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Intervista a Susanna Nicchiarelli: "sete di giustizia, silenzi trattenuti: vi racconto Miss Marx"
Marx: il cognome di famiglia ha un peso. Ma Eleanor, figlia del noto filosofo tedesco Karl, è una donna volitiva, che scrive il proprio personalissimo destino col carisma di una determinazione ferrea, tra arroventata lotta di classe, protesta contro il lavoro minorile, rivendicazione (pre)femminista e qualche complicazione sentimentale. Nel film Miss Marx, in concorso alla 77esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, tutto questo l’ha raccontato Susanna Nicchiarelli, regista forte di un lavoro di documentazione capillare – con l’accesso ai corposi archivi di famiglia – e di uno stile connotato: uno storytelling lineare, ricco di dialoghi, puntellato da squassanti inquadrature frontali in cui gli occhi della protagonista – interpretata dalla britannica Romola Garai – bucano lo schermo, e le musiche punk dei Downtown Boys convincono per spiazzamento, quasi lacerando l’illusione cinematografica del mondo ottocentesco. Ne abbiamo parlato con l’autrice in un’intervista di contro-esplorazione del film, nelle sale dal 18 settembre.
ANTONIO MAIORINO: in Miss Marx, raccontando la vita di Eleanor Marx, hai avuto la sensazione che al cuore del film ci fosse un contrasto tra la Miss, la signorina di cui raccontare la vita privata con le sue fragilità, e la Marx, il personaggio pubblico che portava avanti e aggiornava le battaglie del padre?
SUSANNA NICCHIARELLI: lei era profondamente Marx anche nel suo privato. È una donna che ha vissuto anche il proprio impegno politico con grande emotività e partecipazione. Anzi, forse anche troppa, nel senso che alla fine per lei è stato un dolore e motivo di sofferenza il fatto di non riuscire a risolvere alcuni problemi. In quella fase della Rivoluzione Industriale la situazione dei lavoratori in Inghilterra era terribile. Lei viveva con sofferenza questa ingiustizia. Era una donna che combatteva contro l’ingiustizia con grande passione. Con altrettanta passione si è buttata nella storia d’amore sbagliata.
A.M: hai parlato, altrove, della relazione con Edward come di qualcosa di tossico. L’anno scorso è stato molto gettonato presso la critica internazionale un film interamente incentrato sulla tossicità di una relazione, ossia Souvenir della britannica Joanna Hogg, che tra l’altro faceva parte della Giuria del concorso di quest’anno. Quando un amore è tossico, e inietta veleno, viene tenuto in vita perché deve avere, evidentemente, anche qualcosa che gratifica e che ripaghi delle sofferenze. Qual è l’antidoto, ciò che comunque fa star bene Eleanor con Edward?
S.N: io credo che lei lo amasse per la sua superficialità. Riflettendo e lavorando sul film, mi sono resa conto che ci sono dei brani, poi diventati dialoghi, in cui Eleanor afferma che Edward non si preoccupa di nulla, che è in grado di andare in giro con la testa leggera, anche se sono successe le cose più terribili: “lui è come un bambino”, arriva a dire. Lo dice con amore, con tenerezza; nello stesso modo, dice che lui è privo di senso morale, come alcuni sono ciechi o altri sono sordi. Questa leggerezza, però, le si ritorce contro, perché lui con leggerezza le fa del male, quasi inconsapevolmente. Ciononostante, questa leggerezza la conquista, c’è qualcosa di essa che lei ama. Il padre, probabilmente, era stato molto serio – una persona che prendeva sul serio tutto ciò che faceva. Edward, invece, era un commediografo, un attore, socialista anche lui ma che si godeva la vita. Ecco, la conquista con questa leggerezza, che però poi le nuoce.
A.M: con Edward, dunque, Eleanor condivide la fede socialista. Nel gioco delle confessioni che si faceva nella famiglia Marx, a cui hai dedicato una scena strategica, vien fuori il motto “sempre avanti”. Quali sono, secondo te, le forzi ostili di quell’epoca che Eleanor doveva fronteggiare e che ne facevano una donna controcorrente?
S.N: secondo me, “sempre avanti” per loro significava soprattutto lotta contro il capitale, contro la “tirannia degli inoperosi”, come la si definisce nel film: coloro che non producono e possiedono tutta la ricchezza, di contro a coloro che producono tutto e non possiedono nulla. Ma Eleanor aggiungeva che non esiste lotta di classe e rivoluzione senza una liberazione della donna. È stata la prima a dirlo, inaugurando così una corrente del femminismo socialista che vedeva nella liberazione della donna una condizione necessaria alla liberazione del proletariato. Non si poteva liberare solo la classe del proletariato maschile: la liberazione doveva riguardare entrambe i generi. Questo avrebbe poi portato alla liberazione delle donne tutte. La dinamica dello sfruttamento lei lo vede in generale nel rapporto uomo\donna in ogni famiglia, compresa la stessa famiglia borghese.
A.M: per girare Miss Marx, hai avuto accesso a quaderni, lettere, disegni, molti dei quali confluiti nel film. Tutto vero, dunque. È inevitabile, però, che ci sia la “zona del forse”, un confine tra il vero e l’invenzione verosimile, in cui tocca a te creare situazioni, immaginare reazioni. Esiste quest’area di confine nel film?
S.N: certo. La cosa fondamentale è che ci sono mille passaggi che ho dovuto immaginare io , mille diversi momenti. Per quanto abbia usato il materiale reale di Eleanor Marx, ci sono tantissime cose che ho scritto io stessa, soprattutto quando dovevo immaginare la vita quotidiana. Sicuramente mi sono posta chiesta se ci fosse stata qualche scenata o confronto con Edward. Mia impressione ricavata da lettere e racconti è che questo confronto non ci sia davvero stato, vale a dire che lei non abbia mai preso di petto Edward per dirgli apertamente che il suo atteggiamento non le faceva bene. Piuttosto, Eleanor lo dice tra le righe, tipo “devi smettere di mentirmi”, o altre cose generiche non riconducibili a una scenata vera e propria. A questa conclusione sono giunta leggendo le lettere e vedendo come Eleanor parlasse di lui. Ad esempio, quando Edward torna a casa l’ultima volta, Eleanor scrive una lettera in cui afferma che lui è tornato ma non ha detto una parola, ha fatto finta di niente. Io mi sono chiesta: ma se lui fa così, perché tu a tua volta non gli hai detto niente? L’aspetto fondamentale del film è che tra i due le cose non vengono mai fuori, restano nel non-detto, sotterranee, fino allo sfogo finale di lei, che però è uno sfogo solitario: lui resta inconsapevole, dormiente; non ascolta, non sa. Dovendomi inventare un film, io avrei potuto farli litigare: una scenata in cui lo manda a quel paese, forse, sarebbe stata soddisfacente per il pubblico dal punto di vista drammaturgico, ma il punto è che la cosa non è successa. Nella mia “zona del forse”, come l’hai chiamata, ho messo questi sentimenti trattenuti, questi silenzi che sono il cuore della storia, il fatto che non si dicano le cose in modo diretto.
A.M: eppure, Miss Marx è un film in cui la parola è fondamentale: per aver attinto a lettere e documenti, per la ricchezza dei dialoghi, per un certo carattere ottocentesco della drammaturgia. Come si conciliano parole e silenzi?
S.N: le parole erano il pane quotidiano di Eleanor perché faceva politica attraverso di esse. Con le parole comunicava con gli amici attraverso le lettere; le parole sono quelle dell’amicizia, della condivisione di una battaglia. Le parole sono le idee. Per una donna così sono fondamentali. Sono anche le parole rivolte al pubblico di oggi. Ci sono cose che lei dice che parlano moltissimo a noi ancora oggi, sono le parole dei suoi discorsi. Il mondo del silenzio è invece quello con Edward, anche se poi le parole di molte opere erano scritte proprio con lui a quattro mani, compresi i discorsi che lei fa sulla condizione femminile, ad esempio il pamphlet sulla liberazione delle donne. Sono anche quelle che le tengono uniti. Sono, poi, le parole dell’Internazionale, che lui comincia a cantare sulla barca: in quel momento loro si guardano e scatta un momento di forte unità, perché la verità è che condividono soprattutto una fede politica. Silenzio è tutto ciò che riguarda la relazione privata che non diventa politica. In realtà, anche il privato è politico, ma Eleanor non riesce a tradurlo in parole, non riesce a tradurre questa battaglia.
A.M: questo attiene alla relazione di Eleanor con Edward. C’è anche una relazione, di natura visiva, che Eleanor intrattiene con lo spettatore e che emerge quando decidi di utilizzare le inquadrature frontali. Come spiegheresti questa scelta di regia?
S.N: quello è un gusto mio e della direttrice fotografia. È così anche negli altri miei film e si tratta soprattutto di un gusto per la simmetria soprattutto. Credo che sia questo il motivo. Sicuramente, poi, c’è qualcosa che mi piace molto dell’attrice (Romola Garai, n.d.R.), qualcosa del suo carisma. Quando ci siamo incontrati la prima volta e abbiamo letto la sceneggiatura insieme, lei hai letto il discorso che Eleanor fa al funerale di Karl Marx ed io mi sono commossa perché ho capito che era lei quella giusta: per quella sicurezza, per quella forza nel rivolgersi alla macchina da presa. È presente, mi piace essere davanti a lei, con lei: l’inquadratura frontale porta sempre il personaggio a essere più diretto.
A.M: a proposito: perché iniziare il racconto di una vita dal racconto di una morte, cioè dal funerale? Per una regista, la questione del tempo d’ingresso, cioè, a che punto della vita del personaggio far iniziare il film, è delicata. Hai avuto in mente il funerale di Karl Marx come esordio della storia sin dall’inizio del lavoro di sceneggiatura?
S.N: è simbolico che il film inizi nel momento in cui muore suo padre. In parte, è perché ci tenevo ad avere questo giudizio, questa orazione che lei ha fatto alla morte del padre, che in realtà è un articolo scritto da lei stessa, che fa capire quanto avesse idealizzato quest’uomo il rapporto d’amore con la madre. Ha idealizzato i proprio genitori e la propria infanzia, perché per lei l’amore ricevuto è qualcosa di bellissimo che in qualche modo si perde molto rapidamente. Per me era molto importante iniziare con quella morte e con quel distacco, il distacco più importante di tutti.
A.M: qualche giorno fa ho intervistato Ana Rocha de Sousa, che quest’anno a Venezia ha vinto il Leone del Futuro come migliore regista esordiente e la Menzione Speciale della Giuria nella sezione Orizzonti. La regista mi ha detto che non sopporta nei film l’uso delle canzoni per strapparti le emozioni, ma riconosceva anche che in alcuni film ci stanno benissimo. Perché nel tuo film le canzoni dei Downtown Boys s’inseriscono alla perfezione?
S.N: anche io sono d’accordo con Ana Rocha de Sousa. Non amo la musica di accompagnamento che si limita a ripetere il contenuto e l’emozione del film. In questi casi, altro non è che una musica di sottofondo, mentre io voglio una musica protagonista che colpisce, ferisce, scardina la percezione di una scena. Io nella musica dei Downtown Boys vedevo questo, un forte contrasto con il costume, al tempo tesso uno spirito talmente rivoluzionare e contemporaneo. Non doveva essere un rock degli anni Settanta\Ottanta, lontano, che potesse ispirare nostalgia. Volevo una musica dell’oggi. Doveva essere una musica che disturba, per tutto questo era la musica giusta. Lo stesso vale per la musica classica riadattata da Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo, che sono una band con cui lavoro sin dall’inizio, una band post-rock dalle sonorità elettroniche, molto malinconici ma anche ironici nell’uso del suono. Riadattare con loro i pezzi di musica classica mi è sembrato un lavoro interessante.
A.M: c’è stato, quest’anno, un momento in cui i registi avranno temuto di non poter essere presenti al Festival di Venezia. Per fortuna, tutto è proceduto per il meglio a dispetto della pandemia ed ho percepito emozione e gratitudine da parte dei protagonisti. Già in passato Venezia ti ha regalato emozioni: hai infatti dichiarato di aver visto film meravigliosi lì. Quali ti sono rimasti nella memoria?
S.N: tanti, talmente tanti. (Temporeggia prima di rispondere, n.d.R.) Mi ricordo, tra gli altri, Lourdes di Jessica Hassner; oppure, l’anno scorso Martin Eden di Pietro Marcello, che è stato un bellissimo film. Poi, io ero nella Giuria della sezione Orizzonti l'anno scorso e abbiamo premiato il film ucraino Atlantis di Valentyn Vasyanovych, davvero meraviglioso. Tornando invece più indietro, indicherei film come Buongiorno notte di Marco Bellocchio e Sacro Gra di Gianfranco Rosi.
A.M: guardando Miss Marx nel panorama del cinema contemporaneo, mi vien da dire che siano finiti i tempi del classico film storico o in costume o del biopic scolastico, in cui ci sono solo banali ricostruzioni di fatti e vite. Film come il tuo, o come La Favorita di Yorgos Lanthimos, carichi di riferimenti attuali e sperimentazioni linguistiche, forse stanno generando una versione postmoderna del film in costume. Senti che Miss Marx è destinato a lasciare il segno nei prossimi anni per questa sua freschezza?
S.N: i film sono film, indipendentemente dal fatto di essere film in costume o di altro tipo. Io, tra l’altro, non sopporto la definizione di genere. Ogni film è diverso: se è un film bello è difficilmente ascrivibile a un genere. I film di genere più belli sono quelli che il genere lo mettono in crisi. Il film è interessante quando è unico e diverso da tutti gli altri.
SCHEDA DEL FILM
TITOLO ORIGINALE: Miss Marx
PAESE: Italia, Belgio
ANNO: 2020
GENERE: biografico, storico, drammatico
DURATA: 107'
REGIA E SCENEGGIATURA: Susanna Nicchiarelli
MONTAGGIO: Stefano Cravero
FOTOGRAFIA: Crystel Fournier
MUSICHE: Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo, Downtown Boys
CAST: Romola Garai, Patrick Kennedy, Felicity Montagu, Oliver Chris, Emma Cunniffe, Karina Fernandez, Katie Mcgovern, David Traylor, George Arrendell, Christoph Hülsen
PRODUZIONE: Vivo Film, Tarantula, Rai Cinema
DISTRIBUZIONE: 01 Distribution
(immagini, fonte: 01 Distribution. Nell'immagine principale, Romola Garai come Eleanor Marx per il film Miss Marx, foto di Emanuela Scarpa; all'interno, prima immagine: Patrick Kennedy come Edward e Romola Garai come Eleanor nel film; seconda immagine: Romola Garai come Eleanor, al centro, in un discorso nel film; terza immagine: Susanna Nicchiarelli. Si ringraziano Gabriele Barcaro e Lidia "Joy" Tagnesi)
Antonio Maiorino