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La dernière séance, quel tenero sadomaso da Venezia 78 al Sicilia Queer. Gianluca Matarrese racconta

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, La dernière séance di Gianluca Matarrese: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

Nel nome del queer. La dernière séance di Gianluca Matarrese è stato appena insignito del Premio del Pubblico al Sicilia Queer Film Festival, dopo aver vinto il Queer Lion alla 78esima edizione del Festival di Venezia. E qual è lo strano vizio del signor Bernard, protagonista del documentario? Mite sessantatreenne appena pensionato, si appresta a traslocare in un’altra zona di Parigi con scatoloni pieni di ricordi, amorevolmente imballati, e due inseparabili gatte. S’intravede una frusta appesa al chiodo: l’uomo è stato per anni un esperto master sessuale, avvezzo a pratiche sadomasochistiche. Non un master qualsiasi: proprio quello del regista, Gianluca Matarrese, suo slave. Dalla macchina da presa dell’autore torinese, già premiato al Festival di Torino con Fuori tutto nella sezione Italiana Doc, vien fuori un documentario franco, che nelle prime battute sembrerebbe lasciarsi sedurre dal racconto senza inibizione degli amplessi, per poi virare verso una narrazione più universale sul tema della perdita, della cura, della vecchiaia, della memoria. Dapprima, dunque, un erotismo ovattato, di penombra, con frustini e catene a mettere l’accento crudo sull’immagine. Poi, però, Bernard apre al ricordo degli anni ’80 e ’90: le notti nei club, gli antichi amanti, un amore perduto a causa dell’AIDS. Trauma e tenerezza, una visita a un cimitero. E tanta voglia di vivere, d’inventarsi la vita alle soglie della terza età. 

 

LA TRAMA DE LA DERNIÈRE SEANCE

Una confessione intima e audace, la conversazione a due tra il regista e il suo amante, un gioco di dominio e sottomissione che passa attraverso l’universo del bondage, i traumi dell’AIDS e anche la teoria delle immagini. L’essere umano è osservato al di là del principio di piacere, aprendosi a interrogativi universali scanditi da pulsioni di vita e di morte. Un percorso di sofferta complicità in cui si riscrive l’eterna dualità tra Eros e Thanatos (Sinossi breve ufficiale a cura della produzione)


PERCHÉ INNAMORARSI DE LA DERNIÈRE SEANCE

Sorretto da una scrittura forte, audace per il formato del documentario, ma anche da una sincerità persino più profonda, La dernière séance di Gianluca Matarrese si mostra in grado di attraversare toni, ricordi, aspettative nel dialogo intimo tra il protagonista Bernard e il regista, rispettivamente master e schiavo sessuali. Col film che diventa relazione, gioco di sguardi, rievocazione – anche carne tremula in presa diretta, quando serve. E riflessione. Filmarsi l’un l’altro, per conoscersi meglio. E pensando ad alta voce, o vedendo qualche vecchia foto, parlare di memoria, solitudine e perdita, tra l’album personale e la narrazione universale. 

 

L’INTERVISTA: GIANLUCA MATARRESE RACCONTA LA DERNIÈRE SÉANCE

ANTONIO MAIORINO: ho definito la tua macchina da presa come “la macchina del fuori tutto”, rifacendomi ovviamente al film Fuori tutto col quale hai vinto al Festival di Torino. Sia in quel film che ne La dernière séance ti sei esposto profondamente. Che differenza c’è tra il fuori tutto del primo e del secondo documentario?

GIANLUCA MATARRESE: potrei piuttosto iniziare col dire cos’abbiano in comune, quali siano le passerelle che uniscono i due linguaggi.  Per entrambe i film, ho saputo trovare un linguaggio molto personale, filmando il reale ma anche stabilendo una linea di scrittura. Dal punto di vista tecnico, ho utilizzato delle ottiche che permettono la prossimità: mi si sente presente, sono un personaggio in entrambe i casi. Ho mantenuto la presenza anche nel lavoro al suono, lasciando che si avvertisse il rumore della macchina da presa. È un difetto tecnico di quel tipo di camera, ma l’ho mantenuto in quanto in grado di restituire un respiro al film, come se fossi una sorta di Serafino Gubbio che gira la manovella per fare i film (è una citazione da una novella di Pirandello, n.d.R.). Rispetto a Fuori tutto, però, qui la presenza è maggiore. Ecco la vera differenza: La dernière séance è la relazione, il rapporto, mentre nel primo film il rapporto era semmai il veicolo per raggiungere l’intimità e raccontare la storia della mia famiglia. Qui invece il mio sguardo su Bernard è il film. Non è un portrait, un ritratto, banalmente, di un personaggio fuori dall’ordinario. Si tratta del mio sguardo sul personaggio e di come evolva la relazione, laddove in Fuori tutto la storia prendeva il sopravvento.


A.M: nella scorsa intervista, quando mi anticipasti la realizzazione de La dernière séance, mi facesti capire che non sarebbe stato esattamente facile mostrarlo a genitori e parenti prossimi, considerando la sfera dell’intimità tra te e Bernard che è parte del film. Ti giuro che questa sarà l’unica domanda extrafilmica: i tuoi genitori l’hanno visto?

G.M: adesso i miei non sono a Venezia e non sono presenti alla proiezione. Ho raccontato grosso modo le linee narrative del film, tralasciando i dettagli. Con i miei sono rimasto vago. Sostengono tutti il mio percorso. Mio padre, ad esempio, è molto presente sui social, in un modo naif e divertente. Nel film, poi, c’è il mio compagno che loro conoscono. Ho detto con la montatrice che un giorno faremo una versione del film per i miei genitori (ride, n.d.R.). Ma d’altro canto, se ci pensi, il film non è poi così scandaloso.


Bermard con un ventaglio a torso nudo in discoteca


A.M: in effetti, il sesso, segnatamente nelle pratiche sadomaso, non è esattamente il tema portante del film, quanto una chiave d’ingresso. È un po’ come se aprisse un vaso di Pandora. E una volta aperto, cosa trova lo spettatore ne La dernière séance?

G.M: mi piace l’idea dell’ingresso. La séance del titolo francese può essere tradotta anche come seduta psicanalitica, terapia. Con l’autore Nico Morabito avevamo parlato anni fa di una serie tv di finzione in cui i vari amanti slave di uno stesso master s’incontravano come se la loro fosse una terapia, ma al posto di avere il terapista, avessero il master. Bernard vive la sessualità con molta profondità, come un modo di avvicinarsi alle persone. Vive la pratica sadomaso a modo suo. Il nostro è uno scambio anche disequilibrato: si disequilibra nel corso del film per i sentimenti forti che lui ha per me. Dal canto mio, sentivo la responsabilità di poter raccogliere una parola intima, privilegiata; la sua memoria, la sua eredità, le sue tracce.


A.M: il film inizia con uno scambio in tempo reale, ovviamente ricreato appositamente, tra te e Bernard sul sito d’incontri che vi ha consentito di conoscervi. È solo uno degli esempi da cui si intuisce un processo di scrittura forte, una struttura drammaturgica che non sempre ci si attende da un documentario. In cosa è intervenuta la scrittura rispetto alla cattura diretta della realtà?

G.M: nei progetti che sto curando, e già prima di Fuori tutto, mi è piaciuto fare un laboratorio d’immersione, che facesse scaturire i personaggi dal reale. In generale il mio percorso è in parallelo: scrittura, riprese, montaggio. In maniera progressiva, mi lancio con la mia idea, con una struttura, con un personaggio, tutti in potenziale; poi, nell’atto di girare, congegno riprese, monto, scrivo e riparto in ripresa, in modo da aggiustare un po’ il tiro. Molto, dunque, è basato su intuizioni dal reale. Anche lo scambio dei messaggi si basa su messaggi veri. Il potenziale di Bernard, infatti, è nella parola scritta. Il nostro è stato una sorta di scambio epistolare, che ho poi raccolto, elaborato, riscritto, facendone l’inizio del nostro scambio nel film. Ma l’escamotage che mi piace di più nella scrittura, è quello per cui all’inizio sia Bernard a filmare me, poi arrivi io e lo filmi a mia volta. È una strategia di narrazione, ma non lontana dalla realtà. Le stesse conversazioni notturne che si vedono nel film, per quanto provocate, corrispondono profondamente a quelle che abbiamo sempre avuto in maniera naturale. Con Nico Morabito, abbiamo trasposto questa idea nella forma di un ritrovamento, un found footage, con uno switch dei punti di vista – da Bernard a me – che definisce la partenza del mio sguardo. 


A.M: parlando di escamotage, finzione, strategia, ecc., viene anche da dubitare, a volte, del confine tra documentario e fiction.

G.M: ne La dernière séance c’è una messinscena, una narrazione strutturata come in Fuori tutto; quindi, ho visto il film anche come una finzione. D’altro canto, io credo che il documentario non esista di per sé in generale. Quando lavori col reale, in realtà lavori anche con la finzione, a causa del filtro del montaggio, della struttura, della squadra. Viceversa, anche quando si scrive la finzione più finta si parte dal reale. Ecco perché dico che non esiste il documentario. Io ho lavorato per anni nel reality ed è finzione pura. Ma nel momento più fake della messinscena c’è anche una verità estrema che dà una pazzesca sensazione della realtà proprio come succede nel documentario. Io adoro lavorare su questo tipo di dinamica borderline, mi piace esplorare questo confine da sempre. Penso che provenga dal mio lavoro in tv. Non sputo nel piatto in cui ho mangiato. La tv mi ha insegnato molto a giocare con la realtà. Ma vengo anche dal teatro, che è la mia famiglia. Azione, reazione; ascoltare, reagire, provare empatia: l’improvvisazione teatrale è questo, in scena. Quando vieni da lontano e fai certi percorsi, ti accorgi che poi tutto ha un senso.


A.M: la memoria che raccogli è anche una memoria sollecitata, nel senso che sei tu stesso a fare delle domande. Nelle sequenze sul trasloco, si vedono scatoloni, ricordi, cose da mettere via o da conservare. Pensi che Bernard avrebbe comunque riflettuto sul proprio passato, in un percorso di autoconoscenza, oppure sei tu ad aver aperto certi cassetti della memoria?

G.M: sia per Fuori tutto, sia per La dernière séance, ho avuto dei momenti di dubbio in cui mi sono chiesto se sono stato manipolatore o disonesto, ma il punto è che so quello che i personaggi possono darmi. Se mia madre, in Fuori tutto, si mette a piangere, io non faccio nulla, raccolgo; in silenzio dico persino: “figo! Ho la sequenza lacrime!”. Allo stesso modo, ne La dernière séance non ho aiutato Bernard nella scena in cui non riusciva a staccare la cintura di sicurezza. È il paradosso del documentarista: sono lì, ma non faccio nulla. E ho la sequenza. C’è un obiettivo, una posta in gioco – in francese si direbbe un enjeu, difficile da tradurre. Io racconto qualcosa di universale, importante, sulla base di un bisogno; non lo faccio per uno sponsor o per uno spazio pubblicitario, per lavoro, bensì per una mia creazione. Credo sia questo che lo renda onesto. Lo dico sempre anche ai miei allievi nei corsi di cinema: bisogna superare la paura di essere manipolatori. C’è bisogno di saper prendere le distanze in questo lavoro.



A.M: ciò non toglie che a volte il documentarista, di fatto, modifichi la realtà che egli stesso filma, ben al di là del cosiddetto paradosso dell’osservatore in scienza, per cui la semplice osservazione produce cambiamenti nel contesto osservato.

G.M: nel primo film, consigliavo a mia madre di andare a vedere una casa a Pinerolo. Lei non voleva. Siamo andati perché volevo la sequenza, ma di fatto, poi, loro sono andati a viverci e ho la sequenza del trasloco, che io stesso ho spinto. Così, per Bernard ho spinto, chiedendo: fammi vedere cosa c’è nella valigia. l’ho portato nel mondo del ricordo. Lui pensava di bruciare quelle cose, me l’ha scritto. Io gli ho detto: “aspetta che arrivo!”. Io avevo addirittura scritto sarebbe stato interessante se la gatta fosse morta, per essere cinici fino in fondo. Sarebbe stato un finale bellissimo per il film. Questo è decisamente un film sulla perdita. Un giorno Bernard mi chiama e dice che la gatta si è smarrita. E subito mi sono fiondato da lui. In modo magico, ho avuto ciò che prevedevo per lo sviluppo dell’ultima parte. Anche questo s’inserisce in quella commistione tra reale e finzione di cui ti dicevo, e mi appassiona tantissimo.


A.M: messo così, è quasi un lavoro di maieutica, che fa emergere qualcosa che già c'è; ma c’è qualche cassetto, o scatolone, che non sei riuscito ad aprire? Qualche luogo dell’inaccessibile a cui nemmeno la tua macchina del fuori tutto è potuta giungere?

G.M: sì. Per esempio, Bernard non mi ha mostrato le foto sul letto di morte del suo amante Christian. Quello fa parte della sua privacy e del suo pudore. Analogamente, in Fuori tutto non ho filmato i miei genitori in mutande che la mattina parlavano di lavoro. È una questione di rispetto del personaggio, ci sono dei limiti. Lo stesso Bernard manteneva un autocontrollo quando parlava del proprio lutto, lo approcciava a distanza. Eppure, il pianto finale al ritrovamento della gatta per me significa proprio questo: tutto il dolore che non ha espresso prima. Questo vuol dire avere un trauma. Gli anni dell’AIDS sono stati anni di sofferenza sociale di un’intera comunità, ma non si parla tanto di quel periodo, sembra lo si voglia eliminare. Ora diventa ancora più di attualità, perché anche con l’AIDS, come col Covid, non si capiva cosa fosse e cosa provocasse. Ma ancora: il pudore è il limite, ci sono scatole che non puoi aprire. È importante che tu parli di maieutica, perché la differenza con un reality, dove non hai mesi o anni d’indagine, è che tu conosci i tuoi personaggi, passi del tempo con loro, instauri una relazione.


A.M: Bernard che ripara un’auto d’epoca; Bernard che inscatola gli oggetti affermando che costa più l’imballaggio accurato che l’oggetto; Bernard che si prende cura delle gatte. Impossibile non rinvenire un parallelismo tra queste sequenze, così come non osservare che la cura stessa, tra i tanti temi di un film complesso, diventi in alcuni momenti quello dominante.

G.M: fa parte delle caratteristiche del personaggio. Ci sono due cure di cui parli. Quella che Bernard ha nei miei confronti e quella che ha nella propria vita. Anche se non si vede nel film, veniva persino a casa ad aggiustarmi le cose. Nei confronti di amici e persone che ha intorno ha una cura estrema. È una persona d’altri tempi, meticolosa, precisa. La sua è una natura lirica, bellissima e ovviamente molto cinematografica. Il fatto di raccogliere fisicamente le cose e catalogarle mi ha trasmesso un avvicinamento alla terza età. Invecchiando, hai voglia di fermarti, guardare le cose diversamente, raccogliere i pezzi. Mi è piaciuto il parallelo per cui si vede che appende al chiodo il frustino nella scatola assieme ad altri ricordi e da quel momento non ci sono più séance di sesso. Lui stesso dice di voler smettere di praticare sesso in questo modo, ma solo perché ha altre priorità, non perché stia morendo o non abbia libido. Una delle scene più belle per me del film, per certi versi una forma di lentezza, è quando arriva nella casa nuova. Mi ricorda il film di Vincent Dieutre, Jaurès, in cui il regista, che ha appena rotto col suo uomo, filma dalla finestra la vita di un accampamento di curdi. Anche Bernard osserva la vita da un balcone, desiderava tanto averne uno. Sta con le gatte, raccoglie il bucato, lo stende sul balcone. È una poesia meravigliosa. Pensa che volevo chiamare il film con un’espressione che lui usa in una scena, a proposito di un innaffiatoio che ha comprato. Volevo intitolarlo così: ho comprato un annaffiatoio. Ma mi hanno giustamente detto che ero pazzo!


Bernard sotto un ramo fiorito al cimitero


A.M: nella prima parte sei più presente e stuzzichi Bernard con domande sulla vostra vita di coppia. Nella seconda sembra che tu ti faccia osservatore delicato, in una sorta di eclissi dell’autore. Anche questo iato è frutto del processo di scrittura?

G.M: è molto bello che tu abbia colto questo aspetto, perché temevo appartenesse a un livello troppo intellettuale del film, ma in realtà per me fa parte della scrittura. Il film a un certo punto diventa osservativo. Il discorso teorico della dominazione e sottomissione si fa cinema: mi faccio dominare perché smetto di provocare Bernard e mi metto a osservarlo, come se mi guidasse. È una cosa scritta e voluta, che è successa e che fa parte di un livello del film teorico più che contenutistico. Il regista è effettivamente un personaggio, lo sguardo evolve. C’è un cambio di ruolo da parte mia ed è importante che ci sia. Ci sono, ma mi faccio sedurre dal suo racconto, da quello che mi sta delegando, dando in eredità.


A.M: ne La dernière séance ricorrono alcuni elementi insistiti del linguaggio filmico: primi piani, che lasciano molto fuori campo; uno shift ripetuto tra sfocato e focalizzato, come se fosse una perpetua messa a fuoco. È un elemento peculiare di questo film, utile a lasciare ancora qualcosa di occultato negli spazi dell’intimità, oppure è una tua stabile connotazione stilistica?

G.M: tutto ciò è molto presente anche nel film che uscirà tra poco, Fashion Babylon, i cui personaggi hanno un ego smisurato che occupato tutto lo spazio delle inquadrature. In quel caso non ascolto nemmeno più quello che dicono perché vedo il mondo dietro e sfoco, vedo quello che succede intorno come teatrino in cui sono incastrati. Con Bernard il linguaggio è lo stesso ma per motivi diversi, nel senso che questi primi piani e questo gioco sui fuochi instaurano un canale privilegiato tra di noi, come fosse un tunnel che ci unisce. Poi, nel largo mi stabilizzo, come nelle scene delle sèance o di esterni, ma a quel punto, dopo una relazione così privilegiata e vicina, tutto prende un valore diverso. Amo lavorare sulle distanze, e alla distanza appartiene anche lo sfocato e il fuori campo. Rispetto alla tv, in cui devi spiegare sempre tutto, preferisco esprimermi col cinema, spiegare con la censura, col non detto, non con le didascalie. Il tempo passa, i progetti evolvono, io cresco artisticamente e sento di avere un linguaggio sempre più maturo in questo senso. Forse si auto-distruggerà per ricrearsi artisticamente, ma intanto sono lieto di fare un percorso che arriva.


A.M: nella scorsa intervista mi avevi già descritto i due progetti che hai in corso e adesso sono lieto di vederli avanzare a grandi passi. Cosa ci puoi dire proprio di Fashion Babylon?

G.M: Fashion Babylon è finito: montaggio, color correction e mix sono pronti. Siamo coprodotti con France Television\France 2, quindi ci sarà una messa in onda, ma prima stiamo capendo dove lanciare il film per fargli avere una buona circuitazione ai festival. È il racconto del crollo dell’industria della moda come sorta di Versailles, mondo gerarchico, grande festa. È visto attraverso lo sguardo di chi vi fa parte, quindi cortigiani, aristocratici, giullari di corte, coloro che sono nelle prime linee della moda. L’industria stava già implodendo quando ha avuto la mazzata finale dal Covid. Film dal ritmo diverso, schizofrenico come i suoi personaggi. È un prodotto molto anglosassone e speriamo di avere una maggiore diffusione internazionale. Di sicuro non ci sono io come personaggio, se non come reminiscenza, nel senso che gli altri personaggi mi guardano e mi parlano. C’è quindi un’evoluzione del racconto.


A.M: poi c’era il film di cui mi avevi parlato su quegli infermieri pendolari che prendono ogni giorno l’autobus: Il posto. Qui invece com’è tua presenza rispetto ai personaggi?

G.M: ne Il Posto né io né il co-regista Mattia Colombo esistiamo come personaggi. Stiamo montando a quattro mani: due registi, due montatrici. È pertanto un processo molto particolare. Dopo Venezia, e dopo la vittoria del Premio del Pubblico de La Dernière Séance al Sicilia Queer Fest, ho anche una nuova proiezione per Fuori tutto in un festival di Torino. Dopodiché torno al montaggio de Il posto. In questo caso il film è prodotto da Artè tedesca, ma cercheremo di capire lancio dei festival, distribuzione e vendite prima del passaggio tv. Questo è il discorso più industry e noioso.


A.M: a questo punto, però, ti devo chiedere se ci sono novità relative ad altri progetti. Puoi darci un’anteprima?

G.M: te ne do una: sto lavorando con Nico Morabito a un film di finzione tratto dalla realtà sulla mia famiglia in Calabria. Sto cercando di organizzare dei laboratori e delle residenze sul luogo per scrivere e lavorare ai personaggi, attori realmente esistenti. Si chiama Il quieto vivere, sul mantenere sempre conflitti e stare sempre in guerra per mantenere il quieto vivere stesso in una famiglia rurale calabrese. È una storia che vede coinvolti due ragazzini che provengono dalla zona e uno straniero originario della Calabria ma che non vi vive più. È un discorso sulla scelta che possiamo avere nella vita di stare in un posto o partire, nonché su quel determinismo sociale impostoci dal luogo in cui nasciamo, soprattutto in quella regione.


La dernière Sèance è incluso nel programma di Cannes, Locarno e Venezia a Roma (16-26 settembre). Clicca qui per il programma completo

Fuori tutto è evento di chiusura del Job Film Days di Torino


SCHEDA DEL FILM

REGIA: Gianluca Matarrese
PAESE: Italia-Francia
ANNO: 2021
DURATA: 100’
GENERE: documentario
SCENEGGIATURA: Gianluca Matarrese, Nico Morabito
FOTOGRAFIA: Gianluca Matarrese
MONTAGGIO: Gianluca Matarrese, Giorgia Villa, Giovanni Donfrancesco
SUONO: Davide Giorgio
CAST: Bernard Guyonnet
PRODUTTORI: Giovanni Donfrancesco, Jasmina Sijercic
PRODUZIONE: Altara Films, Bocalupo Films

(immagini: fotogrammi dal film La dernière séance)


Antonio Maiorino