Interviste

Intervista al grande regista Enrico Vanzina curata da Lina Latelli Nucifero

Enrico Vanzina, primogenito del regista e sceneggiatore Steno e uno dei più popolari e prolifici registi del panorama italiano,  ha aperto la quinta edizione del Lamezia Film Fest di Lamezia, la grande Kermesse internazionale di cinema,   ricca di eventi e di   personaggi nazionali ed internazionali e arricchita in questa edizione  da un  Premio dedicato a Paolo Villaggio. In occasione di questo grande evento, svoltosi a Lamezia Terme, il grande produttore cinematografico, giornalista e scrittore, ha raccontato se stesso alla stampa e il suo fortunato percorso artistico vissuto insieme al fratello ed amico Carlo, recentemente scomparso.

Quanto ha condizionato  il suo percorso artistico il fatto di essere un figlio d’arte essendo suo padre Steno un grande regista?

«Assolutamente no,  ma  il contrario perché, essendo  nato in una famiglia dedicata al cinema, a casa nostra c’erano tutti i grandi registi ed attori del cinema d’allora e scrittori. Pensavo di fare qualcosa di  diverso  essendo portato nella scrittura  per cui,  da quando ero piccolo,  pensavo di fare lo scrittore, il giornalista,  poi, invece,  per una mia debolezza ho fatto  l’aiutoregista  in un film incoraggiato da mio fratello Carlo che, fin da piccolo,ha sentito la vocazione per il cinema e che è stato regista  con  Monicelli, Sordi ed altri. Un giorno  mi  ha detto: « Mi hanno offerto un film, me lo scrivi tu?». Io  non ho potuto dire di no, così è incominciato  rimanendo  intrappolato  in questo lavoro che è meraviglioso  e che  mi ha preso totalmente.  Però nel corso della mia vita ho sempre cercato di diversificare  questa  professione nel senso  che in un primo momento   volevo fare il pianista, ma poi  ho capito  che non sarei stato un grande pianista ed ho lasciato perdere, meno male. Quando ho cominciato a fare cinema sul serio ho sempre tenuto una strada aperta dedicandomi al giornalismo e scrivendo libri pur rimanendo la voglia di scrittura che  ho coltivato con grande puntualità e, nonostante  i tentativi che ho fatto per evitare il cinema, ci sono caduto con tutte le scarpe. Certamente era mio destino. Ma  l’ho fatto  soprattutto con molta responsabilità essendo il figlio del grande ed importante regista Steno. Io e mio fratello Carlo abbiamo cominciato a svolgere bene questo lavoro mantenendo una tradizione di famigia:  ecco perché  ho un senso di responsabilità totale».

Quale l’eredità lasciatagli da suo padre?

«Mio padre mi ha insegnato che questo lavoro si fa tenendo conto dell’importanza del pubblico  che è la ragione per la quale esiste il cinema. Quando produci  film  comici, d’amore ,  western, commedie  e di qualsiasi genere  devi  pensare sempre  che c’è qualcuno che esce da casa, che deve parcheggiare una macchina , fare un biglietto e venire a vederti e quindi devi avere   il rispetto totale del pubblico, devi pensare alla sua opinione sul film visto e non solo alla critica e ai festival.  Il  cinema è un’ arte popolare, un artigianato.  Ancora un’altra cosa: non pensare mai che ce l’hai fatta, non prenderti mai sul serio perché, anche quando hai successo o vai giù, non devi perdere mai la testa perché questo è un lavoro a tempo e  non è un contratto per tutta la vita».

Per quanto riguarda il suo cinema  popolare come mai c’è stata una certa avversione da parte di alcuni critici?

«Essendo un cinema spesso di intrattenimento,  di rapporto con vari strati della popolazione  e non per forza di intellettuali,  è stato considerato  come qualcosa di inferiore,  ma, in realtà,  la forza del  cinema italiano è stata proprio il cinema popolare, la commedia   che ha reso l’Italia importantissima dal punto di vista cinematografico.  Infatti si potrebbe raccontare la storia di questo Paese attraverso  i film della commedia all’ italiana. Il cinema popolare ha il  destino di ritenere  qualcuno un eroe solo dopo la sua morte come è accaduto per Totò con  il quale papà ha lavorato di più  in assoluto:  Totò, da vivo, era  considerato  quasi un attore  di avanspettacol, invece poi è venuto fuori che era un genio».

Le è balenata qualche volta l’idea di cambiare genere?

«Noi abbiamo fatto di tutto  e abbiamo avuto fortuna realizzando grandi film d’amore, di cappa e spada, dei gialli perché   ci piace il cinema in generale. Per cinema popolare si intende anche un film d’autore,  da festival: Rosy,Petri, Visconti facevano dei film che andavano benissimo per  il pubblico».

E quindi in che  senso popolare?

«Cinema popolare significa  che lo  spettatore di vari paesi, di vari strati sociali, di diversa età può godere di uno  spettacolo  a modo suo  secondo la sua prospettiva. Il cinema è come i romanzi che durano nel tempo perché  possono essere letti dai  ragazzi,dai bambini,  in Afghanistan ,in Africa , in  America e perché tutti vi trovano un argomento interessante  al quale  appassionarsi. Popolare vuol dire  intrattenere in maniera intelligente un pubblico vastisimo che tu non conosci».

Quali attori contemporanei avrebbe voluto nei suoi film?

«Avrei voluto insieme a me anche qualche scrittore di una volta e forse fare dei film con qualche regista  di una volta . Ho avuto il piacere di scrivere  anche per mio padre, ho lavorato con Dino Risi, Lattuada,  Monicelli  e con altri grandissimi registi  della generazione di prima. Mi sarebbe piaciuto moltissimo  avere nei miei film Gassman, che è un attore che adoro moltissimo e soprattutto Sordi al quale mi lega  un’ amicizia personale. Sarebbe stato bello avere la possibilità di lavorare con delle persone che ti hanno illuminato nella tua infanzia».

 Quali registi  da lei conosciuti hanno segnato la sua carriera?

«Quando entri a contatto con queste persone devi avere l’umiltà di ascoltarle e mai parlare troppo   per imparare qualcosa.Io, più che da un singolo, ho imparato il modo di fare il cinema dai grandi registi della commedia italiana del dopoguerra italiano  come Monicelli, Germi, mio padre, Risi, Scola, Comencini per il loro modo di raccontare le storie spesso un pò drammatiche ma sempre in maniera molto lieve, leggera. Narrare la realtà italiana attraverso gli occhi del cinema con uno sguardo non indulgente ma di grande attenzione e di amore verso i personaggi che stai raccontando è una tradizione della commedia italiana che cerco di imitare.Infatti  spesso mi rivedo i film del passato perché c’è sempre da imparare».

Ha qualche rimpianto per un genere di film non ancora affrontato?

«Ho avuto la fortuna di fare 100 film per  cui ho realizzato  in larghissima parte quello che desideravo. Insieme a mio fratello, che se n’è andato, ho  solo il  piccolo rimpianto  di non aver fatto  un western all’italiana  per  rilanciare gli spaghetti western.  Ci abbiamo provato in tanti modi ma non ci siamo riusciti».

Foto: Vanzina

Lina Latelli Nucifero