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Intervista a Gabriele Mainetti: "Lo chiamavano Jeeg Robot, un supereroe tutto nostro"
Lo chiavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti: il regista racconta ad Antonio Maiorino e Stefania Cavotta la creazione di un supereroe nel cinema italiano, tra follia, difficoltà produttive ed invenzione. Al di là dei generi, per il piacere di raccontare storie. E gli Stati Uniti applaudono...
A.M: Lo chiamavano Jeeg Robot, nelle sale dal 25 febbraio: un prodotto al quale il cinema italiano non è abituato, ma non è nemmeno del tutto estraneo, ed un film a cui arrivi dopo i cortometraggi Basette e Tiger Boy. Come ti sei mosso per realizzare questo film di supereroi in Italia?
Insieme a Nicola Guaglianone, che ha scritto i soggetti e le sceneggiature dei cortometraggi precedenti ed ha scritto il soggetto di Lo chiamavano Jeeg Robot e la sceneggiatura insieme a Menotti, sono andato alla ricerca del produttore sensibile... e non l’ho incontrato. Alla fine ho capito che dovevo fare come con i cortometraggi, cioè produrmelo da solo. Raicinema mi ha dato la spinta iniziale, dandomi dei soldi per scriverne la sceneggiatura e da lì è partita l’avventura produttiva, la ricerca dei fondi. Alla fine l’ho fatto, ma eravamo sempre in bilico: fortunatamente è entrata poi la Lucky Red. Il tempo è sembrato infinito, ammonta quasi a sei anni, perché l’idea risale a settembre 2010. E poi eccoci qua. Il film è stato accolto in modo trasversale con mia grande sorpresa, perché pensavo che il target fosse non dico ristretto, ma definito. Non è solo per geekers: il film entusiasma ed emoziona, gasa, ti fa piangere, ti fa molto ridere. È una bella vittoria per ora.
S.C: Anche perché, diciamola tutta, questa Marvel ci ha un po’ stancato...
Ci hanno lobotomizzato con un certo filone di supercomics e noi abbiamo cercato di trovare la nostra dimensione perché il genere supereroistico non ci appartiene, inutile nasconderlo: ma perché non portarlo in un contesto italiano e vedere come funziona? il complimento più bello che mi è stato fatto è quello degli amanti del genere quando mi hanno detto “non assomiglia niente, ma ha una natura completamente italiana". Eppure non è minore rispetto a quanto fatto dagli americani a livello di storia, non ovviamente di messinscena, perché lì non possiamo metterci a confronto.
A.M: Il cinema di genere italiano si può nutrire di suggestioni americane ed in generale straniere, e nel caso ti chiediamo se ne hai avute, e quali. Ma non può essere anche il contrario, poi? Cioè, che questo cinema diventi di esportazione?
La cosa più bella è che Il film è stato perfino comprato negli Stati Uniti, ci hanno già chiamato per il remake… mo’ vediamo. Mi fa piacere che il film sia stato capito: loro hanno delle regole ben precise e definite che noi abbiamo trasgredito per farne un prodotto tutto nostro, ma è stato apprezzato e comprato per primo negli USA. Spero che li film possa godere di una frequentazione nelle sale giusta, per allargare l’espressione cinematografica e non vincolarla solo a quella che conosciamo come commedia o più infelice autorialità. Ora ci sono esempi di genere, più nella televisione, poi sfociati nel cinema, ma mi piacerebbe che il cinema fosse il racconto di una storia, ed il genere viene scelto in base all’appropriatezza alla storia. Il codice deve quindi cambiare, altrimenti sarebbe faticoso e frustrante per chi fa questo lavoro.
A.M: Per convincere gli attori, e a volte il pubblico, c’è bisogno anche in questo genere di una sceneggiatura efficace… ma poi serve che gli attori siano a loro volta convincenti. Ci parli dei personaggi e del casting di Lo chiamavano Jeeg Robot?
I personaggi sono meravigliosi perché la sceneggiatura di Menotti e Guaglianone è stato un grandissimo lavoro di scrittura. C'è un triangolo con personaggi che dialogano continuamente tra di loro. C’è il personaggio interpretato da Santamaria, Enzo Ceccotti, un ombroso chiuso in se stesso a cui la vita ha tolto tutto, e quindi si è corazzato (anche fisicamente: con una corazza di 20 kg!), per proteggersi da una vita che lo spaventa. Succede che l’unico modo per andare avanti diventa mangiare degli yogurt e guardare film porno. Dall’altra parte c’è la ragazza che vive sotto casa sua (Ilenia Pastorelli, n.d.r.), che pure ha avuto una vita molto dura e si è rintanata in un mondo cartonato: vive questa dissociazione in cui pensa che il mondo sia popolato da personaggi di Jeeg Robot. Quando quello sopra casa sua acquista superpoteri, scatta l’elemento da grillo parlante: il suo scopo è far capire a questo tizio che, visto che non ha mai eccelso nel mondo del crimine, è una persona buona che deve usare i poteri a vantaggio delle persone in pericolo.
C’è poi uno strepitoso Luca Marinelli che interpreta il villain, il cattivo, che abbiamo chiamato lo Zingaro, che vive del bisogno di mettersi in vetrina, una problematica molto contemporanea. è molto amato perchè le persone ci si rivedono: al contrario di Enzo Ceccotti che si vuole nascondere ed odia la gente, lui esiste solo se gli altri lo vedono, è sensibile alle visualizzazioni su Youtube, su Facebook, guarda costantemente i telegiornali. Tutto questo perché quando aveva vent’anni aveva partecipato ad un talent show a Buona domenica interpretando una canzone, non era riuscito in questa carriera d’interprete musicale e quindi vuole diventare il più grande criminale di Roma. Tutto è un po’ folle perché vibra di questo bisogno che gli altri gli riconoscano l’identità che di fatto gli manca. [MORE]
S.C: So che Luca Marinelli si deve misurare con una canzone particolare…
Sì, Un’emozione da poco di Anna Oxa!
S.C: Ecco: perché Anna Oxa? E come si è preparato Marinelli?
Ci abbiamo lavorato tanto, ma comunque è una decisione che abbiamo preso insieme: ci sembrava la follia giusta. Anna Oxa aveva poco più di 16 anni quando si esibì a Sanremo e per me era una sorta di David Bowie italiano per come si truccava. Luca è bellissimo, un talento incredibile. Mi ha veramente spiazzato come attore, nonostante il lavoro di prove, preparazioni, improvvisazioni, anche abbastanza lungo, quando è iniziato il set aggiungeva quotidianamente e mi diceva “Ma Gabriè, nun me dici niente?”, ed io gli dicevo “e che te devo dì, tutto quello che fai bellissimo!”.
S.C: Sappiamo che in realtà è un po’ timido, introverso…
È una persona timidissima, molto riservata, tanto è vero che vive a Berlino perché fatica a vivere in Italia. Lì ha trovato l’amore, poi vivere costa la metà che in Italia. Riesce a sopravvivere abbastanza bene. Però qui è stravolto. Poi pensa che il film l’abbiamo girato un anno prima di Non essere cattivo, non l’avevo mai visto in quel modo e sono entusiasta di quanto uno possa cambiare: queste cose mi elettrizzano da attore, visto che ho lavorato tanto da attore. Queste trasformazioni sono meravigliose: non c’è cosa peggiore di prendere un attore che fa la sua vita in un film che fa qualcosa di diverso, perché ti cannibalizza il prodotto.
A.M: Altre follie in cantiere? Progetti venturi?
Ce ne abbiamo, ce ne abbiamo. Se il film riscuoterà un successo sperato, ci darà la possibilità di girare Continuavano a chiamarlo Jeeg Robot. Ma ci sono anche altri progetti che usano un certo tipo di genere cinematografico per provare a raccontare una storia. in questo caso il film racconta un viaggio d’identità attraverso una storia d’amore: alla fine il film è questo, non è altro che questo.
(FONTE: intervista radiofonica di Antonio Maiorino e Stefania Cavotta nel programma Drivetime di Radio Base; FOTO: immagine principale, dettaglio d'immagine promozionale del film; all'interno, Luca Marinelli in un fotogramma del film)
Antonio Maiorino