Interviste
La mia vita dopo il rapimento siriano: intervista alla giornalista Susan Dabbois
NAPOLI, 28 APRILE 2014- Ha raccontato la guerra in una terra quasi dimenticata, subendo sulla propria pelle le conseguenze di un conflitto aspro e crudele. Stiamo parlando della giornalista italiana Susan Dabbois, rapita nell'aprile del 2013 insieme ad altri cronisti in Siria, mentre lavoravano ad un documentario per la Rai. Undici di giorni di agonia e di sofferenze ed un esperienza che l'ha portata a scrivere il libro “Come vuoi morire?” (Edito da Castelvecchi), in cui ripercorre gli attimi cruciali del rapimento e la successiva liberazione. Nel libro sono presenti molti retroscena della guerra siriana, la quale è ormai sparita dai titoli dei più importanti giornali internazionali ma che continua a macinare vittime giorno dopo giorno. Susan ci ha concesso un'intervista proprio nei giorni della presentazione del suo libro, raccontandoci alcuni dettagli importanti anche del mestiere del giornalista.
1) Susan, tu sei italo-siriana e sei una giornalista. Quanto conta secondo te l'essere capace di aprirsi ad altre culture nel mondo del giornalismo?
Io credo che il giornalista debba essere di base una persona curiosa, se possibile anche estroversa. Spesso, il processo di conoscenza di altre culture è molto faticoso, poco naturale, è un po’ come prendere i trasporti pubblici quando si ha la possibilità di viaggiare nella propria auto. Eppure è nei trasporti collettivi che si capisce cosa succede in città, cosa pensa la gente, come vive un determinato momento storico. Se vogliamo raccontare le cose che ci circondano dobbiamo viverci dentro, questo vale sia in Italia che all’estero.
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2) Nel 2012 hai partecipato come autrice alla sceneggiatura del film “Border”, sul conflitto siriano. Avete avuto problemi a girare a Damasco e cosa significa per te questo lavoro?
Non era possibile portare la troupe in Siria, abbiamo scelto un luogo nella campagna laziale molto simile dove è stato ambientato il film, la provincia collinare intorno alla città costiera di Latakia. Lavorare alla sceneggiatura di Border è stato un onore e un piacere perché mi ha allargato gli orizzonti della comunicazione, per una come me che lavora con la parola scritta, trasferirsi nel campo delle immagini significa davvero sperimentare un mondo nuovo.
3) Com'è la situazione ora in Siria? Perché secondo te, i media italiani hanno smesso di informare e raccontare il caso siriano?
La Guerra è entrata al suo quarto anno, con tutto ciò che ne consegue in termini di deterioramento dell’economia, dell’assistenza medica e della capacità di prospettare un futuro per milioni di persone che fino a pochi anni fa avevano una casa e un lavoro e ora sono costrette a vivere di espedienti. Chi può fugge, ma ci vogliono almeno 10.000 euro da dare ai trafficanti per arrivare in Europa. Quanto all’interesse per gli esteri, non credo che agli italiani manchi, c’è piuttosto un perenne stato emergenziale della politica nazionale che distoglie da altri tipi di riflessione. È un po’ come quando hai un incendio in casa e non riesci a pensare a che tipo di università ti piacerebbe mandare tuo figlio. Il problema però è solo percettivo, non sostanziale.
4) Dall'aprile del 2013 non sei più tornata in Siria? Un giorno vorresti tornarci? Vorrei tornare in Siria quando la situazione sarà migliorata. Tutte le guerre finiscono! Ma non esiste una conclusione se non negoziale. Come scrivo nel mio libro: «Un giorno tutti questi nemici si siederanno a un tavolo pulito e lussuoso lontano dalle macerie per spartirsi il Paese come una torta. Dopo l’accordo chiameranno i loro alleati per ricostruirlo, gli stessi che ora gli vendono armi, domani gli forniranno imprese edili». Queste dinamiche si ripete tristemente, ovunque.
5) “Come vuoi morire?” È il titolo del tuo libro presentato in questi giorni a Roma. Dopo il sequestro hai sentito la necessità di elaborare il tutto, raccontando anche della tua carceriera Miriam, la moglie di uno dei jihadisti. Come ti sei rapportata con lei? Nella cultura del martirio la morte è una cosa bella. La domanda “qual è la tua morte preferita?” mi è stata rivolta con la stessa naturalezza di come noi chiederemmo a qualcuno “qual è il tuo piatto preferito?”. È proprio di fronte a questa domanda che ho sentito una distanza incolmabile tra me e la persona che me la rivolgeva, nonostante una grandissima affinità emotiva e un forte rapporto umano. Io e Miriam abbiamo avuto un rapporto complesso, a tratti di protezione reciproca perché vivevamo entrambe sotto una minaccia esterna: i bombardamenti del regime. Sinceramente non credo che Miriam arriverà mai a comprendere quanto male io sia stata in quei giorni. A modo suo cercava di trattarmi bene e questo, a suo avviso, era sufficiente per farmi stare bene. Non capirà mai fino a che punto può essere orribile la privazione della libertà per una persona libera, perché lei non lo è. L’unica libertà che si è concessa è stata quella di scegliere la propria sottomissione. E questa è una cosa che ho notato e scritto con molta onestà. Miriam aveva scelto la sua subordinazione e per questo, nonostante il contesto aberrante, era una donna felice.
6) Mentre i tuoi colleghi uomini erano prigionieri a Ghassanieh, tu sei stata portata in un'altra parte della casa ed hai passato molto tempo in solitudine, qual'è stato il momento più brutto?
La solitudine non mi è mai pesata, sentivo i rumori provenienti dalle altre stanze e passavo tutto il tempo a pensare. Il momento più brutto paradossalmente è stato il rilascio che distinguo dalla liberazione. Quando siamo stati condotti in auto, incappucciati, per essere portati dal nostro negoziatore, ho pensato che ci uccidessero o che ci vendessero ad un altro gruppo. Il pensiero negativo più ricorrente era che ci spostassero in Iraq riducendo quindi le possibilità di essere ritrovati. Il momento più bello, ovviamente, è stato quando ho capito che ci liberavano sul serio. L'essere mussulmana sunnita ti ha aiutato o ti ha ostacolato durante il periodo del sequestro? No, è stato un boomerang. Un vantaggio iniziale che mi si è rivolto contro, perché sono laica, non praticante, e con una madre cattolica, cosa che loro sapevano. Per loro ero un concentrato di immondizia: ero una persona che aveva rinnegato le proprie origini “giuste” per scegliere un cammino “sbagliato”. Avevano due opzioni per me : cancellarmi o riformattarmi. È un po’ come quando hai un computer con troppi virus.
7) Dove vivi ora?
Dopo un anno e mezzo molto intenso in Libano, da quasi un anno mi sono trasferita a Gerusalemme da dove ho iniziato invece a seguire il conflitto israelo-palestinese, non tanto in chiave politica quanto in quella socio-economica. Mi sono focalizzata sul valore degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi e il loro impatto economico nel tessuto sociale. Sia positivo che negativo. Ma devo dire che è interessante scrivere anche di politica, perché la ripresa dei negoziati di pace, oggi, nonostante vengano affrontati sempre gli stessi punti da 60 anni, avvengono in un quadro regionale completamente diverso, con i vecchi amici e nemici profondamente cambiati negli ultimi tre anni, quali: Siria, Egitto e Iran.
Nicoletta de Vita