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Las mil y una, è duro l'amore nel barrio. Clarisa Navas: "gesti per amare, corpi per resistere"

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Las mil y una di Clarisa Navas: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

C’è un pezzo di Argentina che è stato al Festival di Berlino 2020, come film di apertura della sezione Panorama: il barrio di Las mil, a Corrientes, nord del Paese. E il panorama è questo: la strada, bordeggiata da qualche muro scrostato e occasionali negozi con le insegne scritte a mano; la densità soffocata dei tetti e delle scalinatelle; ogni tanto, qualche cavallo scappato a chissà chi; gli angoli dei viottoli per giocare a nascondino, nascondendo un amplesso al buio; ragazzi seduti fuori alle case, sui marciapiedi, qualche volta a bighellonare nei parchetti pubblici o privati – che conta, se lo Stato non c’è e pubblico e privato si mescolano sulla bocca dei vicini che sparlano. È un colpo di fulmine, con questo film: Coup de Coeur si chiama anche la sezione del Festival Cinèlatino 2020 di Tolosa in cui il film Las mil y una di Clarisa Navas ha recentemente vinto la Menzione Speciale. Di un flechazo, un innamoramento a prima vista, parla il film di Clarisa, anche se il rumorio del barrio a volte copre la voce.


LA TRAMA DI LAS MIS Y UNA (QUI IL TRAILER)

La diciassettenne Iris (Sofia Cabrera) cammina per le strade di Las mil con l’inseparabile pallone da basket. La faccia è acqua e sapone, ma qualcosa ha sporcato il suo percorso scolastico: è stata espulsa. Vive in una stanza affollata coi cugini, Darío e Ale, per lo più smanettando al cellulare. Tra un gavettone dei burloni di quartiere e qualche insidia machista, un giorno s’imbatte nella cricca di Renata (Ana Carolina Garcia), a occhio più grande, sicuramente più vissuta. Renata è un mistero che attrae. L’amore, il sesso – sono attrazioni fatali per questi adolescenti. Si dice che Renata abbia l’HIV, ma l’amore contagia di più.


PERCHÉ INNAMORARSI DI LAS MIL Y UNA

In 10 secondi sei nel quartiere: camera a spalla che segue di presso la ragazzetta mentre palleggia e la sensazione di essere catapultato tra i ragazzi di vita di Corrientes. Poi, un’infinità di scariche elettriche: perché il film è un'esperienza fisica sui brividi della pelle degli adolescenti, dove le strade e i gesti fanno tutt’uno e l’amore è un vicoletto buio che promette d’illuminarsi. La relazione tra Iris e Renata, tra sussurri e minacce, vive come oscuro oggetto del desiderio, sempre sul punto di consumarsi, sempre sul punto di venire interrotto dalla vita che dal barrio entra negli spazi privati. Non è la millesima storia d’amore, quanto un potente affresco – anch’esso, scrostato – di quanto sia complicato ed elettrizzante scoprire le sensazioni amorose e, se necessario, difenderle: è l'unica rivoluzione che questi dreamers possono fare.


L’INTERVISTA: CLARISA NAVAS SI RACCONTA

ANTONIO MAIORINO: quando Iris incontra Renata per la prima volta, in autobus, dopo averla seguita, c’è tra le due un dialogo molto significativo. Iris dice: “Sono come un angelo”. Renata risponde: “Ma gli angeli non esistono”. Iris insiste: “Sì che esistono”. Come spiegheresti tutta la differenza che intercorre tra Iris e Renata a partire da questo dialogo?

Ha a che fare con il modo in cui si decide di fare i conti con la propria identità. Il fatto di sentirsi un angelo per Iris rimanda a come si relazioni con la propria identità e con il proprio desiderio. Non solo l’angelo è asessuato, ma può anche andare in qualsiasi luogo. Renata è più vissuta, non crede a illusioni e favole. In questo dialogo inaugurale Iris e Renata emergono davvero nelle rispettive differenze.


In Las mil y una sembra che ogni spazio emani qualcosa di forte, abbia un senso. C’è una sorta di sentimento delle strade, come se vie e muri parlassero agli spettatori, anche più dei personaggi. E che dicono? Che raccontano queste strade?

Penso che le strade siano protagoniste almeno quanto i personaggi. Parlano della situazione in Argentina, con particolare riferimento alla mia città, Corrientes, che sta al Nord. È una città che è andata arricchendosi di periferie secondo l’iniziale progetto della classe media, ma nel corso degli anni, anche per l’inerzia dello Stato, è diventato un contesto problematico. È uno spazio fisico impossibile da restaurare: quelli ci abitano non possono fare ristrutturazioni e lo Stato continua a non mostrarsi, eppure la vita va avanti. Questi luoghi per me raccontano del progetto che lo Stato aveva, del sogno di ospitarvi le famiglie, poi naufragato. Devo anche dire che sono stata di recente a Napoli e in certi luoghi ho trovato qualcosa di molto argentino, mi sono detta: “questo è il mio quartiere!”.  


Quando il personaggio di Darío entra in scena, lo fa attraverso un disinibito ballo domestico. Poco dopo, lo stesso Darío è protagonista di una scena di sesso in un angolo buio di un vicolo, durante il gioco del nascondino. Mostrarsi, nascondersi: sono due poli del film. Iris, invece, si nasconde: nasconde le cose che scrive, nasconde la testa nel cuscino, nasconde i propri sentimenti. Due atteggiamenti adolescenziali diversi: ma sono dei modi per proteggere la propria identità?

Sì, credo di sì: sono modi per proteggersi. Questo aspetto del nascondere e mostrare riguarda una forma di dissidio per cui ci sono differenze nell'accettazione dell'omosessualità maschile e femminile, o almeno ci sono più vulnerabilità in un contesto con queste caratteristiche. Per molti uomini vedere due donne è percepito ancora come una provocazione. Se Iris si nasconde, ha a che fare col fatto che vive nel corpo di una donna, che molte volte attira lo sguardo e si predispone alla fuga di fronte al pericolo. Quando ho preso coscienza di ciò, mi sono anche accorta che questo appartenere alla minoranza, di cui tanto si parla, è qualcosa che sta nel corpo, una sensazione di minaccia il cui riflesso è occultarsi, correre, nascondersi quasi come esercizio di sopravvivenza. In questo senso credo che Iris si nasconda in quanto consapevole dei pericoli, sa che si espone ogni volta che questi incontri hanno luogo nei vicoli del barrio. A differenza di Darío che anche corre rischi, ma in cui c'è una pulsione che lo fa uscire ad esporsi nonostante tutto, anche perché al di là di essere gay è un uomo, per cui ci sono minacce che non sono altrettanto interiorizzate. Si tratta di qualcosa di molto sottile per me e che muta in base ad aspetti soggettivi: essere donna in questi contesti significa crescere sapendo che ti possono stuprare o uccidere, una minaccia condivisa con le trans, mentre nonostante accada anche con i ragazzi "diversi", non so se crescano con queste paure. Lo percepisco come qualcosa che m'infastidisce spesso, ma essere donne in certi contesti è come essere schiave, sempre minacciate e pronte a scappare.


C’è una scena in cui Iris e l’altro cugino Ale sono a un tavolo e Ale legge un tema sull’amore. A un certo punto dice: “Tutti dicono che l’amore è troppo grande per essere trasposto in parole”. Ti chiedo: ma alla fine, questi adolescenti sono più ansiosi di scoprire il sesso o l’amore?

C’è una sorta di congiunzione tra le due cose nella forma sovrimposta dal pensiero occidentale e romantico, per cui sesso e amore andrebbero a braccetto. Ma almeno nei ragazzi è diverso: c’è la curiosità di scoprire come sia il sesso senza amore. Ale, poi, ha una visione più romantica che risponde alla sua situazione e al proprio sentimento dell’adolescenza: l’amore arriverà, ma allo stesso tempo si ha la sensazione che Ale lo possa abbracciare con questo conflitto ancora irrisolto.  


Resto su quella frase di Ale. Troppo difficile raccontare l’amore a parole: e col cinema? È quello che hai fatto con Las mil y una?

Non è così difficile volgerlo in cinema, ma naturalmente si tratta di approssimazioni. In questo caso riguardava soprattutto la distanza della realtà rispetto alle immagini che ti eri costruito. Per certi versi l’amore si gioca nella vicinanza, cerca un equilibrio tra distanza e prossimità. Il film cerca di avvicinarsi, di costruire questa sottile trama amorosa a partire, comunque, dalla percezione che le due si amino.


Ai bordi della calle, seduti per terra, Iris e i cugini parlano, tra cose mezze dette e confessioni accennate. I cugini hanno capito che le piace Renata: Darío insinua che sia lesbica, Ale le dice “ti piace quella ragazza?”. La candida risposta di Iris: “questo non vuol dire essere lesbiche”. Cosa ci insegna una ragazza così inesperta come Iris sull’amore?

Penso che si stia giustamente procedendo verso l’idea di non teorizzare e non classificare. Il desiderio e le forme che l’amore acquisisce non dovrebbero essere classificate.  Iris sta scoprendo la sua attrazione e subito le affibbiano un’etichetta, e questo si trascina un sacco di cose che sono lontane dalla sua concezione e da quello che sente.



Col suo rifiuto di farsi etichettare come lesbica, cosa ci insegna Iris... sul cinema? Si parla di cinema LGBT, ma mi sembra che le etichette siano pericolose, perché ogni cosa, dopo essere stata “etichetta”, è pronta per essere messa negli scaffali del mercato...

Nel cinema LGBT si sono film improntati ad esaudire certi luoghi comuni, ma non è quello che cercavo io: non si può sminuire il mistero nelle cose. Classificazioni ed etichette riducono il mistero e creano un pericoloso dualismo: pensare a un cinema LGBT significa pensare a una dicotomia rispetto ad un presunto cinema “corretto e normale”. Come a dire: tutto ciò che si discosta da questa idea di normalità, è LGBT.  Questa è una stigmatizzazione bella e buona, e mi ci oppongo.


In tema di opposizioni: il corpo in questo film è più una forma di conoscenza o di resistenza? O entrambe, visto che conoscersi è resistere? I protagonisti esplorano sé stessi attraverso esperienze che passano per il corpo.

Credo che il corpo sia una forma di resistenza e lo penso ancor di più di fronte a quello che ci sta toccando vivere in questo isolamento forzato di fronte alla pandemia. C’è una virtualità egemonica di fronte alla quale anche solo arrischiarsi ad un incontro fisico è una resistenza. Nel quartiere, ancora di più, perché ci si confronta con tutti i pregiudizi di un corpo “segnalato”, stigmatizzato, perché può contagiare, perché ha l’HIV, o almeno così si dice. È una conoscenza che passa per un altro luogo.  


Si percepiscono litigi, conflitti familiari, baruffe, scontri verbali nelle case del barrio, ma restano fuori campo: ad esempio, la macchina da presa inquadra Iris che si cambia in una stanza, e da un altrove non identificato giunge il rumore di qualche aggressivo scambio verbale. Perché hai scelto “l’assenza”, il fuori campo?

La decisione di inquadrare e di far entrare qualcosa nel campo del visibile dell’udibile è una decisione etica. Rifacendomi all’adolescenza mia e dei miei amici, a cui questo film si ispira, ho cercato di costruire un universo conflittuale a livello sonoro. Non ho messo tutto nell’inquadratura, perché ci sono cose che non c’è bisogno di far vedere: il fuori campo è un modo di obliterare la necessità della rappresentazione.


A proposito dei rumori: altra polarità del film è nell’opposizione tra silenzio e rumore. Il rumore interferisce in tante scene in cui Iris e Renata si avvicinano fisicamente, interrompe baci e abbracci. Come hai utilizzato la strategia del silenzio insieme a quel rumore? Per esempio, c’è una scena in cui dopo un intuibile rapporto a casa di Renata, c’è la cena con i familiari di lei, che sono sordi: regnano gesti, silenzi, sguardi.

È prima di tutto una questione che ha a che vedere con l’impossibilità di stare in un luogo sicuro. La stigmatizzazione e il pregiudizio imperanti nel barrio fanno sì che in nessun momento si possa stare tranquilli, e infatti le due ragazze non possono mai stare del tutto a proprio agio, nemmeno nell’intimità della casa. Pubblico e privato si ibridano, l’universo sono si amplifica e c’è sempre qualche suono che minaccia. Tutto ciò si relaziona col silenzio dell’universo di Renata, la cui madre e il cui fratello sono sordi. C’è una sovrapproduzione di parole e pettegolezzi che si oppone a questo universo in cui a contare non è la parola, ma la nozione del fisico, del corpo, dell’oggettuale. Mi interessa tornare agli oggetti, con l’amore che mette in esilio la parola”. La parola molto spesso non conduce a niente, se non alla minaccia.


Il quartiere può minacciare anche virtualmente, tanto è vero che assistiamo a una scena di cyberbullismo, ripresa dai ragazzi delle strade. Esiste un “barrio virtuale”? Il web si può considerare come un’estensione del quartiere che influisce su quello fisico?

Dalla mia esperienza nel quartiere ti posso dire che ci sono molte presenze minacciose. La realtà virtuale ne è una sorta di duplicazione: qualunque cosa che rimandi al quartiere e che inondi lo schermo finisce per essere una doppia minaccia. Peggio: è anche più corrosivo rispetto al pettegolezzo per alla parola aggiunge le immagini. È qualcosa di complicato, sta succedendo da molto tempo e almeno a Corrientes si connette alla questione della stigmatizzazione sessuale, facendo sì che la circolazione di un video possa volgersi in autentica catastrofe.  


La scelta degli attori di questo film non poteva essere solo un casting tecnico. Gli attori dovevano avere qualcosa sulla pelle per fare i protagonisti del tuo film. Come li hai scelti, soprattutto quelli non professionisti?

C’è un miscuglio di attori professionisti e non professionisti. La protagonista che interpreta Renata ha studiato e si è laureata in recitazione. C’era anche nella mia precedente pellicola, ha una formazione e una cosa in più di particolare: ha vissuto tutta la vita nel quartiere accanto al mio, quindi conosceva tutto molto bene e mi sembrava che fosse l’unica persona che potesse aiutare gli altri. Per quanto riguarda Iris, vive proprio a Las mil, la conoscevo e pensavo che avesse moltissime caratteristiche adatte all’interpretazione del personaggio. Mi è sembrato che avesse grande intelligenza motoria, sia nello sport (fa basket a livello professionistico), sia nelle relazioni dirette. Si tratta di un’intelligenza che va molto al di là della parola o della rappresentazione e ha a che vedere con la presenza, con la reazione del corpo. Ho avuto come un’illuminazione quando l’ho vista, ma ho dovuto convincerla perché era molto timida, non aveva mai recitato e la cosa la spaventava. Per quanto riguarda i ragazzi, Ale era un mio alunno nella scuola di cinema e mi sembrava che avesse qualcosa di molto particolare e speciale che mi faceva pensare a degli amici dell’adolescenza, un universo molto particolare in relazione con tutto. Anche Darío è attore, è di Corrientes, ha avuto un’adolescenza molto simile a quella su cui ho lavorato. Su queste basi, ho cercato di organizzare una trama, di farli diventare amici e di unirli: così è nato il film.



Oltre all’intelligenza del corpo degli attori, serve l’abilità visiva della regista. Il tuo è un film di finzione, ma è chiara l’impronta documentaria. Hai catturato la realtà del quartiere anche con camera a spalla e piano sequenza. Che succederebbe, allora, se domani entrassi con la macchina da presa nel barrio per girare un documentario?

Ci sono cose che succedevano in quei luoghi che avevano a che fare con la situazione attuale e che non ho potuto mettere nel film, perché c’è sempre la necessità di dover corrispondere a certe norme. Non avevo tutta questa libertà. Ho dovuto tener fuori delle situazioni da documentario che pure m’interessavano. Se prendessi la camera a spalla ed entrassi nel quartiere, ci sarebbero molte altre cose potrebbero accadere. Ma in qualche modo, a ben vedere, alcune di queste sono entrate nel film: semplicemente succedevano, stavano lì. Nella scena in cui Renata si rivolge a Iris chiedendole perché pensi che lei abbia l’HIV, durante le riprese nello stesso isolato hanno pugnalato un signore e l’hanno ucciso: nel suono del film è rimasto qualcosa, come un grido da molto lontano, pressoché impercettibile. Quasi non si sente, ma ogni volta che rivedo la scena ci penso e sento che interagisce in qualche modo con questo conflitto che il quartiere vive. Perciò, per risponderti, non so cosa succederebbe se le riprese avessero un’impronta meramente documentaria, ma avverto che il film raccoglie e trattiene molto: le inquadrature sono pensate per rimanere aperte rispetto a tutto ciò che succede attorno.


Restano aperti anche i dubbi dei personaggi? C’è una scena in cui, per scherzare, ma non troppo, Darío fa una ricerca su Google: “come scopare con una ragazza che ha l’HIV”. Ma Google non risponde a tutte le domande. Pensi che alla fine del film i protagonisti abbiano molte più risposte rispetto all’inizio del racconto?

Sì. Il movimento del film e la sua dinamica evolutiva fanno in modo che ci sia un passaggio personaggi verso qualcosa di diverso (letteralmente, Clarisa dice: “un tránsito”, n.d.R.), ma non nella maniera classica: il finale resta aperto, non si danno risposte precise. C’è però un apprendimento interiore, nell’ordine del corpo e dell’esperienza, che passa per un luogo indefinibile, una sorta di non-luogo.  Con gli anni mi sono accorta del fatto che l’amore viene da luoghi e persone che non sono in grado di descrivere e definire l’amore in termini politicamente corretti nella forma che uno si aspetterebbe, ma riescono comunque a farlo con una verità molto forte. Dopo tanti anni e tanta teoria sull’amore, ci sono cose che mantengono ancora contorni indefiniti e la cui precisione risiede solo nei gesti. Penso che il film parli di questo e che attraverso tutto questo passino i miei personaggi.


Fare cinema ai tempi del Coronavirus. Fare cinema in Argentina. Quali sono i tuoi progetti in questo contesto complesso?

Eh, domanda tosta. C’è un film che sto girando da molti anni alla frontiera col Paraguay con un bambino, seguendone la crescita sin dal momento del nostro incontro. È una sorta di diario, una cosa molto particolare. Poi sto scrivendo un altro film di finzione ma con molte cose da documentario come in Las mil y una, ma non ho idea di come si evolva il panorama dell’industria cinematografica. Tutto sembra interrotto, c’è una forte incertezza su dove si vada. Anche Las mil y una doveva partecipare a molti festival, ma tutto è sospeso, non so il prossimo luogo dove potrà arrivare. Forse sarà al Festival di San Sebastián, ma nemmeno so se si terrà. Poi c’è il festival di Jeonju in Corea, ma sarà un miscuglio di festival online e dal vivo.


Il cinema online è una soluzione di emergenza: fa venire ancor più voglia di tornare al cinema, inteso come luogo fisico e di aggregazione.

Purché non sia Netflix il destino: produrre secondo una logica egemonica. Mi spaventa, sto discutendo proprio di questo con molte amiche e amici del settore: la concentrazione in un unico modello di produzione. Con le sale chiuse, i cinema rischiano evidentemente di sparire. In Argentina si parla di riaprire i cinema a marzo in argentina. Nel frattempo c’è il web, ma la gente non vede molto questi film online. Non so verso dove stiamo andando.


Anche in questo caso, è una questione di resistenza.

È una questione di resistenza. Fare cinema è un privilegio, perché ci sono cose molto più necessarie. In Argentina c’è un cinema mainstream con ricchi budget; uno più radicale e sperimentale; un altro che sta a metà strada, che va molto in giro per i festival di tutto il mondo, ma conosce scarsa circolazione interna. Io penso che sia quest’ultimo a essere in particolar modo sotto minaccia, non gli altri tipi di cinema: c’è chi continua a filmare in maniera radicale, c’è chi continua ad avere un grosso budget. Bisognerà vedere.


SCHEDA FILM

TITOLO ORIGINALE: Las mil y una
PAESE: Argentina, Germania
ANNO: 2020
GENERE: drammatico
REGIA: Clarisa Navas
DURATA:105'
CAST: Sofia Cabrera, Ana Carolina Garcia, Mauricio Vila, Luis Molina
PRODUTTORI: Lucía Chávarri, Diego Dubcovsky
PRODUZIONE: Autentika Films, Varsovia Films (AR)


(Immagini: nell'immagine principale Renata e Iris in un fotogramma del film Las mil y una; all'interno, prima immagine: Iris in un fotogramma del film; seconda immagine: Clarisa Navas al centro dietro la macchina da presa sul set del film)