Cronaca
La 'Ndrangheta non è un fenomeno folk. Intervista al giornalista Lucio Musolino
REGGIO CALABRIA, 15 LUGLIO 2012 - Lucio Musolino, dopo l’intimidazione subita (una tanica di benzina recapitata a casa con ” l’invito” di smettere di scrivere di ‘ndrangheta) e un ingiusto licenziamento da parte di Calabria Ora, è un giovane giornalista calabrese del Corriere della Calabria, un settimanale regionale d’inchiesta; collabora con Il Fatto Quotidiano e con il tg de La7 di Mentana. Da anni si occupa di cronaca nera e giudiziaria, facendo inchieste sulla ‘ndrangheta e sui rapporti che intercorrono tra le cosche e la politica.
Nel programma "Vieni via con me" di Fazio e Saviano, molti interventi si basavano sulla dicotomia "resto perché - vado via perché" riguardante il fatto di rimanere in Italia o meno. Tu per quali motivi te ne andresti e per quali resteresti?
Guarda ci sono molti motivi per i quali una persona può decidere di andarsene o di restare in un posto. L'importante è che quando una persona decide di intraprendere una strada lo fa liberamente e non perché è costretta da qualcuno o da qualcosa. Voglio dire che ci sono migliaia di giovani che lasciano la Calabria perché qui non c'è lavoro o perché non hanno santi in paradiso che possano trovare loro una sistemazione. Non è una bella cosa quando un Paese non riesce a garantire i diritti più elementari. Per quanto riguarda me, il discorso è diverso: ritengo che la Calabria debba essere ancora molto raccontata e questo è un valido motivo per non andarmene. Ho avuto la la possibilità di far parte di un gruppo di giornalisti che mi ha consentito di lavorare serenamente fino al 2010. Poi non è stato più possibile ma, fortunatamente, ci siamo ritrovati in un'entusiasmante avventura con il “Corriere della Calabria”, un settimanale regionale che fa inchiesta in una terra che non la gradisce. E non mi riferisco solo alla 'ndrangheta ma anche alla politica e certi “poteri forti” per i quali alcune notizie non devono essere pubblicate in Calabria e non devono uscire fuori dai confini regionali.[MORE]
A cosa ti riferisci quando fai riferimento ai problemi che hai avuto nel 2010?
A volte non è opportuno ricordare sempre le stesse cose. Si cadrebbe nel vittimismo e non è mia intenzione. Mi piace pensare positivamente. Ecco perché ti dico che, rispetto ad altri giornalisti, sono stato fortunato perché ho avuto e ho un direttore come Paolo Pollichieni, dei colleghi come Enrico Fierro, con cui collaboro per il “Fatto quotidiano”, e la redazione del Tg di La7. Mi sono stati sempre al fianco, anche quando lo sport preferito da certa politica era quello di intimidire a colpi di fango misti a querele. Non posso mai dimenticare i giorni in cui, dopo un'intimidazione subita, l'isolamento all'esterno di Calabria Ora ha contagiato anche la redazione per la quale lavoravo fino al momento in cui sono stato licenziato per ingiusta causa come hanno stabilito i giudici del Tribunale del Lavoro di Reggio Calabria. Ma ormai è acqua passata e cerco di guardare al futuro che è sicuramente più interessante.
Nel recente programma "Quello che (non) ho", gli interventi si basavano sul contrasto "quello che ho - quello che non ho". Ttu cosa non hai e hai?
Sicuramente, come ti ho detto, non ho voglia di andare via da Reggio fino a quando non sarò io a deciderlo. Quello che ho è la voglia di scrivere e di raccontare il mio territorio. Quello che sta avvenendo a Reggio negli ultimi mesi, con un Comune che rischia lo scioglimento per mafia oltre al dissesto finanziario, numerose inchieste di 'ndrangheta in cui sono emersi i rapporti tra la politica e le cosche, dimostra che avevamo ragione nel pubblicare atti giudiziari che oggi sono stati inseriti nei processi. Con l'unica differenza che le querele vengono fatte solo ai giornalisti che pubblicano il contenuto di quegli atti, e non ai carabinieri o ai poliziotti che li scrivono. Un motivo ci sarà...
Come si può tutelare la figura del giornalista di cronaca in questo scenario mediatico così incerto?
Non isolandolo quando scrive di quel coacervo di interessi che toccano la 'ndrangheta, la politica, la massoneria e i servizi deviati. Un groviglio in cui sono coinvolti interi pezzi dello Stato per i quali i giornalisti dovrebbero scrivere solo di quella 'ndrangheta con la coppola e la lupara. Guai a volgere lo sguardo oltre le mura di Platì o di San Luca, si rischierebbe di capire che la 'ndrangheta non è un fenomeno folk e, magari, capire che i motivi per i quali la 'ndrangheta è l'organizzazione criminale più ricca al mondo.
Cosa significa oggi fare il cronista in Calabria?
Dipende da come si sceglie di lavorare. Penso che la mia regione e il nostro Paese non hanno bisogno di eroi, ma di gente che fa il proprio lavoro correttamente, senza scendere a patti con nessuno. È facile, e anche comodo, non vedere le storture della politica e di alcune istituzioni. Puntare i riflettori sui problemi, invece, è più difficile. Ma è solo il nostro lavoro, né più né meno. C'è chi rinuncia e chi non lo vuole fare.
Perché la Calabria è ai primi posti per le minacce nei confronti dei giornalisti rispetto alle altre regioni minate dalla mafia? Non fanno altro che il loro lavoro ma vengono chiamati “infami”.
Ricordo una prima pagina del Fatto quotidiano, pubblicata qualche mese dopo la mia intimidazione. C'erano i volti di alcuni giornalisti minacciati in Calabria. Io ero forse il ventitreesimo del 2010. Se si tiene in considerazione che eravamo al primo agosto, ci si rende conto che è un numero enorme. Pochi mesi prima, inoltre, i colleghi Roberto Rossi e Roberta Mani hanno pubblicato il libro “Avamposto” e hanno messo in fila le storie di ognuno, diverse l'una dall'altra ma con un comune denominatore: l'aver scritto qualcosa che ha dato fastidio. Non spetta a me giudicare le intimidazioni. Penso, però, che non tutte le minacce vengono dalla 'ndrangheta. Non credo che i clan, con le varie attività illecite da mandare avanti, dedicano il loro tempo a fare telefonate, a scrivere sms o letterine intimidatorie. Gli uomini delle cosche sono abituati a vedere i loro volti sul giornale. Politici e imprenditori collusi, invece, no. Quello che fa più paura è la capacità della zona grigia di ottenere l'allontanamento di magistrati, poliziotti, carabinieri e anche giornalisti che ficcano il naso dove, per loro, non dovrebbero.
Come si può combattere il silenzio e l'omertà?
Il silenzio e l'omertà si combatte con uno Stato credibile. Con uno Stato che reagisce alle ingiustizie se qualcuno gliele racconta. E dopo che ha reagito, dovrebbe tutelare i cittadini onesti. Ti faccio un esempio banale: se un imprenditore o un commerciante paga il pizzo alle cosche, viene considerato quasi come un mafioso. Se, invece, si rivolge alle forze dell'ordine, denuncia gli uomini del clan che vengono anche condannati, siamo sicuri che quell'imprenditore o quel commerciante possa tornare tranquillamente a lavorare nella sua azienda senza subire le ritorsioni della famiglia mafiosa? Fino a quando questo non avviene, ci sarà sempre il pizzo.
Cosa significa oggi informare? Come si pone oggi l'informazione nei confronti di questo tema?
Informare significa raccontare i fatti così come sono. A volte non è necessario che il giornalista ci metta del suo perché i fatti sono talmente forti che è sufficiente renderli noti per sensibilizzare l'opinione pubblica e stimolare i lettori a una riflessione. Se i fatti non vengono pubblicati, allora, la propaganda avrà il sopravvento.
Chi ha interesse affinché questo avvenga?
Chi ha paura dei fatti o chi, sulla propaganda e sulle false notizie, fonda la sua carriera politica. Ma non solo.
Cosa vuol dire oggi resistere e combattere la mafia?
Vuol dire lavorare onestamente, con correttezza e senza scendere a patti con i poteri forti di un territorio. In Calabria ce ne sono alcuni, nel Lazio altri, in Emilia e in Lombardia altri ancora. Penso che se ognuno facesse il proprio dovere, staremmo tutti meglio.
Riusciremo mai a sconfiggere la mafia? Hai ancora fiducia in questo Paese?
Si, ma solo quando si capirà che la mafia non si combatte solo con le operazioni dei carabinieri, della polizia o della guardia di finanza. 'Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra sono organizzazioni criminali ma anche fenomeni culturali che non riguardano solo la Calabria, la Sicilia e la Campania, ma l'intero Paese come dimostrano le recenti indagini delle Procure di Milano, di Torino e di Genova. Se si affrontano le cosche solo sul piano militare potremmo vincere la battaglia ma non la guerra.
(foto da MNews.IT)
Giulia Farneti