Cronaca

Io e mio fratello Peppino. Intervista a Giovanni Impastato

Peppino Impastato ha avuto il coraggio di affrontare la mafia nella quotidianità con l’arma dell’ironia, con entusiasmo, pur nella consapevolezza del rischio che correva. Un coraggio che accomunerà dopo la sua morte anche il fratello Giovanni, la mamma Felicia e gli amici più cari, prima nel denunciare, soli contro tutti, la verità di quanto accaduto a Peppino per riabilitarne la memoria, successivamente per chiedere ed ottenere giustizia, ed ora, compito demandato a Giovanni dopo la morte della madre, per esserne testimonianza diretta di fronte al mondo intero ed arrivare anche alle nuove generazioni.[MORE]

Chi era Peppino Impastato?

Era un giovane, un ragazzo che fin da piccolo ha capito subito che, dopo l’uccisione dello zio Cesare Manzella, capo della cupola in quegli anni, bisognava rompere con la mafia. Era un ragazzo molto semplice, con una spiccata sensibilità, soprattutto per quelle persone che soffrivano, che avevano bisogno di lottare e di cambiare la loro triste realtà, era una persona sempre vicino a loro. Sotto certi aspetti, lo possiamo considerare una persona umile, che cercava sempre di apprendere, studiava, cercava sempre di non trascurare nulla dal punto di vista intellettuale, dell’impegno sociale; era un giovane animato da quella grande voglia di giustizia e di libertà. Questi sono tutti i pregi che Peppino aveva; riusciva però a cambiare con molta facilità umore: passava da momenti di grande pessimismo a momenti di grande esaltazione, di impegno vero e proprio, bastava pochissimo ad animarlo! La cosa più importante è che ha avuto l’intuito, ma soprattutto la capacità di operare una doppia rottura: una rottura che non è avvenuta solo all’interno della società e dell’ambiente dove viveva, ma soprattutto all’interno della propria famiglia, perché la nostra era una famiglia di origine mafiosa. Mettendo insieme tutti questi ingredienti, viene fuori un grande militante di sinistra, un leader che, in base alle sue conoscenze, ha acquisito una coscienza ideologica, politica e antimafiosa. Era uno che amava molto la vita, la bellezza; si accontentava di poco, aveva una forte carica umana e riusciva a legare con quelle persone che magari non avevano mai letto un libro o che erano semianalfabeti o che non erano degli intellettuali, ecco lui non faceva pesare la sua preparazione sugli altri perché era una persona molto preparata; già a 30 anni aveva un grosso bagaglio culturale.

Lei ascoltava Radio aut e, se si, cosa ne pensava?

Certo che lo ascoltavo; per me, lui era un grande punto di riferimento; il nostro era però un rapporto conflittuale: condividevo a pieno le sue idee e le sue scelte politiche, però non approvavo i metodi di scontro diretto con la mafia perché avevo paura, non avevo la sua sensibilità e perché non riuscivo ad arrivare dove arrivava lui. Ero più piccolo, avevo 5 anni in meno e, in quella fase generazionale, sono tanti. Ho condiviso pienamente l’idea di aprire la radio perché è stato un grande mezzo di comunicazione. Quando Peppino l’ha fondata, la mafia lo ha preso in seria considerazione; è riuscito a metterli davvero in difficoltà; non soltanto con le denunce che portava avanti perché era riuscito a fermare grossi progetti di speculazione, ma soprattutto perché aveva scoperto un’arma micidiale che era l’ironia; attraverso questa, li ha fatti un po’ arrabbiare. Io lo seguivo, però per me il “periodo radiofonico” è stato un periodo triste perché era morto nostro padre da poco, io mi dovevo dedicare molto alla famiglia ma soprattutto agli interessi. Il periodo che ho vissuto più da vicino è stato il periodo del Circolo Musica e Cultura.

Quando suo fratello morì, realizzò subito che si trattava di mafia o credette inizialmente alle versioni ufficiali?

Subito ho pensato che si trattava di un delitto di mafia; per me non c’è stato dubbio, fino al punto che io e mia madre abbiamo firmato, dopo due giorni, un esposto denuncia che metteva in evidenza il rapporto tra mafia e potere istituzionale con nomi e cognomi dei presunti mandanti (Badalamenti, Finazzo, Palazzolo) del delitto; dopo anni, i fatti hanno dato ragione a noi, non potevamo dubitare che Peppino fosse un terrorista o un suicida, fin dall’inizio abbiamo capito tutto.

Com’è stato raccogliere la sua eredità?

È stato difficilissimo perché la sua è un’eredità pesante; Peppino è una figura scomoda; non era solo un militante della sinistra impegnato contro la mafia, ma era anche una persona che riusciva a legare con molta facilità nel nostro contesto; per la mafia, era un pericolo : non era il ragazzino intraprendente che giocava a fare la rivoluzione, ma era uno che la combatteva realmente; per i mafiosi era difficile gestire questa faccenda e lo hanno ucciso cercando di far passare la montatura del suicidio e del terrorismo.

Quando ha sentito di diventare una sorta di testimonial della battaglia di Peppino?

Subito, all’inizio eravamo molto isolati; non come ora che la figura di Peppino è conosciuta in tutto il mondo; quello era un momento difficile dove ci sbattevano la porta in faccia , non avevamo credibilità perché considerate persone che difendevano un terrorista, poi dopo lentamente abbiamo superato il tutto grazie al nostro impegno. Non ho avuto dubbi, fin da subito ho capito che dovevo fare questa scelta, non è che me l’ha imposto qualcuno, me la sono sentita io perché bisognava dare credibilità alla figura di Peppino che era stata infangata da quella vile montatura e perché il suo messaggio è stato molto educativo per le nuove generazioni. Bisognava far conoscere il suo pensiero, il suo messaggio e l’abbiamo fatto con grande fatica ma subito, assieme ai compagni, a mia madre abbiamo fatto questa scelta; riteniamo sia stata una scelta veramente importante. Era giusto arrivare alla verità, è importante sapere come si sono svolti i fatti, non solo per l’omicidio, ma soprattutto ciò che c’era dietro, oggi si parla di depistaggi e di testimoni che spuntano; oggi stiamo cominciando a raccogliere i frutti di quello che abbiamo seminato e penso che abbiamo seminato bene.

A distanza di oltre 30 anni non è cambiato molto nel rapporto mafia – politica, pensa sia valso a qualcosa il sacrificio di suo fratello?

Non possiamo dire che il suo sacrificio sia stato vano; penso che sia stato utilissimo perché grazie al sacrificio di tutti coloro che sono stati uccisi dalla mafia non si può dire che tutto è rimasto come prima. La mafia è sempre integrata in un sistema politico e le politica integrata in un sistema mafioso; però qualcosa di positivo è venuta fuori. Se pensiamo che oltre 120 persone che hanno avuto a che fare con vicende criminali ora siedono a Montecitorio e a Palazzo Madama è gravissimo; questo vuol dire che il contesto in cui viviamo non è quello della legalità ma quella dell’illegalità mafiosa, ma qualcosa è cambiato. Dal punto di vista legislativo, sono state approvate importanti leggi antimafia come quella sull’associazione mafiosa ma abbiamo dovuto aspettare la morte del generale Dalla Chiesa nel 1982 perché in Italia non esisteva il reato di associazione mafiosa; i sacrifici sono utili. Per esempio, la legge antiracket è stata approvata dopo l’uccisione dell’imprenditore Grassi; la legge del 41 bis e per i pentiti di mafia sono state approvate dopo i messaggi di Falcone e Borsellino; la legge per la confisca dei beni dei mafiosi, una legge che parte dal basso, dal nostro impegno, dopo un milione di firme che abbiamo raccolto negli anni 90; grazie a questa legge, le terre vengono tolte ai mafiosi, grazie anche al sacrificio di Peppino e di tanti altri, la legge 109 ci ha permesso di far nascere le cooperative di libera terra e di avviare il consumo equo solidale. Sono tutti segnali importanti. Oggi i rapporti tra mafia e politica sono molto evidenti, anzi ancora di più, la situazione è peggiorata perché oggi l’identikit del mafioso non è più riconoscibile in Totò Riina, in Provenzano, in Badalamenti e così via. E’ cambiato tutto: prima c’era un intreccio tra la mafia e i settori criminali; oggi si parla di borghesia mafiosa perché i capi della cupola non sono più le persone che ho indicato precedentemente ma sono medici, ingegneri, avvocati, professionisti in genere; questa è la nuova mafia che dirige la cupola.

Cosa vuol dire oggi resistere e combattere la mafia?

La mafia deve essere sconfitta perché non è un problema repressivo, di ordine pubblico dove dobbiamo delegare tutto e tutti; è un problema culturale, si deve fare leva sulla cultura mafiosa con un sano sviluppo economico e culturale. Resistere è fondamentale, contro un sistema mafioso, economico e telematico; le cose si mettono male e dobbiamo resistere. Quando l’economia domina sulla politica, vuol dire che qualcosa inizia a non funzionare; resistere vuol dire dare un calcio alla rassegnazione, senza ciò si entra in una brutta fase e cioè la rassegnazione, terribile.. Lo posso dire perché, andando in giro per l’Italia per far conoscere il pensiero di Peppino, vedo persone demotivate, indifferenti e rassegnate; le persone rassegante mi fanno paura perché sono persone che non hanno bisogno della verità e, senza la verità, non si fa altro che spalancare le porte alla mafia, al governo, alle criminalità in genere. Bisogna resistere per dare quel messaggio di speranza e di fiducia alle nuove generazioni, che purtroppo sono entrate in questa fase di rassegnazione, frutto di un consumismo e di un capitalismo senza regole che ci sta portando all’esasperazione. La resistenza deve essere contro questa forma di neoliberismo, di libero mercato che piace a tanti, che ha fatto aumentare i conflitti d’interesse in Italia e all’estero; basta pensare all’ex presidente degli Stati Uniti d’America Bush, una persona tra i più ricchi negli U.S.A, che ha gestito anche il potere politico. Anche in Italia, l’economia per tanti anni ha dominato sulla politica e oggi si raccolgono i frutti; forte potere economico che detta delle leggi che, in maniera sfrenata, stanno avviando questo percorso neoliberista senza regole.

Serena Casu