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Lo "status" di separato può essere dichiarato con sentenza non definitiva.
VIBO VALENTIA, 04 SETTEMBRE - Volendo evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio "status", il giudice emette immediatamente sentenza non definitiva, relativa alla separazione, a prescindere dall’impulso di parte. Ciò è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza n. 20666/2017, depositata il 31 agosto. [MORE]
Il caso. Un uomo adiva il Tribunale competente per ottenere la separazione giudiziale dalla moglie, con dichiarazione di addebito alla stessa. La donna si costituiva, chiedendo, a sua volta, che fosse addebitato al marito la rottura della convivenza matrimoniale. Entrambe le parti formulavano richiesta in merito all’affidamento e al mantenimento dei figli. Altresì, la moglie chiedeva che fosse disposto a suo favore un assegno mensile di mantenimento.
Il giudice di prime cure, con sentenza non definitiva, disponeva la separazione giudiziale dei coniugi.
Avverso tale sentenza la donna proponeva ricorso in appello, fondato su vari motivi, tra i quali l’asserita incostituzionalità della disciplina che consentiva la pronuncia della separazione con sentenza non definitiva in quanto in contrasto con gli artt. 3, 29 e 111 della Costituzione.
L’uomo si costituiva in giudizio chiedendo che fosse dichiarata l’inammissibilità per difetto di interesse all’impugnazione con condanna dell’appellante per lite temeraria, ai sensi dell’art. 96 c.p.c. I giudici di secondo grado, nel pronunciarsi, respingevano l’appello proposto dall’appellante, sostenendo che, in seguito alla riforma dell’art. 709 bis c.p.c., ad opera della legge n. 263/2005, sussisteva ormai l’obbligo e non più la sola facoltà per il giudicante di pronunciare anche con sentenza non definitiva sullo status e ciò a prescindere dall’impulso di parte. Altresì, dichiarava manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla donna, accertava, in base alle prospettazioni delle parti e all’esito del tentativo di conciliazione, l’intollerabilità della convivenza e condannava la stessa ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., ossia al pagamento in favore della controparte di una somma - ulteriore rispetto alle spese processuali - equitativamente determinata.
Avverso tale sentenza la donna proponeva ricorso per cassazione sulla base di sei motivi con i quali ribadiva di non aver mai proposto o aderito alla domanda di separazione, rilevava la mancata prospettazione delle pretese ragioni di intollerabilità della convivenza, contestava l’omessa valutazione in ordine alla prospettata necessità di prosecuzione del processo prima della sentenza dichiarativa della separazione e, infine, contestava la sussistenza dei presupposti per la sua condanna ex art. 96 c.p.c. e al pagamento delle spese processuali.
La Suprema Corte, richiamandosi a un altro pronunciamento della Suprema Corte (Cass. n. 10484/2012), ribadiva che la norma espressa dall’art. 709 bis c.p.c., modificata ad opera della legge n. 263/2005, sanciva in maniera esplicita, in materia di pronuncia immediata sullo "status", la già ritenuta equiparazione fra il procedimento di separazione tra i coniugi e quello di divorzio, volendo evitare condotte processuali dilatorie, tali da incidere negativamente sul diritto di una delle parti ad ottenere una pronuncia sollecita in ordine al proprio "status”. Poiché la ricorrente aveva affermato di non aver mai proposto o aderito alla domanda di separazione, rilevando la mancata prospettazione delle ragioni di intollerabilità della convivenza, il Supremo Collegio ribadiva il principio, già affermato, secondo il quale il giudice era tenuto a verificare, in base ai fatti obiettivi emersi l'esistenza, anche in un solo coniuge, di una condizione di disaffezione al matrimonio tale da rendere incompatibile, allo stato, pur a prescindere da elementi di addebitabilità da parte dell'altro, la convivenza. Ove tale situazione di intollerabilità si verificasse, anche rispetto ad un solo coniuge, doveva ritenersi che questi avesse diritto di chiedere la separazione.
Con riguardo, invece, alla questione di legittimità costituzionale sollevata dalla ricorrente, i giudici di legittimità si richiamavano a un pronunciamento del 2010 ribadendo che la sentenza non definitiva di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, che il tribunale era tenuto a pronunciare d'ufficio quando la causa fosse, sul punto, matura per la decisione, ed alla quale facesse seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni, costituiva uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determinava un'arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perché era sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l'effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che poteva essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell'assegno di divorzio. Pertanto, era manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 9, della legge n. 898/70, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost.
Infine, in riferimento alla contestazione da parte della donna aveva circa la sussistenza dei presupposti per la sua condanna ai sensi dell’art. 96 c.p.c.. e al pagamento delle spese processuali del giudizio di secondo grado, la Corte di legittimità riteneva di aderire all’orientamento giurisprudenziale più recente secondo il quale il rigetto, in sede di gravame, della domanda, meramente accessoria, ex art. 96 c.p.c., a fronte dell'integrale accoglimento di quella di merito proposta dalla stessa parte, in riforma della sentenza di primo grado, non configurava un'ipotesi di parziale e reciproca soccombenza, né in primo grado né in appello, sicché non poteva giustificare la compensazione delle spese di lite ai sensi dell'art. 92 c.p.c. Per i Supremi Giudici, con riferimento al giudizio di legittimità, non sussistevano i presupposti per la condanna della donna ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c.
Per tali motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
Avvocato Anna Maria Cupolillo Staff Giuridico Avvocato Express