Cronaca

La sua guerra non è mai finita. Intervista a Giovanni Tizian

MODENA, 1 LUGLIO 2013 - Giovanni Tizian è un giovane cronista calabrese emigrato all’età di 12 anni con tutta la sua famiglia in Emilia Romagna. La decisione di lasciare il suolo calabrese è stata dettata dalle intimidazioni rivolte all’azienda di famiglia e da quando nell’estate del 1989 a Bovalino, nella Locride, suo padre, bancario, viene ammazzato mentre torna a casa; un ulteriore omicidio irrisolto. Ha iniziato a scrivere alla Gazzetta di Modena. Ha collaborato per il portale d’inchiesta rivistaonline.it e Liberainformazione. Ha scritto per il mensile Narcomafie, per i quotidiani online Lettera43.it e Linkiesta.it. oltre che per importanti giornali nazionali come la Repubblica. Attualmente scrive per l’Espresso. [MORE]

Chi è Giovanni Tizian oggi? Ci racconti la tua storia?

É un trentenne, cronista de l'Espresso, che cerca di seguire i suoi sogni e coltivare le passioni. Alle spalle una storia dolorosa, segnata dal sangue dell'omicidio di suo padre, dall'emigrazione forzata dalla sua terra, la Calabria, e da tanta rabbia. Ma oggi questa rabbia l'ha trasformata in impegno civile. Collabora con Libera, daSud, Stop'ndrangheta.it. E poi c'è il suo lavoro, il giornalismo, dove cerca di raccontare gli aspetti più oscuri di questo Paese.

La criminalità organizzata al Nord è stata compresa appieno secondo te?

No, c'è tanto lavoro da fare. Imprenditori, commercianti e politici non hanno ancora capito quanto è radicato il fenomeno.

Dopo “Gotica”, è la volta di “La nostra guerra non è mai finita”, perché un titolo così forte per il tuo secondo libro?

Perché è il racconto delle mie radici, di quel dolore, è la storia della mia famiglia. Attraverso il racconto personale, cerco di raccontare la dimensione collettiva della resistenza antimafia.

In quest’ultimo libro, tracci il profilo di due donne molto speciali, tua nonna Amelia e tua madre Mara, cosa hanno rappresentato per te?

Delle guide, dei fari, delle solide ancore in un mare in tempesta avvelenato da tanto dolore.

Ha fatto molta impressione la telefonata in cui un faccendiere e un boss ti minacciavano di morte, cosa hai provato quando hai sentito quest’intercettazione?

Disgusto per i mafiosi e per chi li aiuta nei loro affari. Anche paura per telefonate. Quella resa pubblica invece mi ha fatto capire quanto in basso può arrivare l'uomo.

Dal 2011 vivi sotto scorta. Hai mai pensato che rinunciare alla libertà fosse un prezzo troppo alto da pagare a trent'anni per continuare a scrivere di criminalità organizzata?

É un prezzo alto, che non pago solo io. E non pagano solo i colleghi che vivono sotto scorta. Ogni giornalista minacciato è una colpo mortale alla democrazia.

Cosa ha voluto e vuol dire vivere sotto scorta?

Vuol dire rinunciare a un pezzo di libertà. Vuol dire guardare negli occhi chi ti ama e vedere la sofferenza provocata dall'incertezza per il domani.

Le giovani e nuove generazioni saranno in grado di negare il consenso alle mafie in questo Paese?

Credo proprio di sì. Il problema non sono loro, ripeto, le resistenze culturali fanno parte delle generazioni più vecchie, quelle che amministrano i territori, o fanno impresa da decenni. Loro non vogliono vedere, né sentire le richieste di cambiamento che arrivano dai giovani.

 

Giulia Farneti e Alessandro Bertolucci