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L'Été l'Éternité di Émilie Aussel, dal premio a Locarno74 a Roma: l'intervista alla regista
Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, L'Été l'Éternité di Émilie Aussel: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.
L’estate e la giovinezza sembrano fatti della stessa sostanza: la leggerezza, la vitalità, il tempo che si dilata nella speranza di una durata infinita. L’esuberanza dei bagni, la dolcezza delle notti, la complicità dell’avventura: c’è tutto questo nei primi 15 minuti del film L'Été l'Éternité (Our Eternal Summer) di Émilie Aussel, Premio Speciale della Giuria Cine+ al recente Festival di Locarno 2021, nella sezione Cineasti del Presente. Un prologo da immersione quasi documentaria in una comitiva di adolescenti. Poi, in quel presente dalle sembianze eterne, irrompe il trauma, che getta nello sconforto il gruppo, lo dissolve nell’indicibile silenzio dello stupore addolorato. Lise, in particolare, porta il peso di una perdita impossibile da elaborare. Il racconto è invaso dai silenzi, e i giovani cercano loro stessi, consapevoli che l’evento vissuto li avrà cambiati per sempre. Non per forza in peggio, se si riesce a superare la durata - che sembra infinita - del trauma.
L'Été l'Éternité della regista francese, nativa di Montpellier ma di stanza tra Parigi e Marsiglia, arriva in questi giorni anche in Italia, all’interno della rassegna a cura dell’ANEC “Cannes, Locarno e Venezia a Roma” (venerdì 17 alle ore 18, Cinema Eden). Nell’occasione abbiamo intervistato Émilie Aussel, per farci raccontare come abbia saputo fondere suggestione e sincerità nel racconto di un’adolescenza a lutto.
LA TRAMA DE L'ÉTE L'ÉTERNITE
Vivere e amare all’età di 18 anni, immergersi nei giorni e nelle notti spensierate dell’estate, perdere la migliore amica all’improvvisa, e capire che niente dura per sempre. È tempo di incontri decisivi per rinascere. (Sinossi ufficiale a cura della produzione)
PERCHÉ INNAMORARSI DE L'ÉTÉ L'ÉTERNITÉ
Un racconto di formazione, quello di Émilie Aussel, che catapulta lo spettatore dalla leggerezza della compagnia agli abissi dell’anima ammutolita. Camera a spalla nella primissima parte, fluida composizione di quadretti idillici di un’estate di giovani al mare, L’Éte l'Éternité affronta il proprio cambio di tono, dopo l’evento tragico che affligge il gruppo di ragazzi, con un linguaggio di segno diverso, profondamente connotato in senso creativo e allineato alla formazione artistica della regista. Una cura pittorica dei paesaggi, che quasi dialogano con gli sguardi dei personaggi, oppure i monologhi con camera frontale degli stessi protagonisti, rivolti a invisibili persone perse o che si ha paura di perdere, sono solo alcuni degli elementi che la regista riesce ad amalgamare nei 75 minuti del proprio intenso racconto. Per spiriti sensibili.
L’INTERVISTA: ÉMILIE AUSSEL RACCONTA L'ÉTE L'ÉTERNITE
ANTONIO MAIORINO: il tuo film genera sin dall’inizio un profondo senso di verità. In che modo sei riuscito ad ottenerlo?
ÉMILIE AUSSEL: penso sicuramente grazie al lavoro svolto con gli attori, all'immersione fatta durante il casting con i giovani che hanno potuto incarnare i personaggi della storia. Mi sono occupata del casting io stessa con un assistente. In questa fase, ho vissuto molti incontri e ho fatto un primo tuffo nell'argomento del film. I casting consistevano in interviste in cui ho interrogato i giovani sulle loro amicizie, i loro amori e il loro rapporto con la perdita. Una volta scelti gli attori, ho lavorato a lungo per reinventare con loro la sceneggiatura e i personaggi, per far loro le parole del film ma anche per creare il gruppo, la squadra. Ho lasciato da parte la sceneggiatura e durante le sessioni di improvvisazione abbiamo trovato la linea che sarebbe stata alla base di L'Été l'Éternité. Così, sono nate le amicizie autentiche e gli affetti che sono presenti nel film. È importante per me lasciarmi ispirare dai giovani che scelgo, nutrire i personaggi con personalità reali e trovare così la giustezza (justesse, n.d.R.) o, come la chiami tu, "la verità".
A.M: nel primo quarto d’ora, sei riuscita a catturare tra i ragazzi della comitiva, anche con l’uso della camera a spalla, una sensazione di gioia leggera, di giovinezza. Dopo l’evento chiave, l’umore del film cambia radicalmente, ma anche dopo questa virata drammatica il senso d’immersione dello spettatore resta profondo. Per una cineasta è più facile catturare la felicità o il dolore? Quali sono i rischi di filmare queste situazioni emotive senza perdere di credibilità?
E.A: il primo quarto d'ora del film è molto improvvisato. Abbiamo avuto poco tempo per girare e dovevamo essere flessibili, per poter seguire gli attori senza imposizioni. Per me si tratta di immergere gli attori in situazioni reali (la festa che apre il film, il picnic in spiaggia) con indicazioni e relazioni precise, per poi lasciarli stare, lasciarli vivere. Volevo che questa prima parte - quella della felicità - fosse viva, fugace, effimera e che ci fosse una rottura radicale dopo il dramma. Così il film cambia regime, cambia ritmo, e si tuffa nell'interiorità di Lise. Il dolore della perdita pervade il film. Il suo dolore è sentito anche da altri. C'è una circolazione di sentimenti. Il gruppo svanisce per lasciare spazio a sentimenti più personali, più intimi. Non saprei dire se sia più facile catturare la felicità o il dolore, ho cercato di catturare entrambi. Quanto al rischio, è una scelta deliberata quella fare un film sui sentimenti più che sulla sceneggiatura, e osare esporli. La credibilità è una questione di gioco e di relazioni tra gli esseri sullo schermo, e in questo caso mi sembra che tutto funzioni affinché lo spettatore sia il più vicino possibile a un sentimento che probabilmente ha vissuto, a relazioni che possono essere l’eco del suo presente o un ricordo della sua giovinezza. Ancora una volta direi che tutto ciò passa attraverso il lavoro con gli attori e sicuramente di una macchina da presa che c'è, ma di cui si possono dimenticare.
A.M: c’è una sensazione che i giovani sembrano avere nel tuo film: quella dell’invincibilità. Ma il trauma irrompe nelle loro vite facendo percepire il senso della fragilità. Ad esempio, c’è un dialogo in cucina tra Marlon e Lise sull’incertezza del futuro. Nel passaggio dal senso dell’invincibilità a quello della fragilità, si può dire che il tuo film si costituisca come un racconto di formazione?
E.A: "A 18 anni pensi che tutto duri per sempre", dice uno dei personaggi. Naturalmente, finché non abbiamo perso nulla, crediamo nell'Eterno; poi, quando affrontiamo perdite dolorose o separazioni brutali, ci rendiamo conto che non siamo invincibili, che qualcosa è sfuggito. Certo, il film è un racconto di formazione, una storia di maturazione che si svolge nella consapevolezza della caducità della vita, delle persone, delle relazioni. È doloroso rendersi conto che le cose possono finire, ti rende vulnerabile. A volte ci costruiamo con ferite, ferite che non si rimarginano mai e tuttavia, come mostrano certi personaggi del film, anche senza cercare di superarle, troviamo in queste ferite la nostra forza, la nostra singolarità.
A.M: pur scegliendo di centrarsi su Lise, o su Lise e l'amica scomparsa (Lola) come in duetto mancato, il film mantiene un certo livello di coralità. È interessante soprattutto il modo in cui hai gestito le dinamiche di gruppo, quello di Lise e quello degli attori che preparano il pezzo teatrale. Diresti che nel tuo film prevalgono le solitudini e le individualità, oppure le interazioni dei gruppi?
E.A: come ho detto prima, volevo che i sentimenti fluissero, perché il film parlasse anche di consolazione. Impossibile consolarsi da solo. Per me Lise è la via principale, ma gli altri personaggi condividono i suoi sentimenti e diventano un coro (in senso musicale, tragico). Il dolore della perdita fa nascere la solitudine e nella solitudine Lise si confronta con gli altri e cresce. Solitudine e gruppo non si contrappongono e così nasce il racconto corale.
A.M: il tuo film è caratterizzato da un parlato che definirei pluridirezionale: personaggi che parlano tra di loro, ma anche che parlano a personaggi invisibili, e quasi finiscono per fare monologhi. Come hai lavorato in fase di scrittura a questi molteplici flussi di parole?
E.A: volevo qualcosa di romanzesco (romanesque, che vuol dire anche romantico, n.d.R.), volevo togliere le apparenze senza rinnegarle, volevo tuffarmi nell'interiorità. C'è qualcosa di romanzesco in questa moltitudine di voci. La necessità e il modo di relazionarsi in giovane età sono fondamentali. Quanto agli appelli agli assenti, ai pensieri clandestini, a ciò che uno vorrebbe dire all'altro ma che è impossibile dire faccia a faccia perché l'altro è scomparso, o perché l'altro non capirebbe, ebbene, sono sempre stati al centro del progetto. Fin dal casting, ho chiesto ai giovani di fare un monologo davanti alla telecamera in cui parlassero con le persone care che potrebbero aver perso o che hanno paura di perdere. Il materiale di questi monologhi era travolgente e ho immaginato di includerlo nel film. E poi, è in questo aspetto multidirezionale che si gioca, probabilmente, la dinamica tra gruppo, solitudine e circolazione dei sentimenti. È anche un modo per esporre una fragilità e per affrontarla.
A.M: oltre alla parola, nel tuo film diventa fondamentale il silenzio. Allo stesso tempo, si nota un uso molto diffuso della musica. In che modo questi mezzi espressivi – il silenzio e la musica – hanno integrato l’emotività dei personaggi?
E.A: il silenzio è un’evidenza. È collegato con l'impossibilità di parlare con l'amica perduta, è l'assenza, il vuoto lasciato da Lola, ma anche l'impossibilità di trovare le parole per continuare a stare insieme.
La musica è essenziale e infatti il film si apre con una festa dove la musica è alta e ci trasporta nel tumulto di una serata. Questa è l'unica musica diegetica nel film. Ovunque, è stato il duo Postcoïtum, formato da Damien Ravnich e Bertrand Wolff, a comporre le musiche del film, proponendo colori diversi a seconda dell'energia delle scene, sposando i sentimenti dei personaggi. Abbiamo lavorato insieme per diversi film e la loro musica è presente fin dalle riprese. Aiutano gli attori a trovare energia. Quando scrivevo L'Été l'Éternité, stavo ascoltando a ripetizione In paradisum dal Requiem di Gabriel Fauré. Postcoïtum si è ispirato ad esso per uno dei pezzi e abbiamo così potuto convogliare questo sentimento del sacro, questa meditazione che si mescola al contemporaneo. Lì si tocca qualcosa di senza tempo.
A.M: a proposito di emotività. C’è una scena in cui Rita, Marlon e Cosmo, i tre attori teatrale incontrati da Lise, preparano la loro performance improvvisando ad esprimere col corpo quello che sentono dentro (“what’s inside me?”). Nel tuo film, in generale, quanto è stato importante poter lavorare sui corpi e con i corpi degli attori?
E.A: il corpo passa attraverso una relazione con luoghi, paesaggi, elementi naturali. Per quanto riguarda il trio che lavorava allo spettacolo, li ho osservati durante le prove e ho anche tenuto laboratori nelle scuole di recitazione che mi hanno ispirato. E poi ci divertiva mostrare corpi che cercano di esprimersi con i gesti: anche se si fallisce, si fa una ricerca. Essere nel tuo corpo, essere un corpo, non è niente: c'è l'interno e l'esterno...
A.M: si vede che nel tuo film ci sono contributi anche delle altre arti. Penso al teatro, ma anche alla pittura per l’attenzione ai paesaggi. In che modo la tua formazione ha contribuito allo spessore stilistico di L'Été l'Éternité?
E.A: l'ispirazione pittorica è essenziale per me. Ho studiato Belle Arti e guardo ancora molto la pittura. Voglio dipingere i sentimenti, far sentire ai paesaggi i sentimenti dei personaggi. C'è una dimensione romantica in questo desiderio e mi piace. I miei film sono sempre molto legati ai luoghi di qui: Marsiglia, il mare. È anche sulle sponde del Mediterraneo che sono cresciuta e la mia immaginazione è molto legata alle sue luci. Per quanto riguarda il teatro, mi interessa il modo in cui gli attori possano rischiare, rivelarsi, essere ridicoli, essere seri, provare tante cose, e ancora cercare. Volevo dimostrare che la ricerca dell'opera non è la forma finita. Tutto questo è stato scritto durante le prove con il trio prescelto. Mi affascina anche la dimensione catartica del palcoscenico, della performance dal vivo.
A.M: ti propongo una frase dettami dal regista Gianluca Matarrese, fresco vincitore del premio Queer Lion al Settimana Internazionale della Critica di Venezia 78, in una recente intervista: “Il documentario non esiste”. Lui ritiene che sia nella finzione che nel documentario si lavori con un dosaggio di vero e inventato, e che per questo la distinzione non abbia più il senso di prima. D'altro canto, oggi critici parlano sempre più spesso di cinema del reale, quasi a voler rinunciare alla vecchia categoria del documentario. Qual è il tuo punto di vista?
E.A: sono abbastanza d'accordo con lui sul fatto che documentario e fiction mischino verità e finzione, che il confine sia poroso. Ho sempre realizzato film di finzione reinvestendo la sceneggiatura e i personaggi negli attori scelti, ossia traendo ispirazione da personaggi reali per nutrire la finzione e farla evolvere, trovarne la giustezza. E la finzione permette anche alla persona che incarna i personaggi di superare sé stessa. Mi piace giocare con questo confine e con questa circolazione di materiali per arrivare a una forma di sincerità. Alla fine, è tutta una questione di orchestrazione, di messa in scena.
A.M: chiusura con una domanda di rito: quali sono i tuoi prossimi progetti?
E.A: Di recente ho realizzato un cortometraggio, Les Enfants Perdus, e attualmente lo sto montando. Sto anche scrivendo un secondo lungometraggio intitolato L’extase de Dorothée. È un film in cui si parla di ginnastica, di rave, di techno trance, femminilità e natura. Un film di emancipazione e fuga.
SCHEDA DEL FILM
REGIA: Émilie Aussel
PAESE: Francia
ANNO: 2021
DURATA: 75'
GENERE: drammatico
FOTOGRAFIA: Mathieu Bertholet
MONTAGGIO: Vincent Tricon
MUSICA: Damien Ravnich
CAST: Agathe Talrich, Marcia Feugeas, Matthieu Lucci, Idir Azougli, Nina Villanova, Antonin Totot, Rose Timbert, Louis Pluton, Emmanuel Rol, Safinah Mixty Mihidjay
COSTUMI: Anna Ostby
PRODUTTORE: Thomas Ordonneau
PRODUZIONE: Shellac
DISTRIBUZIONE: Shellac Distribution
(immagini: fotogrammi dal film L'Été l'Éternité, fonte: Shellac. Si ringrazia Egle Cepaite)
Antonio Maiorino