Interviste

Intervista a Luca Madiai, autore "decrescente"

FIRENZE, 28 NOVEMBRE 2013 - L'intelligenza diviene sempre più specialistica. Spesso viene espressa confezionandola in “moduli componibili” modello Ikea. Moduli a tenuta stagna che impediscono “contaminazioni” tra le diverse aree del sapere e della tecnica. Luca Madiai rappresenta un’eccezione a tutto questo, con la sua intelligenza “trasversale” e d'insieme.

Il suo recentissimo saggio, “Ritorno all'origine - L’evoluzione umana non è a senso unico”, pubblicato qualche settimana fa in versione e-book da Area 51 publishing, ben potrebbe essere il frutto delle elucubrazioni di un accademico umanista o di un docente di filosofie orientali. Luca è invece laureato in ingegneria meccanica, si occupa di energie rinnovabili ed è il presidente della sezione fiorentina del Movimento della Decrescita Felice.

Quello della Decrescita Felice è un movimento d’opinione che si propone la sensibilizzazione verso un cambio di rotta nella visione riduttivista dell’economia. Quest’ultima appare preoccupata spesso solo dello sviluppo incontrollato della produzione, della “crescita”, trascurando del tutto altri valori primari per l’umanità come la qualità dei rapporti interpersonali e la gratificazione dell’individuo. Non si tratta di discorsi utopistici da epigoni dei "figli dei fiori". Le teorie della decrescita hanno di recente trovato conforto anche negli studi di illuminati - sia pure per il momento minoritai - economisti di fama internazionale, basti pensare al francese Serge Latouche. In un passato più remoto, persino il senatore americano Robert Kennedy - in un suo celebre discorso del '68 - aveva esternato tutta la sua perplessità a indirizzare tutto, dagli ideali alla produzione, alla crescita del P.I.L. nazionale. 

Madiai si interessa da anni delle tematiche della decrescita e della sostenibilità ambientale, economica e sociale. Tre anni fa ha dato vita al blog Decrescita Felice e Rivoluzione Umana, un sito da cui è possibile scaricare gratuitamente buona parte della sua produzione saggistica, letteraria e poetica.


Incontro Luca in un pomeriggio decisamente decrescente sotto l’aspetto meteo, a Firenze. Freddo e pioggia incombente stavolta hanno consigliato a Luca di rinunciare a spostarsi per la città con il mezzo di locomozione preferito, la bicicletta, che oltre alle gambe è naturalmente il mezzo di locomozione “decrescente” per eccellenza. E’ proprio dai contenuti dell’ultimo saggio di Maidai che traggo spunto per la conversazione con il giovane autore.

Stupidità è per te la totale ignoranza delle conseguenze delle proprie azioni. Essere in balia dell'istinto. Secondo te l'uomo contemporaneo è davvero più stupido dell'uomo delle epoche passate o non è piuttosto più “menefreghista”?

La stupidità, come gli altri mondi, è parte dell’essere umano e non è estinguibile. Ovvio che l’istinto può avere anche connotati positivi, può salvare la vita per esempio in momenti di panico. In generale, oggi l’uomo è più colto e istruito che nel passato, ma questo non necessariamente significa che sia anche più intelligente e saggio. L’aspetto cruciale dell’attuale comportamento umano è nel fatto di non avere una visione che si spinga verso il futuro con responsabilità e lungimiranza, e nel fatto che la concezione riduzionista della realtà ci induca a non prendere in considerazione i legami e le interdipendenze dei fenomeni. Vedere il singolo individuo separato dal resto, in una parola l’egoismo, ci sta offuscando la direzione per un vero cambiamento.

Le relazioni umane come qualcosa da consumare, che conducono alla lotta, alla sfida, allo scontro, rinunciando a fraternità e collaborazione. Tu imputi ciò all'involuzione della nostra società. Ma davvero pensi che il feudatario medievale o il civis romanus fossero maggiormente animati dal desiderio di relazioni fraterne e cooperative?

Non credo che la nostra specie abbia avuto un’involuzione, almeno non sotto tutti gli aspetti. Credo che siamo arrivati nella fase storica della nostra evoluzione in cui o facciamo un salto evolutivo, che corrisponda a percepire un’interiorità più vasta del proprio misero ego, oppure siamo destinati con molta probabilità a una lenta e dolorosa estinzione. Altro discorso è il fatto che la società dell’abbondanza e del consumismo incoraggi le persone, di ogni estrazione sociale, a competere per apparire migliore degli altri. Sentimenti quali l’invidia e l’arroganza sono le basi fondanti dell’attuale cultura del consumo, cosa che era molto meno diffusa in epoca antica, dove invece l’oppressione e la penuria erano più palesi.

La fede in se stessi è per te la propria determinazione a non lasciarsi abbattere dalle difficoltà. Non pensi possa essere una contraddizione questa preminenza che dai alla personalità umana e il disvalore assoluto che vedi nell'egocentrismo contemporaneo?

Questa differenza è fondamentale. La fede a cui si riferisce il buddismo è la fiducia nella parte più pura dell’essere umano e della vita intera, e non fa riferimento al proprio ego ristretto. Nel linguaggio buddista si parla di “piccolo io” quando facciamo affidamento alla visione che deriva dall’attaccamento al proprio ego limitato, visione incoraggiata dai mondi bassi di inferno, animalità, avidità e collera; mentre il “grande io” è quel Sé che si riconosce nella totalità del cosmo, che si manifesta quando illuminiamo la nostra vita attraverso una propria trasformazione interiore come risultato di una pratica, perciò di un’azione. Basarsi solo sul “piccolo io” conduce alla distruzione, fondare la propria esistenza sul “grande io” è invece il presupposto per una società migliore nel suo insieme.

Per te il buddismo è esemplare come filosofia di vita in quanto per esso la gioia consiste nel produrre e non nel consumare. Ma “produrre” non è di per sé un elemento di quella crescita incontrollata che tu stigmatizzi in numerosi tuoi scritti?

Preferisco la parola creare piuttosto che produrre. Ma al di là della semantica, creare o produrre è un’attività che si può riferire a differenti aspetti della vita: a quelli puramente materiali come produrre delle scarpe o creare un edificio di cui abbiamo bisogno, ma anche a ciò che è più immateriale come la cultura, il pensiero, l’arte. In particolare, credo nella creazione di valore, dove il valore non ha relazione con un profitto monetario, ma piuttosto con il bene, ovvero con la felicità propria, degli altri e dell’ambiente, essendo questi elementi inscindibili. Perciò l’unica azione di valore possibile è quella che beneficia tutte le parti, e non soltanto una; perché l’azione fatta nell’intento di far felici sé stessi degradando l’ambiente e facendo soffrire altre persone non può apportare felicità neanche verso sé stessi, resta solo una illusione.

Nelle tue "speculazioni", parli di scissione tra spirito e materia, di prevaricazione della natura, come elementi che caratterizzano l'uomo occidentale. Pensi ci sia una forma di “governo” che più delle altre potrebbe invertire questo trend?

Credo che nessuna forma di governo sarà incisiva se non preceduta da una forte azione spirituale e culturale. Credo che la sola possibilità per cambiare effettivamente la realtà delle cose sia quella di partire da noi stessi, dal mettere in discussione le nostre convinzione e trasformare il nostro stato vitale. In parallelo a ciò è fondamentale che ogni persona si senta responsabile e coinvolto nella società di cui è parte, che si interessi e partecipi alla vita politica in modo attivo, a partire dalle piccole azioni quotidiane, perché la politica non sia affidata ad esperti ma alle perone comuni.

Se ci fai caso, ormai anche la religione sta divenendo velatamente idolatra della tecnica. Basti pensare alle tecniche mediche per tenere in vita artificialmente, delle quali la Chiesa è fautrice. Come vedi questa evoluzione?[MORE]

La tecnologia, come la scienza, ovvero la razionalità umana, è limitata e lo sarà sempre, nonostante faccia e continui a fare passi in avanti. Non per questo dobbiamo smettere di studiare e approfondire, anzi, ciò però deve essere fatto nella sincera consapevolezza che la vita nella sua semplicità e complessità è qualcosa che trascende la razionalità umana. Per quanto riguarda in particolare la scienza riferita alla medicina, all’accanimento terapeutico e all’eutanasia c’è un punto fondamentale che oggi non è preso in considerazione: la morte. L’uomo dopo aver soggiogato la natura ai suoi voleri, ora vuole anche sconfiggere la morte. In questo voler giocare a fare Dio, l’uomo rivela invece tutta la sua fragilità nel non voler accettare un principio tanto banale e evidente come quello dell’impermanenza, della caducità della vita. Finché non riusciamo a fare nostro questo principio interiorizzandolo e percependo la morte come una cosa del tutto naturale, dalla quale non rifuggire, ma con la quale cominciare a fraternizzare già da piccoli, allora potremo veramente godere di tutta la nostra vita corta o lunga che sia.
Perciò la scelta della propria cura, dell’aborto, diventano scelte sicuramente non facili, ma in cui è la persona che consapevole e responsabile prende la miglior decisione per se stessa.

L'intelligenza diviene sempre più parcellare, specialistica, riduzionista. Come riesci a mantenere un tipo di intelligenza “trasversale” e d'insieme, cosa che traspare a mio avviso dai tuoi scritti?

Sicuramente le filosofie orientali aiutano in questo scopo, nel mantenere una “intelligenza trasversale”, dato che in oriente il concetto di separazione non esiste e tutto è visto in relazione con il resto. Ogni volta che isoliamo un elemento per analizzarlo meglio, non dobbiamo dimenticarci del suo contesto, e soprattutto dobbiamo essere consapevoli di stare facendo drastiche semplificazioni. Così come quando si applica la meccanica newtoniana sappiamo che quelle leggi e quei principi valgono solo sotto certi presupposti, sotto certe ipotesi di partenza che circoscrivono e semplificano la realtà, la quale non è riducibile.
Inoltre mantenere e coltivare il proprio spirito di ricerca, la propria curiosità innata, quella che hanno i neonati nell’osservarsi attorno, permette di “percepire” il mondo utilizzando altri “sensi”, oltre ai cinque conosciuti.

A tuo avviso potranno mai essere formalmente riconosciuti dei diritti della natura in chiave autonoma, non necessariamente legata alle esigenze antropocentriche dell' uomo?

Secondo me non ha molto senso, il salto da fare è molto più profondo: quello di concepire la natura come strettamente connessa, come se quello che ci sta attorno e noi stessi fossimo due cose distinte solo nell’apparenza, a quel punto non ci sarà più bisogno di garantire diritti alla natura. Questo concetto sta ala base del superare l’illusione che possa esistere qualcosa di esterno a noi: perciò non avrà più senso dire “salviamo il pianeta”, come se volessimo fare un atto di cortesia verso qualcuno, e quindi lo faremo solo se saremo in condizioni di farlo, perché prima di tutto dobbiamo pensare a noi e poi agli “altri”.
Detto questo, riconoscere formalmente dei diritti alla natura, di cui molti già parlano, sarebbe comunque già un bel passo in avanti, visto che fino ad ora la natura è considerata una risorsa da sfruttare a nostro piacimento e non un essere vivente.

Mi sembra che tu abbia un atteggiamento di sospetto verso termini quali “bio”, “green”, “ecocompatibile”. Puoi spiegare quali sono in particolare i tuoi timori?

Il sospetto che dietro a degli slogan che vanno sempre più in voga si nasconda un marketing spietato che guarda solo al profitto, ma soprattutto che il solito “sistema” adopri l’onda del “cambiamento” per mascherarsi di “green”, di “bio”, per tentare di sopravvivere alla sua altrimenti ineluttabile estinzione.
Ad ogni modo, questi termini fanno riferimento alla cosiddetta ecologia di superficie, ovvero il difendere la natura attraverso accortezze tecniche, che è assolutamente auspicabile e necessaria, ma non sarà sufficiente a trasformare l’attuale situazione di crisi degenerativa, in quanto abbiamo bisogno di un cambiamento molto più profondo, a cui viene appunto dato il nome di ecologia profonda.

Hai vissuto diverso tempo all'estero e credo che tu sia una persona che viaggia abbastanza, Qual è la tua “ricetta” per rimanere “viaggiatore” senza sconfinare nel “turista” invasivo dell'ambiente circostante?

Questo è un aspetto che mi piace evidenziare. Il turismo consumistico, del viaggio scappa e fuggi, delle foto fatte di fretta a un monumento per poi mostrarle agli amici, non l’ho mai capito. E credo che anche il turismo, come tutti gli aspetti della vita, sarà completamente stravolto in un futuro prossimo. Nella mia esperienza di viaggi mi sono sempre ritenuto un “esploratore” e mai un turista. Ogni viaggio che ho intrapreso era fatto di persone, di storie, di curiosità, di conoscenza, di sensazioni, di emozioni: queste sono penso gli elementi essenziali di un viaggio.
Assaporare un luogo anche solo per poco tempo, e soprattutto viverlo attraverso le persone che lo hanno vissuto. Le relazioni sono al centro di un nuovo tipo di turismo, uno slow tourism forse, in cui relazionarsi con le persone piuttosto che con i monumenti, conoscere e approfondire i particolari di una cultura diversa, di una lingua diversa, di una diversa storia. Così come le relazioni con il paesaggio e la natura, come fossero anche loro individui con i quali rapportarsi e non sfondi inanimati.
Il turismo predatorio oggi diffuso non ha niente a che fare con le relazioni, piuttosto con il consumo e il profitto, perciò un mondo diverso di viaggiare sarà sicuramente più lento, meno impattante e più umano.

Cosa pensi del successo che stanno ottenendo negli ultimi tempi viaggi in bicicletta o addirittura a piedi? Solo effetti della crisi economica o anche il sintomo di una maggiore sensibilità verso il “circostante”?

Credo che si tratti per lo più di una moda, certamente una moda sana e da favorire, soprattutto se fatta con consapevolezza. Ovvio che se per fare una passeggiata nel bosco si percorrono migliaia di chilometri con voli low cost, quando non siamo mai stati nel boschetto vicino casa nostra, la cosa , a mio avviso, perde valore. Personalmente mi premono più gli spostamenti giornalieri. Credo che, quantomeno nelle aree densamente popolate, sia possibile coprire distanze medio-brevi a piedi, in bici, in risho, e i mezzi pubblici e il noleggio di mezzi possano provvedere al resto degli spostamenti, senza bisogno di possedere necessariamente una o più auto per famiglia.

Raffaele Basile