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LA RESISTENZA DELLO SGUARDO - Infooggi intervista Daniele Vicari, regista di "Diaz" - PARTE 3

NAPOLI, 25 APRILE 2012 - Ecco la terza parte dell'intevista realizzata da Infooggi su Radio Kolbe a Daniele Vicari, regista di Diaz - Don't clean up this blood. In questa terza parte, interrogato da Antonio Maiorino e Concetta Ruotolo, Vicari parla dell'estetica cinematografica, del film come metafora e del web come mezzo di diffusione delle idee.

A.M: Diaz come shock culturale, dunque. Vorrei anche approfondire un problema strettamente cinematografico. Una riflessione che mi è venuta in mente è quella sulla polemica del 1961 sui Cahiers du Cinema di Jacques Rivette sul film di Gillo Pontecorvo, Kapò, allorché si parlo di una carrellata amorale perché produceva un’estetizzazione dell’orrore. Ti voglio chiedere: nel dover parlare di fatti così crudi, quanto è stato difficile muoversi su questo crinale che rischiava di farti sprofondare verso la stucchevolezza. Qualcuno critica l’insistenza sul ralenti della bottiglietta. Quanto è stato difficile muoversi sul fatto cinematografico come fatto artistico e come verità allo stesso tempo?

DANIELE VICARI: Al festival di Bari, Ettore Scola durante un incontro sul film in pubblico, ha detto delle parole a mio avviso adatte a rispondere a questo domanda molto puntuale. Ettore ha detto, stupendomi e facendomi commuovere, che nel film che lui considera in continuità col grande cinema italiano di cui lui è rappresentante, si mescolano convincentemente realtà e metafora. Questo pone il film al di sopra degli eventi narrati e propone attraverso il linguaggio del cinema una riflessione sugli eventi. Io credo che i linguaggio del cinema sia adeguato a rappresentare ogni cosa, anche la più terrificante. Il film, per esempio un thriller psicologico che ci permette di guardare il lato oscuro degli individui, ci rende consapevoli di certe distorsioni dell’individuo moderno, anche noi stessi. Diaz è un thriller sociale che fa guardare il lato oscuro della democrazia, non si limita a rappresentare in maniera pedissequa le azioni violente, ma le mette sotto la lente d’ingrandimento in modo che ciascuno di noi prenda coscienza della gravità di queste azioni. Non sono solo azioni fisiche, ma anche morali: sono azioni di disprezzo e di devastazione dello spirito oltre che del corpo delle persone. Questo vuol dire che in certi luoghi chiusi, non solo in Italia ma anche nel mondo, è possibile che un potere precostituito, in qualche modo, anche nascosto dietro le divise di poliziotti o militari possa sospendere a suo piacimento il diritto e spingere il disprezzo per l’altro fino a ridurlo all’impotenza. Questo tipo di racconto molto metaforico ti spinge a dire dall’inizio che non è un film contro la polizia italiana. La polizia italiana rappresenta un potere piuttosto oscuro nel mio film, tra l’altro condito da una certa dose di cialtronismo, d’incapacità di gestione di un evento complesso come quello, che fa chiedere a tutti noi se siamo ben gestiti, se i nostri dirigenti sono in grado di ricoprire il ruolo che ricoprono. Sono domande molto radicali, ma secondo me, visto che siamo sull’orlo del baratro, dobbiamo farcele. Il cinema ci permette, con un doppio livello di linguaggio – ti racconto questa cosa e ti faccio riflettere attraverso il meccanismo linguistico –, di prendere distanze da questi eventi. Per esempio la bottiglietta al ralenti nel mio film per me ha rappresentato sempre nella mia testa la nostra democrazia, molto fragile, fragile come una bottiglietta, forse anche come una farfalla. Si può schiacciare facilmente, rompere facilmente, e può diventare la scusa anche per atti orrendi come quelli accaduti dentro la scuola Diaz e a Bolzaneto. Questa bottiglietta insignificante è stata presa come pretesto per fare azioni alla Diaz. Leggendo gli atti del processo a me è venuta in mente l’immagine della bottiglietta, perché nei verbali i poliziotti che guidavano il pattuglione passato sotto la scuola Diaz poco prima del raid, raccontano di un’aggressione violentissima alla pattuglia con lancio copioso di oggetti e bottiglie. Sotto interrogatorio in tribunale, piano piano questo copioso lancio di oggetti è sparito, poi sono sparite le bottiglie, è rimasta una sola bottiglietta che volteggiando in aria non ha nemmeno colpito l’automobile ammiraglia del pattuglione ed è finita sul marciapiede, come si vede nel film. Per forza questa è una metafora concreta, è qualcosa che è nella realtà ma che diventa metaforico.[MORE]

C. R: Risvegliare le coscienze: ce n’è bisogno. Il sito web del film ha un’area dedicata alla raccolta di nuove testimonianze su quanto accaduto in quei giorni, com’è stata accolta questa proposta e come verrà archiviato ed utilizzato il materiale raccolto? C’è la possibilità che nasca un nuovo lavoro, magari distribuito unicamente attraverso il web?

DANIELE VICARI: Innanzitutto la diffusione virale delle informazioni nell’epoca in cui viviamo è qualcosa di molto importante e significativo. Il fatto di permettere a tutte le persone che erano lì e che vogliono raccontarsi di depositare la propria memoria su un sito, permette a milioni di persone di tutto il mondo di raggiungere questi racconti. Questo è un valore in sé: non ha senso metterle su un dvd, perché internet, un blog o un sito sono il luogo ideale perché siano raggiungibili da tutto il mondo, queste cose. Il sito del film di Diaz è visitato da circa 20mila persone al giorno, il 30 per cento di queste persone sono dall’estero: ad un certo punto abbiamo deciso di fare anche il titolo in inglese per permettere alle persone di accedere alle suggestioni. Il film è stato venduto in tutto il mondo a Berlino, quindi questo sito ci aiuterà a comunicare con i cittadini di tutto il mondo che vogliono sapere qualcosa in più di quello che è accaduto al Genova.

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L'AUDIO DELL'INTERVISTA A RADIO KOLBE: PARTE PRIMA - PARTE SECONDA

(in foto: Daniele Vicari, regista di Diaz)

A.M.