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Matteo Garrone, Marsilio Editori. Il curatore Christian Uva: "raccontiamo il suo cinema sospeso"

È un fotogramma da Il racconto dei racconti che dà la copertina a Matteo Garrone, altro volume da famelica collezione di cinefili della collana Elementi – Sequenze d’Autore per Marsilio. Lo cura Christian Uva, professore Ordinario al Dams dell’Università Roma Tre, che tra la recente pubblicazione del manuale Le storie del cinema. Dalle origini al digitale (Carocci) insieme a Vito Zagarrio, e l’ormai prossima pubblicazione, di nuovo con Marsilio, di un originale saggio sulle spiagge nel cinema italiano, non solo ci racconta la genesi e la struttura del libro su Garrone, ma accetta anche di ingaggiare una riflessione generale sul cinema del regista di origini romane, autore di titoli fondamentali della filmografia italiana contemporanea, come L’imbalsamatore, Gomorra e Dogman. Lo fa, naturalmente, eleggendo proprio il libro per Marsilio Editori come guida della conversazione.


ANTONIO MAIORINO: un libro su Garrone in una collana di Marsilio che comprende anche opere su Ford o Kubrick. Matteo Garrone è già storia del cinema italiano?

CHRISTIAN UVA: è importante far presente, in effetti, che questo è l’ultimo volume di una collana con molti titoli all’attivo e che riveste un’importanza cruciale nell’ambito della pubblicistica di cinema in Italia. Si tratta di Sequenze d’Autore, che a sua volta rientra in una collana più generale denominata Elementi. La sotto-collana, curata da Paolo Bertetto, nasce dall’intento programmatico di studiare i grandi autori della storia del cinema mondiale di ieri e di oggi secondo questo principio: curatela affidata a un autore, con una serie di saggi che costruiscano una polifonia di voci in grado di offrire una serie di sguardi il più possibile nuovi e originali su quel determinato autore. Da questo punto di vista Matteo Garrone è solo l’ultimo di una serie di autori che costituiscono un pantheon ideale a cui questa collana ha fatto riferimento: da Tarantino a Ford, da Bergman a Lynch, passando per Godard, fino a Spielberg o Kubrick. Stiamo parlando di pesi massimi, calibri davvero grossi, e in questo senso sono contento che a Matteo Garrone sia stato riservato questo spazio.


A.M: qualche mese fa, intervistando te e Vito Zagarrio in qualità di curatori dell’importante Storie del cinema di Carocci Editore, si discuteva della necessità di un approccio plurale allo studio della storia del cinema. Nell'avvicinamento a un singolo autore, però, la questione potrebbe essere ridiscussa: per esempio, si potrebbe considerare fruttuoso a livello di metodo l’utilizzo di una linea coerente, di un taglio univoco su cui fondare lo studio. Nella scrittura di un saggio diviso in capitoli di autori vari su un singolo regista, la pluralità è necessaria come in una storia del cinema in generale, oppure rischia di perdere qualcosa in coerenza metodologica?

C.U: è il rischio di ogni curatela quello di incorrere in una eterogeneità che possa essere non produttiva ai fini di una lettura. È chiaro che nel momento in cui da curatore ho dovuto ragionare sugli autori da coinvolgere ho pensato al classico paragone dell’orchestra: qui mi serve un batterista, qui un violinista, qui un pianista, ecc. In altre parole, nell’affrontare un regista come Garrone ho cercato di mettere insieme una squadra di autori che in base a specifiche competenze potessero offrire delle interpretazioni del suo cinema che fossero originali rispetto a quanto già scritto e potessero farlo in modo tale da combinarsi nella maniera più armoniosa possibile. Aggiungo anche che questa collana impone un format che in primis prevede una selezione all’interno della filmografia di riferimento. Nel caso di Garrone questa selezione è stata relativa, perché ho dovuto tener fuori solo due film, ma ci sono casi in cui ci si confronta con autori dalle filmografie molto più corpose e la scelta diventa faticosa. Si parte quindi da una selezione dei titoli più rappresentativi e interessanti dal punto di vista dell’analisi teorica e ciascun autore interpreta il film assegnato secondo la propria prospettiva.


A.M: nel tuo saggio, che segue l’introduzione dello stesso Bertetto, hai descritto il cinema di Garrone adoperando un gioco di parole col titolo di una delle prime opere del cineasta: Terra di mezzo. Partendo dal long take d'apertura de L’imbalsamatore, ti sei quindi diffuso nella tua interpretazione individuando quale concetto centrale quello di “sospensione”. Potresti spiegarlo, per avviare i nostri lettori all’esplorazione di questo bel volume per Marsilio Editori?

C.U: credo che sia l’elemento che meglio caratterizza il cinema di Matteo Garrone e lo renda più suadente sul piano strettamente spettatoriale. I film di Garrone, apparentemente così diversi, manifestano un aspetto di indecidibilità, nel senso che riesce difficile etichettarli: sfuggono ad ogni facile tentativo di canonizzazione. Sul piano dell’analista, ancora di più questa sospensione diventa una sfida, proprio perché si ha a che fare con un oggetto così sfuggente di fronte al quale ogni volta bisogna richiamare una serie di conoscenze, di stimoli e di riferimenti teorici, dei più disparati. I film di Garrone sono dunque aperti a una molteplicità di richiami e per chi vi si approcci è richiesto un continuo aggiornamento della strumentazione teorica da mettere in campo. Sono dunque colpito da questo elemento di novità della filmografia di Garrone, prima da spettatore, poi da studioso.



A.M: sempre nel tuo saggio, ricordando gli esordi nel documentario di Garrone, hai utilizzato l’espressione di “sguardo documentario figlio della tradizione neorealista”. Vero, però, anche il contrario, ossia la disposizione dell'autore a una sensibilità pittorica, a cui ci si richiama in vari capitoli. Inoltre, nel saggio di Enrico Carocci sul film L’imbalsamatore si parla addirittura di una svolta del cinema italiano rispetto al neorealismo con l’introduzione del grottesco in quella congiuntura cinematografica. Ritieni che Garrone abbia in qualche modo fatto i conti con l’eredità del neorealismo italiano?

C.U: inevitabilmente sì, i conti ce li ha fatti. Non so quanto volutamente, in tutta onestà; direi piuttosto che i critici l’hanno costretto a farli. Matteo Garrone è un regista che conferma la propria autonomia anche rispetto ad ogni scuola, modello o corrente a cui lo si voglia ricondurre. Penso al caso di Gomorra, che all’epoca suscitò un dibattito anche a livello internazionale, sia su riviste accademiche, sia in convegni all’estero; si parlò molto persino di neo-neorealismo, del confronto con una tradizione con cui dover fare i conti nel momento in cui, come fa Garrone, si sceglie uno sguardo sulla realtà che abbia una certa immediatezza. In questo caso, però, nonostante i primi film dell’autore abbiano una forte impostazione documentaria, la derivazione dal neorealismo è un aspetto superficiale, ossia che non consente di risolvere interamente la sua operazione estetica: il cinema di Garrone è più complesso, articolato, sfuggente. È vero, da un lato c’è questo approccio, come in Terra di mezzo, in Ospiti, Estate romana, anche solo per il fatto che sia lui stesso ad imbracciare la cinepresa e gettarsi sul set sporcandosi le mani, ma è anche evidente come questo processo sia sempre soggetto ad una trasfigurazione, e che man mano che avanza, la sua filmografia tende sempre di più al grottesco.


A.M: il doppio riconoscimento de Il divo di Paolo Sorrentino e Gomorra di Matteo Garrone al Festival di Cannes 2008 mi spinge a chiederti, vista la centralità assunta dai due autori nel cinema italiano contemporaneo, che differenza ci sia tra il grottesco di Sorrentino e quello di Garrone.

C.U: ciò che trovo davvero interessante e originale nel cinema di Garrone è che la dimensione grottesca, a differenza di quella del cinema di Sorrentino, non è un punto di partenza, ossia, non è il frutto di un’operazione estetica preordinata, quanto il risvolto di quella stessa realtà che viene raccontata e di cui l’autore si limita ad ispessire i tratti. L’occhio di Garrone, dunque, da un lato si approccia con immediatezza a quella realtà, da un lato, come fosse l’occhio di un pittore, la trasfigura e la riporta ad un orizzonte estetico altro.


A.M: eppure, curiosamente, in diversi saggi del volume, per esempio a proposito di Primo amore e Dogman, si parla di “occhio entomologico” di Matteo Garrone, per sottolinearne in alcuni momenti la capacità di un distacco, anche freddo, nell’osservazione.

C.U: è un’idea che sposo pienamente e che io stesso cito nell’introduzione. Se vogliamo guardare ad aspetti di grammatica cinematografica, di linguaggio, di punti di vista, ci si trova di fronte ad una continua dialettica tra due situazioni diverse nel cinema di Garrone. Da un lato, una condizione di immersione che ho riassunto nella metafora del sub, o nell’espressione, che usavo poc’anzi, di “sporcarsi le mani”: con coraggio e senza indugio, l’autore si cala in questo liquido, in questa melma che è la condizione umana, entrando in contatto con personaggi abietti e sordidi. Dall’altro lato, però, a un certo punto è come se avesse bisogno di portarci fuori, di farci riemergere da questo liquido per farci prendere respiro. Nel compiere questa operazione, ci accorgiamo che in termini di punti di vista come punti macchina passiamo da uno sguardo ravvicinato a punti di vista siderali. Per intenderci, basti pensare al finale di Reality, oppure, tra gli esempi citati nel libro, al finale di Primo amore, col piano sequenza che diventa panoramica della città vista da lontano, o ancora l’inizio dello stesso di Reality col drone che accompagna la carrozza. È una condizione, permettimi il termine, ossimorica: il neorealismo convive con il suo opposto, la fantascienza.



A.M: questo è un altro aspetto curioso indagato dal vostro saggio. Visto che parlare di fantascienza per Garrone non può, naturalmente, riferirsi al dispositivo di genere, in che senso si evoca questo termine?

C.U: in sintesi, la fantascienza in termini simbolici è nello sguardo di cui lui e noi con lui abbiamo bisogno per poter astrarci, guardare da fuori e dare un senso a quanto ci viene mostrato. Lo spiegherei facendo riferimento a quella freddezza di cui dicevi anche tu prima, che convive però con l’urgenza di entrare in contatto empatico con l’universo umano. Non sono il primo a parlare di fantascienza per Garrone. C’è l’inizio di Gomorra, tra le lampade abbronzanti, che è quasi da navicella spaziale e costituisce in tal senso un caso eclatante. Ecco, però, che subito dopo, con la strage dei camorristi, passiamo al gangster movie, al crime, quasi all’horror, per poi sprofondare nella realtà dei meandri di Scampia.


A.M: se studiassi il lessico cinematografico utilizzato dai vari autori del volume su Garrone, non potrei fare a meno di osservare l’affiorare dei termini relativi ai generi più disparati: oltre a quelli che abbiamo già citato, si parla anche di western, di horror, di noir. Proprio in ragione di questa inafferrabile varietà di toni, definiresti Garrone un autore al di là dei generi?

C.U: (ci pensa qualche secondo, n.d.R.) Al di là... o tra. Bisogna vedere; anche qui c’è una dialettica complessa. Il suo cinema transita continuamente in maniera del tutto naturale con una spontaneità notevole tra generi diversi e in questo senso va dato atto a Garrone di aver saputo approcciare generi “pericolosi”. Quando si parla di western contemporaneo in riferimento a Dogman, è giusto notare che il genere fa parte della nostra tradizione cinematografica popolare, ma pensare oggi di fare un western resta un’impresa temeraria, e quel film è giustamente stato letto come tale, perché di fatto impostato in questo senso. Similmente, Il racconto dei racconti è a suo modo un film fantasy che recupera la grande tradizione culturale e letteraria del nostro paese e ci fa ricordare che questo tipo di racconto della realtà, lungi dall’essere lontano dalla tradizione italiana, è assolutamente nel nostro DNA. Per cui, sì, in effetti concluderei così: più che al di là, è tra i generi.



A.M: nel volume si riporta una statistica secondo cui Gomorra sarebbe il film italiano più studiato a livello mondiale degli ultimi anni, seguito da Buongiorno, notte di Marco Bellocchio. Si può ritenere Gomorra uno spartiacque nella carriera di Garrone e perché?

C.U: penso che sia il film in cui giungono a maturazione quelle linee di cui abbiamo parlato prima. C'è soprattutto quell’istanza realista che Garrone approccia sin dall’inizio della sua carriera: la sua capacità di lavorare on location, negli ambienti autentici, dal vero; l’abilità di saperne sfruttare il materiale umano, se mi si passa il termine, d’impiegare quello che Bazin definiva un amalgama tra attori professionisti e non professionisti o semi-professionisti; aver realizzato un crime e gangster-movie ma allo stesso tempo, molto originalmente, anche un film d’inchiesta. Anche se oggi crime movies come Gomorra appaiono familiari allo spettatore, all’epoca il pubblico li riceveva ancora nella propria novità; è stato Garrone a reinterpretarli e ri-semantizzarli, mettendo insieme le sue origini e quel suo modo di guardare la realtà con tutto quello che c’è stato dopo, ossia la trasfigurazione della crudezza fenomenica. In questo senso Gomorra è uno spartiacque, nel sintetizzare questi elementi.



A.M: l’espressione materiale umano mi fa pensare al termine “tipo garroniano” che hai usato nel tuo saggio. Esiste un tipo garroniano? Che cos’è?

C.U: direi di sì. Non mi è facile trovare al momento degli aggettivi per descriverlo rapidamente, ma quella straordinaria abiezione, quell’affascinantissima dimensione sordida che caratterizza i suoi tipi, credo sia l’elemento ricorrente. È quel fascino che lui per primo e noi con lui subiamo rispetto a personaggi che di fatto hanno un cuore marcio e che per questo diventano anche fondamentalmente fragili, esposti alle intemperie del mondo e della vita quotidiana. Sono personaggi perdenti che affascinano con la loro estetica del brutto.


A.M: passiamo dal cuore marcio a un cuore di legno. Nel tuo saggio d’apertura hai parlato di una doppia imprevedibilità del cinema di Garrone: da un lato essa nasce dall’incontro sempre nuovo tra la macchina da presa e la realtà, dall’altro dalla scelta del materiale drammaturgico, ogni volta diversa. Per venire alla più recente produzione dell’autore, ti chiedo a livello personale: Pinocchio, il prevedibile e risaputo soggetto di Pinocchio, ti è sembrato imprevedibile nella versione di Garrone?

C.U: no. Nel libro ho dovuto adottare l’atteggiamento dell’entomologo, cioè dell’analista che non esprime propriamente un giudizio personale; se la tua domanda cerca di chiamare in causa quel giudizio personale, che è quello dello spettatore, devo risponderti di no. Non mi ha sorpreso come speravo. Pur trovandovi una serie di elementi d’interesse, devo dire che è un’operazione non pienamente riuscita perché non è un film del tutto garroniano. Quello che ho avvertito come spettatore, ma anche continuando a ragionarci in vista di questa pubblicazione, è che Pinocchio costituisca un’operazione di compromesso che non è riuscita a far emergere la vena garroniana per raccontare in modo innovativo un personaggio radicato nella nostra tradizione identitaria. Ho percepito i limiti imposti da un’operazione di carattere commerciale, precisando che non implico alcun giudizio con questo termine. Quando ho visto il trailer che, in buona sostanza, annunciava il film come il nuovo film di Natale, ho capito che c’era la necessità di confezionare un prodotto che doveva uscire in quel determinato momento e forse limitava l’espressione di quella vena garroniana in cui speravo.



A.M: è paradossale concludere che non sia garroniano il film che Garrone ha da lungo tempo descritto come il più personale dei propri progetti, rimontante a una passione infantile.

C.U: certo. Sono persino usciti gli schizzi su Pinocchio che faceva da bambino. Ma non dimentichiamo che Pinocchio resta una bestia nera, ci voleva coraggio per realizzarne l’ennesima versione cinematografica. Tra l’altro è interessante come ormai Garrone sia diventato a livello internazionale un regista di riferimento per questo tipo di creature fantasy che emergono anche nel film. Se pensi agli spot che ha realizzato per Dior, è come se da fuori di Garrone si fosse presa solo una parte della sua anima, ossia questa sua capacità immaginativa, trasfigurativa, visionaria. La sequela di invenzioni visive che contraddistingue Pinocchio, di cui mi parlavi anche tu fuori dall’intervista, si trova anche nello spot di Dior. In questo momento, effettivamente, se bisogna ingaggiare dall’estero un regista fantasy si pensa a Garrone, e non so se questo sia un bene; è interessante di per sé, ma Garrone è molto di più.



A.M: è in uscita un altro libro per Marsilio Editore, di cui sei autore e non solo curatore. Di che si tratta?

C.U: torniamo all’inizio del mio saggio su Garrone, alla spiaggia. Il titolo è L’ultima spiaggia, il sottotitolo è Rive e derive del cinema italiano. È un progetto che nasce quattro anni fa, allorché cominciai a ragionare su alcune suggestioni del filone cosiddetto balneare del nostro cinema, l’Italian beach movie. Mi sono chiesto se questo topos della spiaggia non meritasse una particolare attenzione anche al di là del filone strettamente balneare, che costituisce un momento importante dal punto di vista industriale collocato tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60, e se questo “spazio balneare” non valesse la pena di essere indagato in un contesto più ampio e lungo uno spaccato cronologico più consistente. Mi sono reso conto del fatto che nel cinema italiano ci sono moltissime scene in spiaggia, anche in film senza ulteriori ambientazioni balneari, ma sempre con forte valenza simbolica e drammaturgica. Basti citare due pietre miliari della storia del cinema italiano, due finali carichi di simbolismo come quelli de La dolce vita e di Morte a Venezia. Si capisce quanto questo luogo sia stato sfruttato dal cinema italiano come uno spazio ideale per una serie di dinamiche antropologiche, sociali, politiche, che hanno raccontato in vitro momenti nevralgici della storia del nostro Paese.


A.M: qual è l’arco cronologico a cui ti riferivi e in che modo, al di là delle costanti, hai scorto un cambiamento nel valore simbolico della spiaggia?

C.U: ho cercato di prendere in riferimento il periodo tra gli anni ’30 e gli anni ’80. Parto dai cinegiornali di epoca fascista, dalle colonie, dalle rive; passo per Domenica d’agosto, arrivo alla grande celebrazione del sole, del mare e dell’estate italiana che troviamo nel boom, poi proseguo indagando gli scenari post-apocalittici che le spiagge italiane finisco per incarnare negli anni successivi fino alla fine degli anni ’80, quando il cinema del nostro paese guarda con nostalgia alle radiose estati degli anni ’60, con film come Sapore di mare dei Vanzina, che aprono questo riflusso. Concludo con una rapida riflessione a proposito di quello che è successo negli scorsi anni e che raccontano il nostro tempo: la contrapposizione tra le immagini di Salvini al Papeete circondato dalle cubiste e Aldo Moro sulle spiagge di Terracina riscoperte nell’estate del 2019, messe in contrapposizione dai social, o esempi come una delle immagini simbolo di questa pandemia, ossia quella dei quad delle forze dell’ordine e dei droni che vanno a scovare l’uomo sdraiato sulla spiaggia. Non siamo più nell’ambito del cinema, ma della cultura visuale in generale, e penso che questo configurarsi della spiaggia come arena in cui si collocano varie direttrici e dimensioni simboliche, possieda una fortissima suggestione.



SCHEDA LIBRO

Curatore: Christian Uva
Editore: Marsilio
Collana: Elementi
Anno: 2020
In commercio dal: 5 novembre 2020
Pagine: 192 p., Brossura


(immagine principale: fotogramma da Il racconto dei racconti di Matteo Garrone, da cui è tratta la copertina di Matteo Garrone di Christian Uva. In basso: copertina di Matteo Garrone di Christian Uva)

Antonio Maiorino