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Lift like a girl, le sollevatrici da Oscar in Egitto: intervista alla regista Mayye Zayed
Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Lift like a girl di Mayye Zayed: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.
Sarebbe semplice dire: dall’Egitto con furore. Lift like a girl di Mayye Zayed racconta in un documentario muscolare e ruvido la storia, ancora in fieri, delle giovani, a volte giovanissime sollevatrici di peso allenate ad Alessandria d’Egitto da Captain Ramadan, padre di Nahla, atleta che nel 2003 ha vinto la medaglia d’oro ai mondiali. Ancora oggi, orgogliose di là delle discriminazioni di genere, sudano felpe e canotte in una sorta di cortile, all’aperto, tra il fischio dei clacson e lo stupore – anche molesto – di qualche passante. La palestra non è a cinque stelle, certo, ma tra loro nascerà qualche stella. Tra queste, la protagonista Zebiba, che la regista ha seguito per 4 anni dalla tenera età dei 14, già miete successi e inorgoglisce il Paese. Fiero anche, tra l’altro, del documentario stesso, che l’Egitto prova infatti a candidare agli Oscar, dopo alcune vetrine già rilucenti, quali la selezione in concorso all’ultimo Festival di Toronto e la vittoria del Golden Dove all’importante festival tedesco DOK Leipzig (uno dei più vecchi festival di documentari, fondato nel 1955).
LA TRAMA DI LIFT LIKE A GIRL
In una strada trafficata e rumorosa di Alessandria, in Egitto, un angolo apparentemente vuoto, circondato da una grata di metallo, è il luogo di allenamento di un’élite di campionesse e promesse del sollevamento pesi. Zebiba vi si allena da 5 anni, sin da quando ne aveva 9. Il suo allenatore è Captain Ramadan, padre di quella Nahla che già ha fatto la storia dell’Egitto come atleta olimpica e campionessa del mondo. Da oltre 20 anni cresce talenti: le sue atlete vincono medaglie e campionati. Ora tocca a Zebiba: saprà mettere da parte la delusione delle inevitabili difficoltà e gli istinti giovanili per diventare, come confida Captain Ramadan, una leggenda?
PERCHÉ INNAMORARSI DI LIFT LIKE A GIRL
Il documentario di Mayye Zayed ha un dirompente valore di attualità rispetto al tema della parità di genere e lo sviluppa con professionalità assoluta nel formato del documentario osservazionale, con un impegno di quattro anni in grado di dare i frutti di un ritratto di situazione sincero ed efficace. Niente fronzoli, nella forma sobria, quanto l’attenzione ai valori umani, al racconto fluido e penetrante della storia di Zebiba e all’ispirazione – anche emozionata – che ogni spettatore può trarne.
L’INTEVISTA: MAYYE ZAYED RACCONTA
ANTONIO MAIORINO: hai dichiarato che ad ispirarti sia stata in qualche modo Nahla Ramadan, atleta egiziana che nel 2003 ha vinto la medaglia d’oro ai mondiali di sollevamento pesi, nonché figlia di Captain Ramadan, l’allenatore protagonista del tuo documentario. Un film è un atto di ispirazione: ispira chi lo fa, ispira chi lo vede. Cosa ti ha lasciato Lift like a girl e cosa pensi che possa ispirare nei suoi spettatori?
MAYYE ZAYED: penso di aver imparato molte cose da questa esperienza: da Captain Ramadan, Nahla, Zebiba e in generale dal posto in cui si allenano le ragazze. Quando ho cominciato a girare il film, sono partita da una mia idea sulla situazione, ma poi l’esperienza mi ha reso umile perché mi ha fatto capire molte cose, e se tra queste dovessi dire la più importante che queste incredibili persone mi hanno insegnato, direi il proposito di non mollare mai. È qualcosa in cui ho sempre creduto. Sono una persona che odia dover rinunciare a qualcosa, ma capisco bene queste ragazze che hanno tutte le ragioni per smettere di fare quello che fanno: non hanno finanziamento, non hanno aiuto, vivono in un quartiere non ricco, non hanno il privilegio di praticare sport, ma lo fanno comunque ed eccellono. Non si tratta solo di fare sport per il gusto di fare sport, ma di farlo con grandi sogni, come diventare campioni del mondo. Queste sollevatrici di peso cercano di realizzare il proprio sogno nonostante tutte le difficoltà e penso che questo abbia ispirato me non meno di quanto possa ispirare gli spettatori.
A.M: stiamo parlando di persone che ispirano, ma sembra che anche il posto in cui si allenano le ragazze emani qualcosa di speciale: a cielo aperto, nel tumulto della città.
M.Z: ad un certo punto ho avuto un problema al collo per il quale non riuscivo a stare bene in piedi e a girare il collo, ma ho deciso comunque di continuare a girare il film; ogni volta che vedevo una delle ragazze sollevare pesi, pensavo che anche loro avevano avuto degli infortuni ed avevano superato il dolore e le debolezze, senza demordere. Mi ricordo che durante quel periodo ho pensato che anche io non dovevo smettere, a dispetto del dolore: sono loro ad avermi dato la forza di finire il film. Quando entri nel cortile in cui si allenano, senti la forza in ogni angolo: dalla ragazzina, alla donna, all’uomo. Penso, in tal senso, che sia il posto in tutto l’Egitto in cui ho potuto vedere davvero l’uguaglianza tra uomini e donne. Io stessa mi sono sentita trattata alla pari e penso che ogni donna che vada in quel posto lo percepisca. Anche quando ragazzi e uomini vi si allenano, non ti guardano diversamente se sei donna: ti vedono semplicemente come una persona. È qualcosa che mi piace tanto ed ho pensato che potessi efficacemente far sentire anche lo spettatore in questo modo.
A.M: torniamo ai protagonisti. Parlavamo di Captain Ramadan: non c’è dubbio che sia un personaggio con una forte predisposizione cinematografica. Eppure, è chiaro che la scrittura del film non preveda che sia lui il protagonista, quanto le ragazze: come sei riuscita a fare in modo che lui non rubasse la scena e trasformasse un documentario di osservazione in un reality show?
M.Z: intanto precisiamo che non c’è uno script proprio perché il film è un documentario di osservazione. È un po’ come pescare: ci vai e non sai cosa pescherai; a volte grandi cose, altri giorni un bel niente. Abbiamo cercato di essere una squadra molto ridotta, minimale. Captain Ramadan è un personaggio molto carismatico che non può essere legato, ha una presenza molto forte, ma insieme alla mia squadra ho voluto sin da subito fare un film sulle ragazze perché ho sempre sentito che lui come protagonista non avrebbe funzionato, visto che ha già compiuto il proprio viaggio, nel senso che ha avuto successo nell’allenare donne per oltre 20 anni. Dal punto di vista drammatico, la sua è una storia già compiuta. Io, invece, volevo intraprendere un nuovo viaggio insieme ad una ragazza che cominciasse questa esperienza dall’inizio, ed ho scelto Zebiba. Captain Ramadan resta comunque molto interessante, non solo per la forte presenza, ma anche per il contrasto con la stessa Zebiba, che è quasi l’opposto di lui. I due hanno una relazione davvero speciale ed ho voluto concentrarmi su questo rapporto.
A.M: hai dovuto limitare Captain Ramdan in qualche modo? Ed hai mai avuto la tentazione d’intervenire nei momenti in cui perdeva le staffe con le ragazze?
M.Z: Captain Ramadan ha qualcosa di speciale che spinge le ragazze ad andare avanti; si può dissentire dai suoi modi quando impreca o si arrabbia ed anche a me è capitato, ma allo stesso tempo ho voluto fortemente mostrare questo modo di fare. All’inizio abbiamo avuto il problema del fatto che lui parlasse alla macchina da presa ed ho allora cercato di spiegargli cosa volessimo fare e cosa volesse dire girare un documentario osservazionale; lui ha subito capito e rispettato questa indicazione, smettendo di parlare alla videocamera.
A.M: immagino che le ragazze non avessero dapprincipio la stessa attitudine disinvolta, se non esuberante, di fronte alla macchina da presa che ha avuto Captain Ramadan. Hai incontrato riluttanze? Come hai costruito quel rapporto di fiducia fondamentale tra osservatore ed osservato?
M.Z: le ragazze più grandi all’inizio non volevano far parte del film. Ho preso atto con rispetto della loro decisione, ho spiegato che se non avessero voluto far parte del film, sarebbe bastato semplicemente dirlo; ed alcune, appunto, me l’hanno detto. Dopo un po’, tuttavia, è andato bene a tutte che io facessi le riprese, si è costruita una fiducia con loro così come con Captain Ramdan. Ho ribadito loro che potevano segnalarmi in qualsiasi momento che si sentivano a disaggio, a disagio, che potevano chiedermi di interrompere le riprese in qualsiasi istante. E in effetti, durante i campionati ad Alessandria, Zebiba mi si è avvicinata e mi ha fanno notare che il fatto di starle così vicino la innervosiva, chiedendomi pertanto di filmarla a distanza; è stato quello che ho fatto, senza più avvicinarmi a lei. Era solo il primo campionato, mentre in quelli successivi non ha avuto problemi, non faceva quasi più caso a me. Penso che questi dettagli e queste conversazioni a camera spenta abbiano davvero aiutato il film a diventare quello che è.
A.M: c’è però una difficoltà nella difficoltà: quella di raccontare le sconfitte. Non è facile mostrare la propria delusione davanti alla macchina da presa, soprattutto per delle adolescenti. Come sei riuscita ad ottenere la loro disponibilità in questo senso?
M.Z: ero consapevole del fatto che non fosse facile avere sempre qualcuno attorno a filmarti, e che comunque, anche quando hai dato il consenso per farlo, puoi non gradire il modo in cui appari sullo schermo nella versione finale. Anche se le ragazze erano sempre a proprio agio con noi, qualcuna ha richiesto di eliminare qualche parte, anche solo stupidaggini. Ciononostante, persino dopo il final cut del montaggio ci ho tenuto a chiedere un ulteriore parere per capire se tutte fossero pienamente a proprio agio. Da regista, so che non è gradevole che un personaggio intervenga dopo il montaggio finale chiedendo di rimuovere questa o quella scena, ma so anche che le ragazze non sono filmmaker, nel senso che, non conoscendo il processo tecnico di realizzazione di un film, non immaginano nemmeno come possa cambiare la loro immagine in base al montaggio: ecco perché avevo bisogno che vedessero il film, e che lo facessero prima ancora che mi occupassi della progettazione del design del suono. Ebbene: ciò che hanno visto, è piaciuto molto; hanno approvato ogni scena, tutte. Mi sono sentita sollevata! Ho anche chiesto a mia volta se andassero bene alcune scene, come quelle in cui Captain Ramadan si arrabbia con Zebiba, ed ho ricevuto ancora una volta il consenso: contente loro, contenti tutti! Hanno avuto la chance di dire no, ma non l’hanno fatto, e ne sono grata, perché così posso mostrare il film così come è stato montato.
A.M: il contraltare dei momenti amari è dato dagli abbracci serali con le madri, dagli incontri con le famiglie dopo le giornate di duro allenamento. Si può dire che nel tuo documentario, così attento a questa forma di empowerment femminile e alla forza delle ragazze, ci sia uno spazio importante anche per la tenerezza?
M.Z: sì, naturalmente. La forza può essere completata da molte altre emozioni. Questo film non è sulla vittoria: è sull’accettare la sconfitta e superarla. Qui la sconfitta può essere un campionato o una persona che perdi; può essere molte cose. Mentre giravo il film, non volevo che queste donne apparissero come supereroine; per me lo sono, ma volevo che prima di tutto sembrassero umane. Mostrarne tutti gli aspetti umani significa riprendere i momenti di emozione o di silenzio. Anche la persona più forte del mondo può essere vulnerabile in alcuni momenti ed era qualcosa di cui ero molto curiosa, soprattutto con nel mondo degli atleti. In film che trattano di sportivi che vincono medaglie o salgono sul podio, immaginiamo comunque che il percorso non sia mai del tutto facile: ci devono essere stati dei momenti negativi, di frustrazione, in cui ci si sente vicini a mollare ma si riesce ad andare avanti. Ho cercato di catturare queste emozioni nel film e spero che il pubblico lo noti. Zebiba e le altre sono umane e molta gente in tutto il mondo può sentire un legame con loro anche senza praticare alcuno sport.
A.M: a proposito di farsi forza nei momenti difficili: ho visto il film nella versione internazionale con i sottotitoli in inglese ed ho notato il classico linguaggio maschilista, frutto di una società tradizionalmente patriarcale, per cui significativamente si dice a delle ragazze di “man up” (fare gli uomini), le si chiama “boy” o “man”, si dice loro di mostrare le “balls”.
M.Z: è molto comune sentire espressioni come “devi essere un uomo”, “you have to man up”, per invocare la forza o per incoraggiare qualcuno. Lo si nota nei sottotitoli inglesi, ma è una cosa incorporata anche nella nostra cultura, al punto che lo dicono tutti, persino le super-femministe. Le ragazze si parlano così, come tra uomini, perché per loro è un modo di caricarsi (to feel empowered, n.d.R.). Anche Captain Ramadan parla in questo modo, e questo fa sentire le ragazze uguali agli uomini. Lo trovo interessante, perché dice molto delle società che utilizzano queste espressioni patriarcali e sessiste: non succede solo nell’arabo, ma in tante altre lingue. Quando ho lavorato con i sottotitoli, in tutte le lingue ho dovuto cercare delle espressioni affini a quelle con cui negli Stati Uniti o nel Regno Unito le persone si parlano tutto il tempo, proprio per spingere lo spettatore a interrogarsi sul fatto che esse siano usate e riusate da giovani donne, e questo non ha senso. Vorrei davvero che lo spettatore vivesse l’esperienza di essere allenato insieme alle ragazze e di sentirsi dire cose di questo tipo.
A.M: Captain Ramadan arriva anche a dire a Zebiba: “forget about being ladylike”, che potremmo tradurre come “dimentica di essere come una donna”. Ma è davvero questo il punto della questione? O, piuttosto, nel ladylike, nell’essere donne bisogna semplicemente includere anche aspetti in genere associati pregiudizialmente alla mascolinità?
M.Z: quand’ero bambina, mia madre mi diceva spesso di dover essere ladylike, di comportarmi da signorina, e così mi rimproverava se scendevo in strada coi pantaloncini a giocare con i ragazzi. Io non capivo: ero una bambina, non una signorina, e volevo solo giocare coi miei cugini. Questa espressione, ladylike, mi dà davvero fastidio e il fatto che venga usato con le ragazze secondo me le spinge ad evitare di fare molte cose. Captain Ramadan lo dice a Zebiba per migliorare la sua posizione nello squat, ma Zebiba esita perché si mantiene fedele all’insegnamento dei propri genitori. Rivolgendosi così alle ragazze, Captain Ramadan mostra di relazionarsi a loro come persone, come essere umani, indipendentemente dal fatto che siano uomini, donne o signorine. Penso che questo sia fondamentale.
A.M: se il loro allenatore le incoraggia, alcuni passanti, invece, le disturbano. Ricordo una scena in cui un ragazzo urla: "si sta trasformando in un ragazzo!", o un altro passante che dice "che combinate, idioti?". Li chiamo street haters, odiatori della strada. Quanti ne hai incontranti durante le riprese? Immagino che altre scene del genere non siano confluite nel film in fase di montaggio, ma si siano comunque verificate.
M.Z: succede tutto il tempo. Non si trattava solo di odiatori, ma anche di persone che semplicemente si fermavano incuriosite dall’allenamento delle ragazze. Penso che succederebbe ovunque, anche in Italia: è piuttosto bizzarro allenarsi in strada in quel modo! Captain Ramadan lo fa da più di 20 anni, per cui le persone del vicinato erano già abituate; quelle che venivano da fuori, tuttavia, si chiedevano cosa stesse succedendo, ed alcune bullizzavano o infastidivano le ragazze. Qualche volta l’abbiamo mostrato durante il film. Per un film di 90 minuti dopo 4 anni di riprese, però, bisognava trovare un equilibrio in fase di montaggio, e mostrare sia i semplici passanti che la gente che disturbava le ragazze. In altre parole, abbiamo cercato di trovare un equilibrio tra tutti i tipi di reazione.
A.M: ho visto molti documentari di osservazione che mostrano una cura estrema nella fotografia e in aspetti vari del processo tecnico, al punto da essere accusati di essere “estetizzanti”, quasi delle esibizioni virtuose. Non mi sembra il caso del tuo documentario: Lift like a girl accetta le imperfezioni, come la variazione delle distanze della macchina da presa, i movimenti della camera a spalla, i fuori fuoco della fotografia. Questa mancata rifinitura formale può essere considerata a sua volta una forma di estetica, che preferisce la verità al make-up cinematografico?
M.Z: sento che questo tipo di storia che cercavo di raccontare non avrebbe funzionato con un’estetizzazione troppo forte. Alcune storie ne hanno bisogno, ma non la nostra. Volevo mostrare la ruvidezza di questo lavoro, con l’ambiente di strada e le auto in sottofondo, senza uno splendente abito visivo. Dovevano esserci polvere e rumore, nel montaggio così come nel sonoro. Volevo che il pubblico si sentisse insieme a queste ragazze, sperimentandone le difficoltà e la durezza degli allenamenti. Pensa che in quella location c’era così tanto rumore di fondo, tra auto e camion, che a volte non riuscivi nemmeno ad udire cosa dicesse la persona accanto a te. Ho pensato che non immagine più stabile non sarebbe risultata efficace.
A.M: sai che la classica domanda finale è: a quale progetto stai lavorando? Non mi sottraggo a questa banalità, e te lo chiedo; tuttavia, vorrei che provassi a raccontarmelo spiegandomi come intendi barcamenarti tra cinema documentario e cinema di finzione, perché so da tue precedenti affermazioni che ami muoverti nella zona grigia tra i due tipi di espressione cinematografica.
M.Z: al momento sto lavorando ad un film di finzione che s’intitola Rainbows don’t last long e ne sto scrivendo la sceneggiatura. Spero che possano in qualche modo esserci dei momenti reali, non recitati, e sto lavorando allo script proprio in questa zona grigia. Mentre realizzavo Lift like a girl, sapevo che stavo girando un documentario osservazionale e pertanto non volevo intervenire come regista in nulla di particolare, ma allo stesso tempo ho cercato di pensarlo come un film di fiction. Soprattutto durante il montaggio, abbiamo cercato di strutturarlo come un film di finzione. Ad esempio, in un film di finzione il personaggio può anche venir fuori dal nulla, senza che lo spettatore si chieda da dove venga; questo però, appunto, vale per i film di finzione. Si tratta di quello che accade in Lift like a girl, diversamente da quanto ci si aspetterebbe da un documentario, e proprio come avverrebbe in un film di finzione. Adesso sto cercando di scrivere le battute dei dialoghi in modo tale che possano restare aperte a momenti di realtà, tanto più considerando che la protagonista è una bambina, e i bambini non si possono controllare al cento per cento: devi dar loro lo spazio per improvvisare e vedere dove ti porta tutto questo. Inoltre, è un road movie: si sarà sulla strada per molto tempo e dovrò essere molto adattabile a ciò che accadrà. Proprio per questo, posso dire che la mia esperienza di documentarista entrerà sicuramente in questo film di fiction. C’è una cornice per la storia, ma filmerò anche gente reale al posto di attori e porterò su set lo spirito del documentario. Esteticamente non cercherò di essere perfetta: in troppi si concentrano sulla forma, mentre io vorrei puntare sulle emozioni che gli spettatori possono trarre dalla storia.
SCHEDA TECNICA DEL FILM
TITOLO: Lift like a girl
GENERE: Documentario
PAESE: Egitto
DURATA: 92’
REGIA, SCENEGGIATURA, PRODUZIONE: Mayye Zayed
CO-PRODUTTORI: Anna Bolster & Anke Petersen
FOTOGRAFIA: Mohamad El-Hadidi
MUSICA: Marian Mentrup
MONTAGGIO E PROGETTAZIONE DEL SUONO: Samir Nabil & Brian Dyrby
PRODUZIONE: Cléo Media
CO-PRODUZIONE: ZDF Das kleine Fernsehspiel, in associazione con JYOTI Film e Rufy’s Films
(IMMAGINI: fotogrammi dal film Lift like a girl; in copertina, Zebiba solleva un peso; prima immagine interna: Captain Ramdan e Zebiba; seconda immagine: uno scorcio dell'area di allenamento ad Alessandria. Si ringrazia Kathleen McInnis)