Politica

“L'Italia e la democrazia. Un matrimonio difficile e assai turbolento” di Davide Romano, giornalista

Ogni volta che il centrodestra o la destra, fate voi, va al governo del Paese, ecco ergersi allarmati i soliti intellettuali da talk e compagnia varia assortita a gridare che la democrazia è in pericolo o che siamo ormai in una dittatura. Il Fascismo è tornato seppure in forme più scintillanti e seduttive! Questo almeno fino al successivo argomento di “attualità” – guerra di Medio Oriente o in Ucraina, manovra finanziaria, dichiarazioni di questo di quel presunto leader politico, lunghezza delle gonne, etc. - su cui correre generosamente i cento metri delle opinioni più banali e scontate in una contrapposizione, che non è mai veramente tale perché funzionale a un certo copione da avanspettacolo. È il circo dei media o sono i media del circo che è ormai il nostro Paese. Chissà.

Ma c’è una scena che non mi tolgo dalla testa ed è quella di un matrimonio. Non il classico matrimonio da favola, con sposi sorridenti e invitati festosi, ma uno di quei matrimoni un po’ tirati, dove si capisce subito che la convivenza non sarà semplice. Sto parlando del matrimonio fra l’Italia e la democrazia. Un’unione che è cominciata con un gran fracasso – quello della Seconda Guerra Mondiale – e che non ha mai smesso di dare segni di crisi.

Guardiamoci in faccia, italiani. La democrazia, qui da noi, non è mai stata un amore a prima vista. Non siamo mica come gli inglesi, che con la democrazia ci sono cresciuti e l’hanno affinata come una vecchia ricetta di famiglia. No, noi l’abbiamo accolta come si accoglie un parente venuto da lontano, con cui non si ha molta confidenza ma che, si dice, porterà vantaggi. La verità, però, è che l’Italia ha sempre avuto una relazione ambivalente con la democrazia. La guarda con rispetto, certo, ma anche con una certa diffidenza, come si fa con un oggetto prezioso ma difficile da maneggiare.

Il nostro matrimonio con la democrazia è stato celebrato nel 1946, con il referendum che ha sancito la nascita della Repubblica. Ma se pensiamo che quel voto è stato l’inizio di una storia d’amore senza intoppi, ci sbagliamo di grosso. Basta sfogliare i giornali di quegli anni – e non solo quelli – per vedere che già allora si intuiva quanto sarebbe stata complicata la convivenza. Gli italiani hanno detto "sì" alla democrazia, ma con la stessa convinzione con cui si dice "sì" a un viaggio verso una meta sconosciuta, spinti più dalla paura di ciò che si lascia alle spalle che dalla voglia di esplorare.

Non è un caso che la nostra democrazia sia sempre stata più formale che sostanziale. Abbiamo adottato la Costituzione più bella del mondo, dicono, ma poi l’abbiamo trattata come una lista di buoni propositi da mettere in pratica solo quando ci fa comodo. Abbiamo eletto i nostri rappresentanti, ma li abbiamo sempre guardati con un misto di sospetto e rassegnazione, come se fossero un male necessario più che i custodi della nostra volontà.

E qui entra il confronto con le altre democrazie. Prendiamo la Gran Bretagna, per esempio. Quella democrazia è cresciuta nel tempo, come una quercia piantata in terreno fertile, radicandosi nelle istituzioni e nelle abitudini della gente. Lì, la democrazia è un fatto di cultura, non solo di legge. Gli inglesi si fidano delle loro istituzioni, e sanno che ogni crisi politica è solo una parentesi temporanea, perché la democrazia tornerà sempre a far valere la sua forza.

Dall’altra parte dell’oceano, negli Stati Uniti, la democrazia è una questione di identità nazionale. Gli americani sono cresciuti con l’idea che la democrazia è ciò che li distingue dal resto del mondo, che è il loro contributo alla storia dell’umanità. Certo, anche lì non mancano le contraddizioni, ma gli americani ci credono davvero, nella loro democrazia. L’hanno difesa a caro prezzo, l’hanno esportata (a volte malamente) e l’hanno fatta diventare il loro biglietto da visita nel mondo. E quando sbagliano, lo fanno in grande, con quella convinzione tipica di chi sa che, alla fine, la democrazia saprà rimediare ai propri errori.

E poi c’è l’Europa continentale. I francesi, con la loro Repubblica, hanno fatto della democrazia quasi una religione laica. Liberté, Égalité, Fraternité non sono solo parole incise sui frontoni dei municipi; sono concetti che, nel bene e nel male, guidano le scelte di un popolo. Certo, anche lì la democrazia ha avuto i suoi alti e bassi, ma i francesi l’hanno sempre difesa con una passione che a noi, spesso, è mancata.

E l’Italia? Noi abbiamo la nostra Costituzione, nata sulle ceneri di un ventennio di dittatura, ma la nostra democrazia è come un abito ancora da portare su misura. Ci avvolge, sì, ma non ci calza a pennello. Gli italiani hanno sempre avuto un rapporto complicato con l’autorità, e questo si riflette nel modo in cui viviamo la democrazia. Da un lato, non ci piace essere comandati, dall’altro abbiamo una tendenza inveterata al compromesso e al trasformismo, che spesso ci porta a trattare la democrazia come una sorta di accordo temporaneo, buono finché non si trova di meglio.

E non è che il nostro matrimonio con la democrazia sia stato del tutto infelice. Ci sono stati momenti in cui l’Italia ha mostrato di poter essere una democrazia vibrante, capace di produrre progresso e stabilità. Ma sono stati momenti fugaci, lampi di speranza in un cielo spesso grigio di incertezze. Quando la crisi bussa alla porta, l’italiano medio torna a guardare con nostalgia a quei sistemi che promettono ordine senza troppe complicazioni, magari dimenticando che, nella storia, questi sistemi hanno spesso portato più guai che benefici.

E poi c’è quel nostro eterno vizio del compromesso, che nella democrazia dovrebbe essere una virtù, ma che da noi diventa spesso un modo per non decidere nulla, per lasciare tutto com’è in attesa che qualcun altro prenda le redini. In questo matrimonio, la democrazia è quella moglie che viene sempre messa in secondo piano, in favore di abitudini più antiche e radicate. Non siamo mai riusciti a darle quel ruolo di protagonista che meriterebbe, preferendo mantenerla in una posizione marginale, buona per le cerimonie ufficiali ma non per la vita di tutti i giorni.

Eppure, nonostante tutto, la democrazia è ancora qui, e forse proprio questa sua resistenza è il segno che, in fondo, l’Italia ha cominciato ad apprezzarla. Magari non l’ama come si ama una passione travolgente, ma la rispetta come si rispetta un compagno di viaggio che ha dimostrato di essere affidabile, anche se non sempre simpatico.

In questo matrimonio, c’è ancora molto da fare. Dobbiamo imparare a vivere la democrazia non solo come un dovere, ma come un’opportunità. Dobbiamo smettere di considerarla un’ospite scomoda e iniziare a trattarla come una parte integrante della nostra identità. E forse, un giorno, potremo dire che questo matrimonio, nato con tante difficoltà, ha finalmente trovato la sua armonia.