Interviste
Marzo per gli agnelli, intervista a Mimmo Gangemi
CATANZARO, 2 GIUGNO - Marzo per gli agnelli è il nuovo romanzo di Mimmo Gangemi, ingegnere, affermato scrittore e giornalista, uno dei massimi esponenti di quella letteratura italiana con narrazione in Calabria che sta vivendo un imponente risveglio. A soli tre mesi dalla pubblicazione ha già riscosso un grande successo e la sua presentazione è richiesta continuamente su tutto il territorio nazionale. Grande è stato il consenso ottenuto al recente Salone Internazionale del Libro di Torino.
“Il destino di Giorgio Marro, brillante avvocato penalista, si è compiuto nel momento in cui un dramma ha colpito la sua famiglia in diversi modi, tutti disastrosi: il figlio piccolo ora in un’immagine sorridente da una lapide, il maggiore in sospensione tra un inganno di vita e la morte, la moglie in un delirio doloroso che l’ha indotta a scendere dal mondo, lui impaziente che si consumi la caduta interminabile e giunga il tonfo.
Mentre annaspa tra limacciosi pensieri di distruzione, intravede i bagliori di una battaglia che è disposto a combattere solo chi non ha più niente da perdere, solo chi, dopo aver vissuto con le spalle voltate a non vedere, può smettere di avere paura: c’è la ‘ndrangheta dietro la pressante richiesta di acquistare un suo terreno a picco sul mare dello Stretto, che non vale nulla; c’è la ‘ndrangheta dietro la scomparsa di due malavitosi, padre e figlio, che lui è stato l’ultimo a vedere vivi, lassù nella proprietà contesa; c’è la ‘ndrangheta dietro le prepotenze per convincerlo a vendere. E da quelle parti la ‘ndrangheta è zi’ Masi, un capobastone che non sa rinunciare all’antico, la ‘ndrangheta sono i Survara, che hanno abbracciato la modernità delittuosa e le nefandezze a essa appiccicate.
Marro indaga. Si spinge lontano, fino a disturbare l’avidità feroce, fino a restare ingabbiato nei contrasti tra le due ‘ndrine, fino a impattare nella brutalità della violenza criminale, fino a stagliarsi ombra solitaria, lunga di un sole già basso.”
Narratore dell’Aspromonte e delle Calabrie tutte, differenti sia per luoghi geografici che per valori e tradizioni, oggi ci dona una storia intensa, profonda, avvincente, minuziosa, che fa molto riflettere. La più cruda scritta fino ad ora, perché ogni personaggio vive un suo dramma esistenziale e percorre una via che conduce inesorabilmente verso una tragica evoluzione. Con la sua straordinaria capacità di scavo psicologico accompagna il lettore nel profondo dell’animo dei protagonisti facendogli vivere tutte le sue tensioni, le sue sofferenze, consentendogli di esaminare ogni aspetto della sua mentalità, le qualità e i difetti, fino a portarlo, in qualche caso, ad intravedere un barlume di umanità anche nel fondo di cuori spietati. Gli fa scandagliare un altro elemento importante della storia, l’indecisione tra la vita e la morte, la sospensione.
Una storia criminale, ambientata in una parte dell’Aspromonte in cui “la Legge talora latita o è repressiva oltre il giusto”, che tende a distinguere tra onorata società e ‘ndrangheta, pur condannandole entrambe. La prima si era imposta dei confini da non superare, anche se soltanto con lo scopo di mantenere il consenso, sostituita dalla seconda che, invece, è ancora più feroce e senza scrupoli. Marro incarna quella generazione che fu giovanissima alla fine degli anni ’50, primi anni ’60, in Aspromonte, quando la legge in quei luoghi era assente o camminava a braccetto con i capi bastone. Decenni in cui il capo mafia, con la complicità del prete, dirigeva la “Vara” del santo portato in processione che sotto, a spalla, poteva essere portata soltanto dai malandrini. Esempi di vita quotidiana che di fatto legittimavano, agli occhi dei cittadini, la presenza delle ’ndrine, provocando nei ragazzi la costruzione di modelli sbagliati, che sono costati anni di studio e frequentazioni diverse per poter essere modificati. Per questo motivo egli si pone in maniera differente nei confronti di Zi’ Masi, che si spaccia per l’onorata società, anche se in realtà non lo è, avendo abbracciato anche le nefandezze moderne, rispetto, invece, ai Survara, esponenti della nuova ‘ndrangheta. Egli, comunque, riesce ad opporre i propri anticorpi ad entrambe mentre altri, a causa di quella mentalità intrisa di ‘ndrangheta, pur senza delinquere, non vi riescono, consentendo alla malapianta di attecchire. È proprio attraverso questo contrasto che l’autore fa riflettere su quanto sia necessario un forte impegno culturale, soprattutto nelle scuole, per scalzare quella irresistibile, e malsana, seduzione.
Nonostante sia una storia vista dall’ottica cruda e maschile si coglie una grande delicatezza nella descrizione dei personaggi femminili, in particolare in Concetta, moglie di Zi’ Masi. Emanano tanta dolcezza che si contrappone all’aria delittuosa, di paura, di sensazioni spiacevoli che respirano i loro uomini.
La qualità della scrittura gli consente di raccontare anche attraverso i silenzi delle persone e, soprattutto, di dipingere con grande maestria la bellezza dei luoghi e di incantare con il suo lirismo nella descrizione dei paesaggi.
Marzo per gli agnelli, in un detto popolare molto usato in Aspromonte significa che per qualsiasi azione bisogna attendere il tempo più appropriato. Il libro ci invita ad una rivoluzione culturale, senza la quale saremo “tutti agnelli ad attendere il nostro luttuoso Marzo”.
Saverio Fontana ha incontrato l’autore, l’ingegnere Mimmo Gangemi.
-La storia più cruda scritta da lei fino ad oggi. Come è nata l’idea?
La scintilla mi è scattata al pronto soccorso degli Ospedali Riuniti di Reggio, alla vista di un giovane perduto, immobile su una sedia a rotelle dopo un incidente con la moto. Pian piano è maturata in me l’idea di intrecciare una tragedia familiare con un evento delittuoso. Giorgio Marro si avventura in indagini da cui si sarebbe tenuto alla larga se il destino non lo avesse provato e sconfitto. Lo fa perché non ha più nulla da perdere, al massimo gli può capitare d’essere ucciso ed è forse ciò a cui aspira.
-Giorgio Marro, il protagonista, “non vedeva Alfonso Calivi come un assassino, un giustiziere, piuttosto, a cui è toccato di doversi sostituire a un’altra legge che latitava, si teneva in disparte”. Possiamo definirlo un racconto fortemente critico nei confronti del ruolo dello Stato in alcune aree della Calabria in passato?
Prendo atto che la chiave di lettura non appartiene più all’autore dopo che il romanzo giunge in libreria. Dal mio punto di vista, Marro però metabolizza senza schierarsi dalla parte di Alfonso Calivi. Nello stesso tempo, è critico verso una Legge che, in certe aree più calde della Calabria, talora latita o è repressiva oltre il giusto.
-Vecchia e nuova ‘ndrangheta arrivano allo scontro frontale. Seppur nel finale si evince la condanna per entrambe, nel corso della narrazione per la prima sembra esserci un trattamento diverso, quasi come se avesse un alibi?
In realtà è tutta nuova ’ndrangheta, con zi’ Masi che si spaccia per l’onorata società del consenso, senza esserlo, avendo abbracciato le nefandezze moderne. Tuttavia, tendo a distinguere le due forme di mafia, con una che s’era data delle regole da non oltrepassare – ma che talvolta oltrepassava – non per bontà di cuore, per carpire ancora consenso piuttosto, e con la seconda tristemente senza scrupoli e affondata nei delitti peggiori, più atroci. Non assolvo nessuna delle due, non può esserci assoluzione per chi regola le sue faccende con il sangue. Per intenderci, se una è stata peste, l’altra è colera.
-Lei ha sostenuto che “trova il coraggio di combattere la criminalità organizzata soltanto chi è disposto ad immolarsi da eroe o chi, come Giorgio Marro, non ha più niente da perdere nella vita”. Poca cosa per vincere la guerra. Siamo, quindi, tutti condannati ad essere agnelli che attendono il loro Marzo o possiamo fare qualcosa per sconfiggere la malapianta?
Non mi sento di rinfacciare a nessuno la viltà – che poi viltà non è – di non denunciare episodi delittuosi suscettibili di guastare la pace sua e della famiglia. Si ha il diritto di non essere eroi. Forse ci armeremo di civiltà e di coraggio quando sentiremo davvero lo Stato accanto a noi, quando non sarà necessario stravolgersi la vita. Intanto, potremmo aiutare compiendo gesti di ordinaria e quotidiana legalità, perché capaci di moltiplicarsi e di schiarire l’aria ammorbata, e dichiarando a pieni polmoni che stiamo dalla parte della Giustizia e contro i malavitosi, questi con la faccia più dura dei mostaccioli, se osano definirsi uomini d’onore.
-Vi è un riuscito utilizzo di espressioni dialettali italianizzate. Perché ha fatto questa scelta?
Credo di aver caratterizzato la mia scrittura. Ho la presunzione di ritenere che un mio lettore abituale, messo di fronte a una pagina qualsiasi, riesce a capire che appartiene a me. Si impara a scrivere scrivendo. Si acquisisce la tecnica e si giunge al top delle capacità personali. Non utilizzo espressioni in dialetto. Parole singole, sì. Italianizzo però certe espressioni dialettali. Farlo cala di più il lettore nella storia. Farlo forse conferisce una minima dignità di lingua al nostro dialetto.
-Lei è uno dei massimi esponenti della Nuova Letteratura Calabrese. Crede che il fiorire della narrativa calabrese, dopo un lungo periodo di silenzio, sia casuale?
È sbagliato parlare di letteratura calabrese. In Puglia o in Lombardia nessuno provincializzerebbe così. È narrativa italiana con ambientazione in Calabria. Certo, dopo decenni di un silenzio pressoché totale, si è verificato un imponente risveglio letterario. Se proprio devo trovare una ragione per questo, propendo per l’idea che sia successo per contrasto e per reazione al degrado disastroso della Calabria.
Saverio Fontana