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"Moebius" di Kim Ki-duk, ridefinizione di un complesso edipico

Moebius - diciannovesimo lungometraggio del regista coreano Kim Ki-duk, che ha ricevuto il Leone d’oro nel 2012 per il film Pietà - è stato presentato fuori concorso alla 70esima edizione del Festival di Venezia ed è uscito nelle sale italiane il 5 Settembre 2013.
Il titolo del film fa riferimento al nome del matematico tedesco dell’Ottocento A. F. Möbius e alla figura da lui scoperta (Il nastro di Möbius)

Moebius si presenta all’occhio dello spettatore come un’opera visivamente spiazzante. L’utilizzo di immagini metaforiche a tinte forti non teme di sorpassare alcun limite (neppure quello della censura, avvenuta purtroppo in Corea con il taglio di alcune scene). Tali immagini - che non vogliono solo raccontare la storia di una perversa sessualità, mentre si avvolgono attorno agli occhi dei protagonisti, facendone immaginare le lacrime - sono volte a suggerire con la loro potenza il peso e l’enormità emotiva di dinamiche psicologiche che consegnano all’individuo un fardello d’indicibile angoscia. Pur feroce ed efferato nel tema, il contenuto intimo del film rimane racchiuso in un guscio di purezza e grazia: la riflessione dolorosa sulla determinazione psichica che i rapporti familiari trasmettono inevitabilmente ad ogni singolo, leggi ancestrali in cui l’uomo si dibatte come un sudicio insetto nella trappola di un predatore assetato di sangue, impietose ma imprescindibili dall’ineluttabilità del destino personale e collettivo.

Un uomo tradisce la moglie con un’altra donna. La moglie, accecata dall’odio, tenta di evirarlo e, non riuscendoci, si vendica sul figlio adolescente. Lo evira e fugge di casa. Il padre, rimasto solo con il figlio, si trova a dover riconoscere le sue responsabilità e le sue colpe e a prendere coscienza della sessualità mutilata del ragazzo. Quando la madre ritorna, il figlio si è sostituito al padre e non è in grado di desiderare sessualmente la donna di cui è innamorato ma unicamente la madre. Un epilogo tragico ricompone il mosaico edipico.[MORE]

Sebbene Kim Ki-duk abbia dichiarato esplicitamente di non essere stato influenzato dai temi fondamentali della teoria psicanalitica - Sono semplicemente voluto partire dai concetti sul sesso che esistono nella società coreana, per poi svilupparli e portarli alle estreme conseguenze. Ma non ho debiti nei confronti del mito di Edipo, né di altre storie simili - il suo ultimo film sembra voler ricomporre e ridefinire, utilizzando una forma estetica estrema, le tappe di un complesso edipico.
E’ cosa di notevole pregio che Kim Ki-duk riesca a ricostruire, all’interno del suo mondo, l’origine di concetti atavici da lungo tempo teorizzati in Occidente e divenuti archetipi, che qui, se pur in una forma selvaggia, ancora ruvida e grezza, dimostrano in modo schiacciante la propria universalità. Egli rappresenta tale groviglio psicologico con una logica filosofica quasi inconsapevole, restituendo la sensazione della scoperta, principalmente attraverso un’intuizione innata per l’inquadratura che lo rende in grado di scolpire, toccare con l’animo, le asperità più pericolose e pungenti della natura umana. E’ la società che viene a me e io la trasformo in cinema.
Moebius riconferma quella capacità sorprendente dell’autore nel mettere in scena universi emotivi solo attraverso le immagini, valore in questo caso amplificato dalla scelta di non utilizzare i dialoghi ma solo corpi e spazi in cui il racconto si svolge per dialogo di gesti, di rumori e di sguardi.

Nel film sono perfettamente armonizzati e bilanciati tutti gli elementi fondanti del cinema di Kim Ki-duk che lui stesso ha definito come la volontà di rappresentare il nero del mondo, attraverso metafore pittoriche, facendo il regista come farebbe il pittore. Una di queste metafore in Moebius è quella che descrive - in modo totalmente estremo ed appropriato al contesto (lo sfregamento di una pietra sulla pelle o il movimento di un coltello nella carne per raggiungere l’orgasmo) - il binomio inscindibile piacere-dolore al quale si accostano, per contrasto di luci e di toni, la speranza e il rifugio nella spiritualità e nella preghiera, momenti capaci di alleggerire le tensioni negative e di operare una catarsi purificatrice sul torbido dell’eros.
Quello che mi chiedo, in fin dei conti, è se per raggiungere la pace si debba rinunciare a tutti i propri desideri.

Peccato (di vanità) di quest’opera, libera e fiera, è che la diegesi e l’immagine, qualche volta, prendano ad avvolgersi su se stesse nell’autocompiacimento stilistico della forma, divenendo persino autocitazione in alcune scene, così che a tratti, in Moebius, Kim Ki-duk dà l’impressione di aver esaurito la sua creatività o di voler giocare con la propria stessa ispirazione.
Ma non conviene rimproverare ad un artista l’impossibilità (oggettiva) di partorire continuamente nuovi capolavori, conviene solo essergli grati per un cinema sempre permeato dall’indagine coraggiosa e implacabile sulle verità più intime dei rapporti umani e sulle loro più affascinanti radici: i sentimenti.

Sono attratto da chi si trova ai livelli più infimi dell’esistenza, trovo in loro un’energia disperata nata da una crisi destabilizzante. È questa energia malsana a conferir loro intensità e interesse. Solo quando si osserva qualcosa di sordido se ne scopre l’intima bellezza.
Kim Ki-duk


Titolo orignale: id.
Regia: Kim Ki-duk
Interpreti: Cho Jae-Hyun, Young Ju Seo, Eun-woo Lee
Origine: Corea del Sud, 2013
Durata: 90'
Distribuzione: Moviesinspired


(In foto: particolare del manifesto del film)

Gisella Rotiroti