Cronaca

Immergersi nel mare. Intervista a Giuseppe Baldessarro

Reggio Calabria, 13 settembre 2012 – Giuseppe Baldessarro è un cronista che svolge il suo lavoro in Calabria, terra di ‘Ndrangheta, organizzazione criminale insita nell’ambito economico, finanziario, sociale, politico e lavorativo. Il giornalismo è rendere noto ciò che si vorrebbe nascondere, è cronaca dei fatti nella loro interezza.

Quando e perché nasce l’interesse per la criminalità organizzata? L’interesse per la criminalità organizzata nasce nel momento stesso in cui nasce l’interesse per il giornalismo. Credo che le due cose siano legate tra di loro. Non si può fare questo mestiere in Calabria senza conoscere il fenomeno criminale che permea tutti gli aspetti della vita. Sarebbe come occuparsi del mare senza saper nuotare. Una cosa è raccontarlo dalla riva, altro è immergersi in esso per conoscerne le profondità.

L’interesse per il giornalismo? L’interesse per il giornalismo è nato durante il periodo universitario. Da rappresentate degli studenti avevo notato che molte scelte discutibili non diventavano mai pubbliche. Così ho iniziato a scriverne io su un giornale realizzato da noi studenti. Con la nascita del Quotidiano, 15 anni fa, ho continuato a fare questo lavoro su un vero e proprio giornale. All’epoca mi occupavo di cronaca bianca.

Cos’è, secondo te, il giornalismo? Il giornalismo è cronaca. E’ raccontare i fatti nella loro interezza alla nonna, alla massaia, agli operai, ai ragazzi. E’ rendere pubblico ciò che il potere, o i poteri, preferirebbero nascondere. Il giornalismo è mettere assieme i fatti per farli diventare storia.

Cosa significa fare il giornalista in una terra come quella calabrese? La stessa cosa che farlo a Milano, Roma, nella provincia siciliana o emiliana, in Africa o in Finlandia. Il giornalismo non cambia a seconda di dove lo fai, ma di come lo fai.

In Italia, esiste ancora la libera informazione sulla criminalità organizzata? Esiste nella misura in cui non si intreccia con il racconto di altri poteri. Quando parli di criminalità e politica, di criminalità ed economia, l’informazione deve fare i conti con interessi a cui non piace essere tirati in ballo. In quel caso diventa complesso e spesso difficile.

Le mafie italiane sono intrecciate fortemente con il potere, diventando parte integrante del sistema, perché?Perché le mafie sono a loro volta un potere. E come tutti i poteri tentano di farsi largo per non avere bisogno di altri poteri. Ad esempio, un tempo le mafie chiedevano favori alla politica, ora hanno scoperto che è più facile farla la politica. E questo vale anche per l’economia e per le istituzioni in generale.

Sei protagonista, insieme ad altri cronisti calabresi, di “Avamposto” di Roberta Mani e Roberto Rossi. Perché la Calabria è ai primi posti per le minacce nei confronti dei giornalisti rispetto alle altre regioni minate dalla mafia? Non fanno altro che il loro lavoro ma vengono chiamati “infami”. In Calabria si viene minacciati perché la Calabria non era abituata ad avere giornalisti e giornalismo libero. Fino a una quindicina di anni fa in Calabria c’era un solo giornale (la Gazzetta del Sud) e poche televisioni locali. Ora invece deve fare i conti con tanti organi di informazione e con una nuova classe di giornalisti che in alcuni casi, ma solo in alcuni, sono indipendenti e conoscono bene il mestiere. Oggi circolano più notizie e informazioni e il “sistema” non era abituato, per questo reagisce minacciando e cercando di colpire i giornalisti.

Hai ricevuto minacce. Come si sono concretizzate queste minacce e perché, secondo te, hanno deciso di “colpire” proprio te?

Non parlo delle minacce ricevute. Se iniziamo a parlare di me (o di altri singoli giornalisti) non parliamo delle cose che scrivo. Paradossalmente divento io notizia e non più le mie inchieste. Io credo che al centro della nostra professione debba restare sempre il nostro lavoro e non noi stessi. Se iniziassimo a parlare di me, non parlando più delle notizie, le minacce avrebbero avuto efficacia. Una volta un mafioso mi ha spiegato che per eliminare un giornalista esistono tre modi. Il primo è sopprimerlo, il secondo è corromperlo, il terzo è minacciarlo per portarlo a parlare delle minacce e non più delle cose che scrive. Insomma lo si fa diventare notizia per evitare che siano notizia le cose che scrive. Quando il giornalismo diventa un'altra cosa, che è poi l’obiettivo della minaccia, le mafie hanno vinto.

Un cronista minacciato è spesso vittima d’isolamento e solitudine. Ti sei mai trovato in questa situazione? Come dovrebbero comportarsi l’Ordine e il sindacato? Certo che mi sono trovato isolato. L’isolamento è una condizione ed a volte persino una scelta. Sei isolato dagli altri che prendono le distanze da te. Ma a volte è necessario che tu stesso ti isoli evitando di frequentare contesti inquinati o potenzialmente inquinati. Fa parte del mestiere insomma. Non so come dovrebbero comportarsi Ordine e sindacato, ma credo che quello che fanno a difesa della categoria e della libertà di stampa sia largamente insufficiente.

La Legge Bavaglio, fortemente voluta dal PDL, impone il divieto di pubblicare le intercettazioni prima della fine del processo, cosa pensi a riguardo? In questi termini è una porcata. I Processi durano anni, mentre l’opinione pubblica ha bisogno di sapere immediatamente. Io renderei pubblico tutto subito. Chi non ha nulla da nascondere non ha neppure nulla da temere. Il problema è che in tanti hanno da nascondere mille nefandezze.

Cosa ne pensi delle intercettazioni tra Mancino e Napolitano? Chi non ha nulla da nascondere non ha neppure nulla da temere. Come ho appena detto, io renderei pubblico tutto.

Il magistrato Antonio Ingroia è stato ufficialmente "promosso" all'Onu e va, tra qualche settimana, in Guatemala per un anno perché non ce la fa più ad essere bersagliato dalle critiche della politica. E' chiaro a molti che è un modo per toglierlo dalla Procura di Palermo e, conseguentemente, dalle indagini sulle stragi. Cosa pensi a riguardo? Ho incontrato Ingroia a fine luglio e di una cosa sono certo perché mi è stata confermata da lui: in Guatemala ci va di sua spontanea volontà, nessuno lo ha voluto allontanare dai processi. Ingroia fa questa scelta perché ritiene che le inchieste non vanno personalizzate. Sono convinto che ha ragione e credo che andando via per un anno faccia bene. Le inchieste andranno avanti o meno a prescindere dalla presenza di Ingroia.

Il Fatto Quotidiano ha aperto una vera e propria campagna per rompere l’accerchiamento dei pm siciliani che cercano la verità sulla trattativa stato – mafia”. Hai aderito? Ritieni sia importante aderire?

Condivido il senso del’iniziativa, ma non ho aderito. Io faccio un altro mestiere e non mi piace che si faccia confusione. Sono un cronista e come tale racconto i fatti. Da semplice cittadino o facendo un altro mestiere aderirei certamente, da giornalista mi tengo stretta la mia indipendenza.

Antonio Ingroia afferma:“ c’è un momento in cui è necessario che le vicende vengano spersonalizzate. Non si tratta di fare un passo in dietro, ma di fare un passo di lato. C'è un momento in cui i cittadini devono capire che la ricerca della giustizia e della verità non può essere solo delegata alla magistratura, o a pochi altri. Ognuno è chiamato a fare la propria parte. La mia decisione di fare l'esperienza in Guatemala è legata anche a questa mia convinzione”. Tu cosa pensi?

Ero presente quando lo ha detto e penso che abbia perfettamente ragione.[MORE]

Giulia Farneti