Economia

#ItalyStyle, Viaggio nel Made in Italy che (R)esiste: I Brand assenti dall'itinerario

MILANO, 05 LUGLIO 2013 #ItalyStyle, viaggio virtuale tra le eccellenze italiane note e meno note - oltre che alla scoperta delle Start up nostrane - prende il via proprio dai quei Brand che – per la dura legge del mercato - non fanno più parte del Made in Italy. Tra i più colpiti, i prodotti agroalimentari. «Sono passati in mani straniere marchi storici dell’agroalimentare italiano per un fatturato di almeno 10 miliardi di euro dall’inizio della crisi, che ha reso più facili le operazioni di acquisizione nel nostro Paese, dall’Orzo bimbo agli spumanti Gancia, dai salumi Fiorucci alla Parmalat, dalla Star al leader italiano dei pomodori pelati finito alla giapponese Mitsubishi, ma nel 2013 è stato ceduto anche il 25 per cento del riso Scotti, mentre per la prima volta la produzione di vino Chianti nel cuore della Docg del Gallo Nero è divenuta di proprietà di un imprenditore cinese».

Così ha dichiarato il presidente della Coldiretti Sergio Marini, citando i dati di uno studio presentato ieri all’Assemblea nazionale, dove - per rendere ancor più evidente lo stato d’assedio a cui sono sottoposti i marchi nostrani – è stato allestito “Lo scaffale del Made in Italy che non c’è più”. [MORE]

Per Marini: «I grandi gruppi multinazionali che fuggono dall’Italia della chimica e della meccanica investono invece nell’agroalimentare nazionale perché, nonostante il crollo storico dei consumi interni, fa segnare il record nelle esportazioni grazie all’immagine conquistata con i primati nella sicurezza, nella tipicità e nella qualità». Il presidente della Coldiretti ha incalzato, affermato che: «Il passaggio di proprietà ha spesso significato svuotamento finanziario delle società acquisite, delocalizzazione della produzione, chiusura di stabilimenti e perdita di occupazione. Si è iniziato con l’importare materie prime dall’estero per produrre prodotti tricolori. Poi si è passati ad acquisire direttamente marchi storici e il prossimo passo è la chiusura degli stabilimenti italiani per trasferirli all’estero».

Ormai è da tempo che il Belpaese è terra di conquista da parte delle multinazionali, soprattutto nel settore agroalimentare. Questo fenomeno ha avuto il suo boom nel corso degli anni ’90, a seguito delle “privatizzazioni” attuatesi in quel periodo, a cui si sono aggiunti gli effetti della globalizzazione. A causa di ciò, alcuni dei più importanti brand del panorama italiano sono stati acquisiti dalle grandi multinazionali straniere quali Unilever, Nesltlé e Danone.

In particolare, il nostro apparato industriale si è fatto cogliere impreparato dal nuovo scenario globale che in quegli anni si stava delineando. Non avendo - tra le altre cose - i capitali finanziari necessari, importanti marchi del Made in Italy non riuscirono ad evitare che multinazionali estere penetrassero nel mercato, mediante l’acquisizioni di partecipazioni o dell’intero pacchetto azionario. Essenzialmente, le multinazionali - potendo contare su un grande potere finanziario - sono riuscite a controllare le innovazioni tecniche e le leve del marketing. Situazione - quest’ultima - che ha attribuito loro un ruolo di leader, consentendogli di agire nei mercati globalizzati, indipendentemente da stabili relazioni di rete e senza legami territoriali specifici, al fine di individuare opportunità di acquisto dei fattori e di vendita dei prodotti di volta in volta più convenienti.

Valzer dei brand. A grandi linee, il sopraindicato rapporto della Coldiretti – che tra cessioni, licenziamenti ed esuberi, sembra quasi un bollettino di guerra - ripercorre gli ultimi dieci anni della storia dei marchi nostrani: «Nel 2003 hanno cambiato bandiera anche la birra Peroni, passata all'azienda sudafricana SABMiller, e Invernizzi, di proprietà dal 1985 della Kraft e ora finita alla Lactalis. Negli anni Novanta erano state Locatelli e San Pellegrino ad entrare nel gruppo Nestlè, anche se poi la prima era stata “girata” alla solita Lactalis (1998). Nel 1995 la Stock, venduta alla tedesca Eckes A.G, è stata acquisita nel 2007 dagli americani della Oaktree Capital Management, che lo scorso anno hanno chiuso lo storico stabilimento di Trieste per trasferire la produzione in Repubblica Ceca. La stessa Nestlè possedeva già dal 1993 il marchio Antica gelateria del Corso e addirittura dal 1988 la Buitoni e la Perugina».

E ancora, nel novero dei passaggi di proprietà: «Nel 2005 la francese Andros aveva acquisito le Fattorie Scaldasole, che in realtà parlavano straniero già dal 1985, con la vendita alla Heinz. Nel 2006 la Galbani era entrata in orbita Lactalis, ma lo stesso anno gli spagnoli hanno messo le mani pure sulla Carapelli, dopo aver incamerato anche la Sasso appena dodici mesi prima. Nel 2008 la Bertolli era stata venduta all’Unilever per poi essere acquisita dal gruppo spagnolo SOS, è iniziata la cessione di Rigamonti salumificio spa, divenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb International, mentre la Orzo Bimbo è stata acquisita dalla francese Nutrition&Santè S.A. del gruppo Novartis. Lo stesso anno è stata ceduta anche Italpizza, l’azienda modenese che produce pizza e snack surgelati, all’inglese Bakkavor acquisitions limited».

Con l’acutizzarsi della “madre di tutte le crisi”, si intensifica il suddetto fenomeno: «Nel 2009, è iniziata la cessione di quote della Del Verde industrie alimentari spa che è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata Sl, la quale fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata. Nel 2010, il 27 per cento del gruppo lattiero caseario Ferrari Giovanni Industria Casearia S.p.A fondata nel 1823 che vende tra l’altro Parmigiano Reggiano e Grana Padano è stato acquisito dalla francese Bongrain Europe Sas e la Boschetti Alimentare Spa, che produce confetture dal 1981, è diventata di proprietà della francese Financière Lubersac che ne detiene il 95 per cento».

E ancora: «Nel 2011 la società Gancia, casa storica per la produzione di spumante, è divenuta di proprietà per il 70 per cento dell'oligarca Rustam Tariko, proprietario della banca e della vokda Russki Standard; la francese Lactalis è stata, invece protagonista dell’operazione che ha portato la Parmalat a finire sotto controllo transalpino; il 49 per cento di Eridania Italia Spa operante nello zucchero è stato acquisito dalla francese Cristalalco Sas e la Fiorucci salumi è passata alla spagnola Campofrio Food Group, la quale ha ora in corso una ristrutturazione degli impianti di lavorazione a Pomezia che sta mettendo a rischio numerosi posti di lavoro. Nel 2012, la Princes Limited (Princes), una controllata dalla Giapponese Mitsubishi, ha siglato un contratto con AR Industrie Alimentari SpA (ARIA), leader italiana nella produzione di pelati, per creare una nuova società denominata "Princes Industrie Alimentari SrL" (PIA), controllata al 51 per cento dalla Princes, mentre il marchio Star passa definitivamente in mano spagnola con il gruppo Agrolimen che ha aumentato la propria partecipazione in Gallina Blanca Star al 75 per cento. Infine, è volata in Inghilterra la Eskigel che produce gelati in vaschetta per la grande distribuzione (Panorama, Pam, Carrefour, Auchan, Conad, Coop)».

E così, si arriva alla cronaca degl’ultimi giorni. Infatti, la settimana scorsa la multinazionale del lusso LVMH ha proceduto all’acquisizione di una partecipazione di maggioranza nel capitale sociale della Pasticceria Confetteria Cova, proprietaria della storica società Cova Montenapoleone Srl, che gestisce la nota pasticceria milanese. Scendendo, un po’ più giù – in Toscana - un imprenditore cinese della farmaceutica di Hong Kong, ha acquistato per la prima volta un’azienda vitivinicola agricola nel Chianti, ovverosia l’azienda agricola Casanova - La Ripintura, a Greve in Chianti, nel cuore della Docg del Gallo Nero. Infine, sempre nel 2013 si è verificato il passaggio del 25 per cento della proprietà del riso Scotti, dalla famiglia pavese al colosso industriale spagnolo Ebro Foods.

In generale, alla luce di questo “valzer”, si sta assistendo ad una fase di caos: cessioni di marchi, chiusura di stabilimenti, licenziamenti. Ad aggravare la situazione, la ormai persistente crisi economica che ha colpito tutti i settori. Probabilmente, questa fase di recessione ha contribuito a portare avanti i piani di ristrutturazione che erano già da tempo nell’aria e ha spinto i grandi gruppi stranieri a disfarsi di quei marchi che non hanno mercato globale, ma che - al contrario - suscitano l’interesse dei gruppi italiani che adesso possono acquistare ad un prezzo che è un terzo del valore pre-crisi. Così, per scongiurare un’ulteriore futura fuga dei nostri marchi all’estero, occorrono interventi strutturali da parte delle istituzioni a favore delle industrie italiane, che consentano loro di essere più incisive e competitive sul mercato internazionale. Politiche tese anche a ridurre il pesante carico fiscale che il sistema industriale è chiamato a dover affrontare.

Tutto ciò - congiuntamente all’estro, alla passione e alla qualità dell’eccellenze italiane - potrebbe essere la ricetta per consentire al Made in Italy di (r)esistere.

Rosy Merola