Cronaca
L'Italia deve essere una democrazia compiuta. Intervista a Salvo Palazzolo
PALERMO, 21 NOVEMBRE 2012 - Salvo Palazzolo è un giornalista italiano. Inizia la sua attività giornalistica nel 1992 dopo la laurea in Giurisprudenza a L’Ora di Palermo. Ha collaborato, occupandosi di cronaca giudiziaria, con i quotidiani il Manifesto, la Sicilia e Il Mediterraneo. Ha seguito le vicende del caso Contrada realizzando il primo sito internet italiano su un processo penale. Dal 1999 è redattore del quotidiano La Repubblica, ha continuato a seguire l’ evoluzione della criminalità organizzata attraverso la cronaca giudiziaria e l’inchiesta. Ha collaborato con la società di produzione Magnolia ed è coautore di programmi televisivi di inchiesta su Cosa Nostra. È autore insieme ad Alessio Cordaro del libro-inchiesta "Se muoio sopravvivimi" sulla vicenda di Lia Pipitone.[MORE]
Giornalismo d’inchiesta, di cronaca nera e giudiziaria: come si diventa cronisti in terra di Sicilia?
Credo che il giornalismo d’ inchiesta non dovrebbe essere una specializzazione, ma il senso di ogni notizia, finalmente libera dalle veline dei palazzi e dalle dichiarazioni degli addetti stampa. L’inchiesta e l’approfondimento non dovrebbero dunque rappresentare un genere raro, solo per inviati speciali, piuttosto l’approccio di tutti i giornalisti. Ma, purtroppo, non è così. Per pigrizia e a volte per convenienza piccola o grande.
In Italia, esiste ancora la libera informazione sulla criminalità organizzata?
Conosco tanti coraggiosi colleghi, impegnati in redazioni di provincia, che denunciano ogni giorno gli affari della criminalità organizzata e soprattutto le insospettabili complicità con la politica. Purtroppo, molti di questi colleghi sono ancora precari. Oppure, le loro redazioni fanno fatica ad andare avanti. Anche per le continue minacce che arrivano, non tanto dentro buste con lettere anonime, ma attraverso citazioni civili e querele, che hanno solo un significato, quello di intimidire i giornalisti liberi.
Ha scritto un libro insieme ad Alessio Cordaro, figlio di Lia Pipitone, la giovane uccisa nel corso di una strana rapina il 23 settembre 1983. Perché ha sentito la necessità di scrivere questo libro?
Lia Pipitone è una delle tante vittime dimenticate di Palermo, che non hanno avuto ancora giustizia. La rapina di quel pomeriggio di settembre 1983 era solo una messinscena per fermare la voglia di ribellione della figlia venticinquenne di uno dei capimafia più influenti della città. Suo padre non fece niente per fermare la mano dei due killer: Lia Pipitone aveva ormai disonorato il buon nome del padre e di tutto il clan. L’aveva fatto semplicemente vivendo la sua vita: vestendo alla moda di quell’inizio anni Ottanta, organizzando delle bellissime feste, e soprattutto rivendicando il diritto di avere un amico del cuore. Ma tutto questo era motivo di scandalo per la città della mafia.
Chi era per davvero Lia Pipitone?
Dal nostro racconto emerge l’inedita storia di riscatto di una giovane nei confronti di un padre-padrone che avrebbe voluto rinchiudere in casa la figlia. E, invece, lei riuscì prima a fuggire da Palermo con il fidanzato conosciuto a scuola, che poi sposò: padrini autorevoli si mobilitarono per ritrovare i due ragazzi, e il compagno di Lia fu anche portato davanti a un tribunale di mafia. Ma lei non si arrese, continuò a contestare il padre e a vivere la sua vita in libertà. Anche quando una voce insistente nel quartiere iniziò a dire che stava dando scandalo per la sua amicizia con un uomo.
A distanza di ventinove anni, l’assassinio di Lia Pipitone rimane uno dei misteri palermitani. Perchè, secondo lei, ci voleva un libro – inchiesta, “Se muoio sopravvivimi” s’intitola ed è edito da Melampo, per far riaprire il caso?
Il libro è il diario di un figlio alla ricerca della madre. Alessio Cordaro aveva 4 anni quando la madre fu uccisa. Ma è anche un’inchiesta giornalistica vecchio stile, che ricostruisce un contesto ben preciso attorno alla vicenda di Lia Pipitone: la zona dove la giovane viveva, fra l’Arenella e l’Acquasanta, era la base operativa del gruppo di fuoco di Salvatore Riina, utilizzata per i delitti eccellenti. Quella parte di Palermo doveva restare una zona franca. E invece Lia Pipitone, figlia di mafia, aveva immaginato un futuro senza mafia per quella parte di città.
In che modo sarebbe più opportuno ricordare le vittime della mafie?
Bisognerebbe iniziare a ricordarle non per la loro morte, ma per la loro vita, che fu ricca di idee e progetti. In quell’inizio di anni Ottanta, quando Cosa nostra sferrò un attacco senza precedenti al cuore dello Stato e della società civile siciliana, c’era molto più che l’eroismo di singoli, c’era un vero e proprio movimento culturale, che i mafiosi e i loro complici volevano fermare a tutti i costi, perché era portatore di un progetto diverso per la città. Credo che oggi, le idee e i progetti dei nostri martiri potrebbero rappresentare un grande progetto di rinascita per l’intero Paese, capace di far superare quella crisi strisciante che attraverso palazzi e persone.
Qual era il potere di Bernardo Provenzano e di Totò Riina e perché erano/sono considerati i capi per eccellenza del sistema mafioso?
Era soprattutto un potere di relazione, per i contatti intrattenuti con insospettabili settori delle istituzioni e della società. Credo che quelle relazioni, la maggior parte ancora da svelare, costituiscano ancora la forza dei capimafia in carcere: i segreti di Riina e Provenzano, ma anche dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, restano una potente arma di ricatto dei boss nei confronti del mondo della politica e dell’economia. E sono un’ipoteca sul futuro del nostro paese. Se non scopriremo chi sono stati i protagonisti della trattativa del 1992, che segnò il passaggio fra la prima e la seconda repubblica, non saremo una democrazia compiuta.
Giulia Farneti