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Intervista a Luiza Gonçalves, vincitrice del Pesaro Film Festival con 'Un bananero no es casualidad'
Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Un bananero no es casualidad di Luiza Gonçalves: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.
“In genere sono io che faccio le domande: da documentarista, che intervista l’altra gente!”. Sorride mentre lo dice, Luiza Gonçalves, fresca vincitrice della 57esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro col cortometraggio documentario Un bananero no es casualidad. Argentina, classe ’97, artista poliedrica, non nasconde di vivere con una certa emozione la recente accensione dei riflettori sul suo talento. Ci sta prendendo gusto: “mi è piaciuto il Q&A a Pesaro, è la prima volta che ho fatto un’esperienza così e mi sembra fantastico”, confessa. E a proposito di prime volte, alla fine della nostra conversazione ammette: “È la mia prima intervista, per così dire, come cineasta riconosciuta”.
LA TRAMA DI UN BANANERO NO ES CASUALIDAD
Il riconoscimento principale al Festival di Pesaro (Premio Lino Micciché) le è valso per un cortometraggio che potrebbe sembrare una qualche boutade cinematografica, del tipo: metti un banano a San Sebastián. Un bananero no es casualidad, infatti, sembra un’amenità, persino bizzarra, su uno spunto del tutto inusuale – si direbbe, un soggetto in apparenza poco fertile per un film. La regista, infatti, si domanda infatti perché a San Sebastián, nei paesi baschi, crescano degli alberi di banano. Paradossalmente, poi, non riproduttivi, in una città nota, tra le altre cose, per le tante cliniche della fertilità e relativo fertility tourism. Anzi, più che domandarselo, la regista lo chiede agli altri. Ne parla con Shashi, una donna incontrata per caso che le racconta delle sue coltivazioni di banano in Taiwan; si attacca al cellulare per chiederne ragione ai preposti uffici municipale. Che ovviamente non lo sanno: immaginate le risposte cortesi, dubitose, surreali. Ma niente frena la curiosità di una mente creativa.
PERCHÈ INNAMORARSI DI UN BANANERO NO ES CASUALIDAD
Perché i banani sterili a San Sebastián? Farsi rispondere non è semplice; non è casualidad, appunto. Fresca, spontanea, arguta, l’indagine, di Luiza Gonçalves, di là delle note stralunate, lascia affiorare temi più complessi, che vanno dalla fertilità stessa, al colonialismo, fino alla densità di storie che il reale addensa nei contesti del vissuto. Ed anche per chi volesse, con più leggerezza, limitarsi al solo scioglimento dell’enigma, con le saporose e brevi tappe intermedie della ricerca, c’è comunque di che abbagliarsi lo sguardo per lo stile della regista di Buenos Aires: fecondo di manipolazioni della pellicola, dissolvenze, sovrimpressioni, scritte grafiche, animazioni, tra bianco e nero e colore. La provetta di un creativo. E la prova che l’artista argentina ha una sua identità di visione.
L'INTERVISTA: LUIZA GONÇALVES RACCONTA UN BANANERO NO ES CASUALIDAD
ANTONIO MAIORINO: la prima domanda è piuttosto una provocazione. Qualcuno potrebbe sorprendersi del fatto che un banano diventi il soggetto di un film. Qualche spettatore potrebbe addirittura prenderlo per un pretesto o un capriccio. Mi fa venire in mente lo scrittore francese Flaubert quando diceva che voleva scrivere un “romanzo sul niente”. Ecco, diresti che Un bananero no es casualidad è un corto sul niente? O viceversa, è la dimostrazione che la realtà è formata di segni densi, che contengono storie insospettabili?
LUIZA GONÇALVES: tutte e due le cose. Per fare un esempio molto concreto, le persone che chiamavo e con le quali parlavo del banano, mi rispondevano con cose del tipo “questa non è una domanda”, “cosa vuoi che importi a qualcuno di questa informazione” e via dicendo. Per me o per altri come me, nel vedere davvero le cose della realtà, nell’approfondire, nel mettere in discussione ciò che si trova intorno a noi, ci si accorge che qualcosa che per tanti è niente, per qualcun altro può essere tutto. È tutt’altro che facile: costa tempo ed energia. Alla fine, però, realizzi che esistono cose complesse con storie complesse. Lo si potrebbe dire per tutto: ogni cosa viene da qualche altro luogo, solo che non possiamo mantenere per tutto il tempo questa modalità di pensiero che mette in discussione ogni elemento della realtà.
A.M: so che sei già al lavoro per un lungometraggio, Melonhood, che secondo quanto si legge nel catalogo del Festival di Pesaro sarebbe un progetto incentrato sul tuo interesse per i temi della fertilità e della riproduzione. Questi temi sono presenti anche in Un bananero no es casualidad. In che modo?
L.G: è così. Nella scuola di cinema dove sto svolgendo il mio master, già da tempo pensavo a un progetto che avesse a che fare con la fertilità, anche se doveva trattarsi di un film di finzione e non di un documentario. Durante una lezione di creazione cinematografica, è emerso lo spunto di dover realizzare un film sui giardini. Io ho subito avuto l’idea di approcciare questo tema attraverso una persona, ma non sapevo chi, finché all’improvviso mi sono imbattuta nel racconto di Shashi, che si vede in Un bananero no es casualidad. Shashi mi ha spiegato che il banano ha questa capacità di generarsi e rigenerarsi da solo. In questo ho trovato una connessione, forse solo letterale, col tema della fertilità che tanto m’interessa.
A.M: ma c’è anche qualcosa del tema opposto? La morte, la sterilità? Per esempio, nel tuo corto si allude a certa distruzione apportata dalle conquiste coloniali.
L.G: la morte anche c’è, ma forse non ne parlo esplicitamente. Può darsi che ne tratti proprio nel lungometraggio a cui alludevi, sempre nei termini di una messa in discussione: l’immortalità, l’evasione dalla morte. Sto ancora mettendo a fuoco questo concetto, devo trovare il collegamento giusto.
A.M: mi dicevi dell’incontro con Shashi. Quanto è importante la casualidad in un documentario? Vale a dire, quanto conta cercare deliberatamente, quanto, invece, mantenersi aperti all’incontro casuale e saperlo ricevere?
L.G: per questo corto, è fondamentale quest’ultimo aspetto. Mai avrei immaginato di girare questo film. La proposta a lezione nella scuola di cinema riguardava il tema dei giardini; sono io ad averla trasformata in una folle ricerca, affinché diventasse un modo di esprimere una sensazione, un sentimento, un dubbio. Era la mia prima volta in Spagna; chiacchierando con i colleghi del corso, è naturale che vengano fuori per caso tanti dialoghi, tante chiacchiere. Anche sullo stesso colonialismo di cui parlavi. È importante mantenere un equilibrio tra ricerca e casualità.
A.M: a volte ci capita di essere stranieri nella nostra stessa terra, nel senso che siamo circondati da segni, simboli, storie nascoste di cui siamo ignari. E così, diventa quasi necessario un punto di vista altro, alieno, per riqualificare qualcosa che abbiamo avuto sempre sotto i nostri occhi. È così anche per Un bananero no es casualidad? A San Sebastián nessuno aveva mai notato quel banano. È un film che poteva essere girato solo da un occhio non europeo?
L.G: è un interrogativo che mi mette in difficoltà. Chissà, può essere. Non voglio pensare che esistano dei limiti da parte di chi effettua una creazione artistica. Mi piace pensare che tutti siano in grado di sapersi porre delle domande.
A.M: parlando dello stile del tuo corto, ci sono scelte tecniche di decisa autorialità: dal formato della pellicola, alle dissolvenze, fino al bianco e nero e ai disegni a mano. Pensi che questa vena sperimentale potesse esprimersi altrettanto liberamente in un lungometraggio?
L.G: è una domanda interessante. Non ho mai girato un lungometraggio, quindi per me potrebbe essere complicato rispondere, ma ho la sensazione che il bello del corto è quello di poter giostrare con vari elementi nella consapevolezza di doverti attenere a tempi fissi per non sopraffare lo spettatore. Trovare regole di regia che funzionino per un’ora e mezzo è più difficile. In questo caso, lavorando con pellicole di 16 mm, quello che mi ha aiutato è stata la consapevolezza di dover rispettare tempi ben precisi per ogni rullo, tra i due e i tre minuti. Era come se stessi già facendo montaggio mentre filmavo: già pensavo al film nelle sue divisioni interne. La questione tecnica del montaggio si risolveva all’atto della ripresa stessa.
A.M: so anche di un tuo interesse per la poesia e mi chiedo se in qualche modo questa attenzione non si rifletta in un’altra peculiarità stilistica di Un bananero no es casualidad: l’uso creativo della parola. A livello sonoro, per esempio, nelle conversazioni telefoniche hai a volte “oscurato” la tua voce, altre quella dell’interlocutore. Ma soprattutto, a livello visivo, al di là delle spiegazioni iniziali e finali, ho notato l’apparizione di singole parole scritte, che si caricavano così di un accresciuto senso espressivo. Come spiegheresti questo particolare impiego della parola?
L.G: ho un forte interesse nei confronti del linguaggio. Al di là del fatto che mi piacciano molto le lingue – e infatti ne parlo diverse – in generale mi viene di associare la poesia al linguaggio e la parola al testo. Nel corto, in particolare, volevo giocare con l’idea di testualità connessa alla parola. Nella mia ricerca, avevo bisogno di dati concreti, e spesso succede che associamo la parola stessa alla concretezza, all’evidenza. Ma non è così: una cosa che sia scritta da qualche parte non è per forza vera. Per giocare con questo concetto, ho usato le parole come elementi del testo filmico, ossia come elementi visuali, di grafica.
A.M: d’altro canto, testo deriva da textum, nel senso di tessuto, intrecciato. È come se anche la parola, facendosi elemento grafico, entrasse nella trama audio-visiva del film, in questo intreccio che genera, appunto, la testualità. Questi pensieri mi spingono verso un’altra domanda.
L.G: vai.
A.M: una delle classiche domande rivolte a giovani registe e registi è quella su modelli e influenze: a quale autore ti ispiri, a quali opere cinematografiche fai riferimento e così via. Nel tuo caso, ho idea che questa domanda sarebbe limitante. Mi sembri un’artista dagli interessi disparati, le cui cosiddette influenze non possono essere rintracciate solo nel campo del cinema. Mi sbaglio?
L.G: è proprio così. Siamo circondati tutto il tempo da potenziali influenze ed è difficile pensarle in termini specifici attorno a questo film. Ti posso comunque dire che una persona che costituisce un riferimento per me, nonché un’artista che fa anche cinema, è Amy Siegel, che ha all’attivo un lungometraggio sulla sopravvivenza nella Germania dell’Est e soprattutto è autrice di fotografie, anche molto concettuali, ma capaci di lavorare con le immagini in modo molto plastico. Alla fine, è proprio quest’ultimo aspetto che m’interessa: il lavoro plastico sulle immagini. Potrei anche nominarti altri artisti, ma dovrei pensarci.
A.M: prima di tutto, di fatto, sei un’artista. Ripensando ai disegni a mano presenti in Un bananero no es casualidad, ti chiedo: fino a che punto il cinema lascia la possibilità di lavorare con le mani, e in che misura, invece, è un’arte fortemente condizionata dall’aspetto per così dire “meccanico”, tecnologico?
L.G: è un aspetto interessante, ma bisogna distinguere il digitale dalla pellicola. Con quest’ultima, hai maggiori possibilità di mantenere l’uso della manualità nel processo di lavorazione. M’interessa questa domanda perché credo, comunque, che ci siano anche dei modi di usare il digitale più plastici, in cui intervengono le mani. Devo però ancora esplorare e provarci.
A.M: chiudiamo il cerchio tornando al cinema. È una forma di espressione che ha i propri codici. In particolare, nell’ambito del documentario, ci sono autori che amano mostrare, come per svelare; altri che amano nascondere, come per evitare di fare pura informazione visiva. In quale delle due attitudini ti rispecchi di più?
L.G: in entrambe. Quando qualcuno vede un’immagine, in realtà non la vede. Due persone non vedono la stessa cosa, e quando mostro un’immagine, facendola passare per il mio filtro, inevitabilmente la nascondo. All’interno di un documentario, però, questa scelta può dipendere anche dal tipo di narrazione. Nel mio caso, mi ero data una regola (anche se non mi piacciono le regole): non mostrare mai il banano a colori, ma solo in bianco e nero. L’ho scelto appunto per evitare di mostrare tutto e dire tutto.
A.M: tornando ai codici del cinema, hai vinto il Festival di Pesaro competendo contemporaneamente con lungometraggi e opere di finzione. Cosa ne pensi di questo modo di organizzare le sezioni concorsuali dei festival? È una scelta giustamente aperta, oppure ritieni che lo spettatore abbia bisogno di categorie e suddivisioni più rigorose (corti/lunghi, documentari/fiction) per potersi orientare?
L.G: è interessante valutare questa domanda rispetto a ciò di cui ha bisogno lo spettatore. Il bello di non sapere in anticipo è che non ci sono aspettative preconfezionate: vieni senza preparazione e sei più aperto. Da regista, io avrei bisogno della categoria dei documentari, ma mi piace che generi e formati siano mischiati, perché le categorie implicano anche gerarchie. Non se ne parla, ma esistono: ad esempio, la gerarchia che implica la maggiore importanza del lungometraggio rispetto al cortometraggio.
A.M: ecco, appunto: hai bisogno del documentario come categoria critica? A tutti i documentaristi che intervisto, sto chiedendo di questa affermazione progressiva dell’espressione cinema del reale in luogo del termine documentario. È un modo di concepire il cinema che non distingue tra documentario e finzione, osservando piuttosto le caratteristiche della narrazione e il grado di adesione alla realtà. Ti spiazza questa definizione di cinema del reale?
L.G: la percepisco come una mossa di marketing. Che cos’è la realtà? È diversa per ognuno. È bene che esistano termini e categorie, purché si resti liberi di lavorarci in libertà e senza frontiere troppo rigide. Il documentarista può tenerci al termine documentario, perché in questa categoria avverte una differenza nel modo di lavorare, nella produzione, nel budget. Sono differenze che lo distinguono dal cinema di finzione.
SCHEDA DI UN BANANERO NO ES CASUALIDAD
TITOLO INTERNAZIONALE: A banana tree is no coincidence
PAESE E ANNO: Spagna, 2021
GENERE: documentario
DURATA: 10'
REGIA: Luiza Gonçalves
COL SUPPORTO DI: Uliako Lore Beratzak, Elias Querejeta Zine Eskola
FOTOGRAFIA E MONTAGGIO: Luiza Gonçalves
ASSISTENTE DI CAMERA: Lucas Larriera
ASSISTENTE TECNICO: Asier Armental
FILM PROCESSOR OPERATOR: Amat Vallmajor
POST-PRODUZIONE DEL SUONO: Lucas Larriera
CAST: Shashi
BIOGRAFIA DI LUIZA GONÇALVES
Luiza Gonçalves (Buenos Aires 1997) è un’artista e regista che vive e lavora a Brooklyn, New York. Nel 2014 ha fatto la sua prima mostra di fotografia. Nel 2016 il documentario New City Doc è stato presentato al Nyack Film Festival. Proseguendo gli studi al Pratt Institute ha approfondito interessi come pittura, performance, poesia e scultura, presentando due progetti di tesi. Attualmente è in fase di sviluppo il suo primo lungometraggio, Melonhood, un saggio visivo sulla riproduzione nel XXI secolo. (Fonte: Pesaro Film Festival)
(immagini: fotogrammi da Un bananero no es casualidad, tranne l'ultima immagine, opera di Amy Siegel dal titolo, Berlin Remake, 2005, video-installazione a due canali, colore\suono, fonte Thomas Dane Gallery)
Antonio Maiorino