlano, per cambiare con affine lestezza opinione, o peggio è bastato il successivo capopopolo a capovolgere il concetto che “Je ne suis pas Charlie, rien plus”, e il giornale è diventato subito “vergognoso / blasfemo / irriverente / porno”. Sono fioccati i “rispetto il dolore, ma...” o addirittura i “sì, però così si va a mettere il drappo rosso davanti al toro!”. Tutti protagonisti, insomma, in uno sconfinato mercato rionale dell'Ego dove, alla fine sempre in tanti, in fondo in fondo, ambivano solo ad accaparrarsi un degno numero di “like lavacoscienza” e di “presenza quando si tratta di dolorose tragedie”. In pieno stile “Io c'ero, e in tempo reale pure, eh”, nel mentre si elargivano con facile gratuità tesi e antitesi a profusione, ma senza mai giungere a una sana sintesi.
«Car, à forcer l'allure, il arrive qu'on meure pour des idées n'ayant plus cours le lendemain»
Nel caos d'opinione, un po' di chiarezza sarebbe utile, almeno per chi vorrebbe concedersi il lusso in umiltà di un sontuoso beneficio del dubbio. Sì, perché in questi casi la conoscenza dei fatti gioca un ruolo fondamentale, quando si è chiamati a dire la propria da un momento all'altro. E anzitutto andrebbe spiegato meglio il concetto di Satira, che pure sfocia in articolazioni complesse e lambisce sfere differenti in maniera quasi lacunare. C'è da dire che, in generale, una satira fatta bene è direttamente proporzionale a quanto sia presa sul serio. È in questo concetto che si esprime il principale paradosso. E se Charlie Hebdo ha avuto “la vendetta di Maometto”, allora i vignettisti avevano sfornato un prodotto di satira doc? Difficile dirlo.
Satira non è un neologismo, se affonda le radici nell'aulicità letteraria greca e latina. La “fustigatrice dei costumi” la definisce Persio, con il compito di castigare ridendo mores, ossia di “correggere i costumi ridendo”. Ed è proprio lì che s’annida la satira, nelle increspature delle nostre più bieche convinzioni, con lo scopo di strapparcene fuori, infondere il germe del dubbio, e provare a scardinarle. Offrire un punto di riflessione con un sorriso, o una risata, o nessuna delle due. La “libertà di espressione”, le liceità sui temi da trattare hanno alla base la necessità di non guardare in faccia nessuno, di dissacrare ciò che è morale – o amorale – per te, ma non per chi fa satira.
Si irridono infatti i morti, si livella tutto, dei e fantocci, autorità e popolino, col doppio intento implicito di farci ridere e riflettere in maniera neutra. È didascalica in questo senso, e la sua purezza sta nel livellare anche qualsiasi tema. La stessa giurisprudenza ne dà una definizione piuttosto esaustiva: “La satira è quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili ed esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo, cioè verso il bene”. Una derisione esente da inganno intenzionale, seria nel suo scherno e grave nella sua giocosità.
«O vous, les boutefeux, o vous les bons apôtres, mourez donc les primiers, nous vous cédons le pas»
Il problema è quando si fanno i conti con le proprie morali e la propria suscettibilità personali che infatti Charlie Hebdo e la satira tutta vanno bene “ma fino a un certo punto”, come se qualcuno – dei famosi tanti di cui sopra – possa ergersi d’improvviso a selezionatore dei temi da trattare: va bene il personaggio politico, “ma i morti, No!, i morti non si toccano! Insensibili! Rispettate il dolore! Rispettate i fedeli e le religioni”. E giù fino all'ultimo brandello di sensibilità stuprata. Con la satira non funziona esattamente così: o la censuri o eviti di metterci le briglie, non si può correre il rischio di rendere il tutto alla stregua di una dicotomia del potere medievale: lo sghignazzo o la punizione a cui eran sottoposti i giullari di corte. Pasolinianamente parlando, lo scandalo è un problema di chi lo avverte, e di nessun altro.
Che poi a voler essere pignoli, la satira non chiede a nessuno di seguirla, e a nessuno di evitare di indignarsi, anzi. Il carattere caricaturale della Satira altro non riporta che personaggi e situazioni inesistenti, in ultima analisi, se vogliamo addentrarci nei gangli della semantica – e ciò lascia intendere quanto la satira stessa si percepisca come effimera, di finzione. In sostanza, la satira c'è e continuerà ad esserci finché ci sarà qualcuno che si offende, che si scandalizza; in caso contrario, non avrebbe più scopo o ragione di esistere. Se avvertite davvero la necessità di difendere la libertà di espressione, lasciatela semplicemente libera.
Dino Buonaiuto