Chiesa e Società
Mons. Vincenzo Bertolone. "l’importanza di arrivare secondi"
«Siamo diventati uomini che hanno paura del salto. Restiamo fermi in riva agli abissi dell’avvenire. Bisogna imparare di nuovo il coraggio di saltare, proprio in quei punti ove la prudenza tace o si blocca».
Ai giorni nostri la sconfitta non è contemplata, con buona pace di Emmanuel Mounier e del suo invito a non restare alla finestra per timore di perdere. Ai giorni nostri, pure per questo, non sarebbe ritenuta degna di ammirazione una figura come quella di Raymond Poulidor. Poupou, come tutta la Francia lo chiamava da mezzo secolo e più, se n’è andato nei giorni scorsi, a 83 anni. Un corridore tra i più forti degli anni Sessanta e Settanta, forte scalatore mai vincente. Sempre – o quasi – secondo. L’eterno secondo, alle spalle del connazionale Anquetil, prima, e di Merckx poi.
E quando non erano Anquetil e Merckx, ecco l’improvviso esplodere di Felice Gimondi, oppure il destino avverso, come gli accadde nel 1968, allorché a concorrenza ormai sbaragliata si avviava a trionfare finalmente al Tour de France. E invece no: travolto da un moto, non andò bene neppure quella volta. E quando nel 1987 si trovò al capezzale di un Anquetil ormai in punto di morte, il buon Jacques gli fece una profezia: «Raymond, anche stavolta arriverò prima io». E lui rispose con una lacrima ed una carezza. Sempre gentile e disponibile con tutti, mai una recriminazione per una sconfitta o una sventura, in occasione dell’ultimo Tour ai cronisti raccontava di essersi dato appuntamento in una stazione di servizio con un tifoso che i genitori avevano chiamato Raymond, in suo onore: «Mi scriveva da decenni. Ci siamo incontrati per un caffè, è stato gentilissimo. Quando ho saputo che di cognome si chiamava Second, l’ho abbracciato».
Se n’è andato in punta di piedi, Poupou, lasciando un nipote campione di ciclismo, Mathieu Van Der Poel, ed una grande lezione: si può vivere bene, e si può vincere anche perdendo. In una società che non ammette insuccessi e scarta i perdenti, prevale il concetto della vittoria a tutti i costi, che porta i più a preferire un pareggio, pur di non incappare nell’onta della sconfitta. Si scivola così nell’egoismo, incapaci di un fremito di generosità, disabituati al rischio del credere e dell’amore, del dare e del creare.
Poulidor, l’eterno secondo, è invece l’emblema di un’arte difficile da praticare, quella della dignità della sconfitta, del saperla accettare senza inveire contro la sorte o vestire i panni della vittima, perché anche perdere aiuta a fortificare lo spirito e rende più realistica la visione delle cose, conducendo verso altre strade e mete perché, in fondo, l’importante è non lasciarsi avvolgere nel bozzolo dell’inerzia. È così che si riacquistano dignità e senso della propria esistenza: questo coraggio è la virtù fondamentale di una persona autentica, è il vero eroismo quotidiano, superiore a quello celebrato. Non sarà una medaglia da appuntare sul petto né una coppa da esporre in salotto, ma è come aver imparato la lezione di uno dei maestri più importanti e necessari: la vita.