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Io resto di Michele Aiello al Visions du Réel 2021: quando Brescia resistette al Covid con l'empatia

È davvero una visione dal reale, Io resto di Michele Aiello, in selezione al Visions du Réel 2021 nella sezione "Grand Angle" e in concorso per il Premio del Pubblico: una macchina da presa entra, con eccezionale tempestività, all’interno degli Spedali Civili di Brescia nel picco della pandemia. Recita infatti così, l’incipit: Brescia, marzo 2020 – ed è un susseguirsi di camere fisse su autostrade deserte, strade spettrali e facciate di palazzi dalle finestre mute. Poi, le storie in corsia di ogni giorno, nei giorni più drammatici: sensazioni carpite, senza sensazionalismo, tra respiratori, letti d’ospedale e visiere. Prodotto da Zalab Film SRL, con la fotografia di Luca Gennari e il montaggio di Corrado Iuvara, Io resto è destinato a farsi ricordare come una delle più precoci e lucide testimonianze in presa diretta, meglio – in tempo reale, della pandemia di Covid 19. Per qualità dello sguardo, oltre che per tempismo.


LA TRAMA



A Brescia, durante il lockdown del picco pandemico di COVID-19, il regista Michele Aiello entra nei reparti degli Spedali Civili, osservando con rispetto l'instaurarsi di nuove relazioni tra personale sanitario e pazienti. Franco, Giusy, Elena, lottano per la propria vita, e oltre al bisogno di ossigeno, hanno necessità di sentire calore umano; Roberto – il caposala – e le operatrici sanitarie, Lina, Silvia, Noemi, insieme a tanti altri, colgono l’urgenza di un legame più profondo, di una cura che sia anche avvicinamento umano.  


BACI RUBATI, CAFFÈ OFFERTI

Dopo aver parlato dallo schermo di un tablet con la moglie e la figlia, prima del pasto quotidiano, Franco chiede all’infermiera come si chiami; Barbara, risponde lei. Non è un ringraziamento diretto, ma in questa richiesta di venir fuori dall’impersonalità, c’è una comunicazione discreta, un implicito e riguardoso atto di gratitudine. È un documentario pieno di nomi, Io resto di Michele Aiello, ma privo elogio trionfalistici. Il bacio attraverso il vetro tra la paziente e l’infermiera, che fa da locandina al film, ruba lo spazio promozionale come immagine iconica, ma il film è di gran lunga costruito su attimi più brevi e dettagli minimali. A proposito di vetri, l’infermiera bussa al divisorio della stanza d’isolamento e dice al paziente: “Le volevo proporre un caffè” – altro che supereroi. Con tutta la squisitezza delicata del proporre, un attimo di vita normale piuttosto che la caffeina. E ancora: quando l’anziana a corto di ossigeno ascolta il marito al telefono – perché non ce la fa a parlare – la macchina da presa è sull’infermiera, il non-dialogo è fuori campo: la frustrazione dell’isolamento, la sofferenza fisica e morale, ma anche il gesto amorevole – e professionale – dell’operatrice sanitaria; e dell’operatore alla macchina da presa, a giusta distanza. In tema di macchine e macchinari, poi, c’è tutta la banalità del male: lo staff ragiona di mascherine, sacche per le urine, camici, installazione del wi-fi e quant’altro; la vita, anche amministrativa, continua.



LA GIUSTA DOSE, LA GIUSTA DISTANZA

C’è però un male che non è mai banale: la perdita, il dolore, il lutto. Nell’impeccabile calibratura di toni, mai esasperati, il regista Aiello congegna al montaggio con Iuvara un assestamento del racconto che prevede picchi improvvisi dal tono medio: le infermiere infilano un corpo in un sacco nero, rispettosamente filmate a distanza; due operatrici raccontano la storia straziante di una madre al capezzale del figlio autistico. Sono solo alcuni esempi di una strategia che, per dirne una, di recente abbiamo visto nei documentari di Gianfranco Rosi: si scivola sul racconto immersivo e all’improvviso arrivano scossoni tremendi. Ma è in fin dei conti una strategia diegetica vecchia quanto il documentario. Aiello sa trovare i suoi, di ritmi, anche nel movimento fisico della videocamera - quando corre dietro agli infermieri, a spalla, ma si ferma all’angolo del corridoio – o nel montaggio con Iuvara, in cui c’è spesso un istante in più che rende il racconto organico, coeso, se necessario stemperandone apici drammatici o, viceversa, di allegria: le luci che si spengono nel corridoio da navicella spaziale, tecnicismo gestionale necessario nell’overdose emotiva; i tre secondi, ripresi fuori dalla stanza, del paziente sfinito e depresso, che seguono immediatamente la contagiosa esuberanza di Giusy, la danzerina ed estroversa anziana in isolamento che scherza con l'infermiera. Nessuna stanza è violata, nessuna stanza è segreta, nessuna storia è banale.



Tempestivo nella tempesta, Io resto di Michele Aiello ha saputo restare in equilibrio tra etica e tecnica nella testimonianza emozionale e misurata dei giorni più drammatici della pandemia di Covid-19 a Brescia, raccontando la forza della solidarietà come cura della solitudine forzata.


SCHEDA DEL FILM

TITOLO INTERNAZIONALE: My Place is Here
PAESE: Italia
ANNO: 2021
GENERE: documentario
DURATA: 81'
REGISTI E PRODUTTORI: Michele Aiello
SOGGETTO: Michele Aiello, Luca Gennari
FOTOGRAFIA: Luca Gennari
MONTAGGIO: Corrado Iuvara
MUSICHE ORIGINALI: Francesco Ambrosini
MONTAGGIO E MISSAGGIO DEL SUONO: Massimo Mariani
COLORE: Corrado Iuvara
PRODOTTO DA: Michele Aiello e ZALAB FILM, in collaborazione con RCE Foto Verona e Comune di Brescia-Film Commission


(immagini: fotogrammi dal film Io resto di Michele Aiello, in particolare, in copertina, bacio tra paziente e infermiera attraverso divisorio di vetro; prima immagine all'interno: il signor Franco si fa stringere la mano; seconda all'interno: il signor Elio si fa radere)

Antonio Maiorino