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Imaculat, quel chiaro oggetto del desiderio. Intervista al "Leone del Futuro" Monica Stan

Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Imaculat di Monica Stan e George Chipper-Lillemark: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.

Per vincere alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia e conseguire, per di più, il Leone del futuro - "Luigi de Laurentiis" come miglior opera prima, il prerequisito di Imaculat doveva essere quello di avere un’identità autoriale forte – o almeno di prometterla. Monica Stan, prima di tutto, di forte aveva una storia da raccontare. O a cui ispirarsi. Con una formazione in psicologia, al debutto in co-regia col più esperto George Chipper-Lillemark, l’autrice rumena scrive una sceneggiatura che muove da un’intensa esperienza dei propri diciotto anni. Chiusa in un centro di riabilitazione per le tossicodipendenze, divenne l’oggetto delle attenzioni dei pazienti, avvertendo la lusinga della propria forza d’attrazione: nell’ambiente borghese di estrazione, diversamente, appariva come la pecora nera, quella corrotta. 

Nel bianco asettico di pareti e camici, non si sa quanto immacolato, Ana Dumitrașcu incarna il personaggio di Daria, in parte ricalcato sulla stessa co-regista: attrae, blandisce, desidera, respinge, accetta. Mentre cerca di mettersi in contatto col compagno in carcere – proprio l’uomo che l’ha iniziata alla droga – in clinica le ronzano attorno, la scrutano, la cercano, l’accarezzano, la solleticano, l’abbracciano. Lei, con uno stupore candido e disorientato, ricambia ma non troppo. Meglio, in fondo, cercare di non sedurre: i sedotti e abbandonati possono diventare riottosi. 


LA TRAMA DI IMACULAT


Quando il suo uomo viene rinchiuso in prigione, Daria decide di andarsi a chiudere in un centro di riabilitazione per le dipendenze. Era stato proprio il compagno a iniziarla all’eroina. Ma c’è anche un’altra dipendenza: quella dal cellulare, che Daria vorrebbe tenere, contrariamente alle regole dell’istituto, per restare in contatto col suo compagno. È così che conosce Spartac, robusto e ambiguo protettore che le può procurare il dispositivo, e che in cambio cerca un avvicinamento emotivo. Come tutti, d’altronde. Perché Daria diventa presto il centro dell'attenzione del gruppo. Molto affetto, ma anche un leggero senso di soffocamento. Che lei stessa non sa se desiderare o temere. 


PERCHÉ INNAMORARSI DI IMACULAT

Imaculat di Monica Stan e George Chipper-Lillemark costruisce una gabbia ovattata non solo attorno alla protagonista Daria, ma anche allo spettatore, costituendo il racconto come un’esperienza fisica, emotiva, psicologica. È un flusso di energie di cui Daria è il centro, ma anche la variabile impazzita, in una dinamica ambigua e coinvolgente da cui farsi trascinare o da osservare con distacco nel bianco diffuso della fotografia, tra corpi e anime che non è chiaro se siano immacolate o nere.  

 

L’INTERVISTA: MONICA STAN RACCONTA IMACULAT

ANTONIO MAIORINO: nel film confluisce una tua esperienza personale di diversi anni fa. Mi chiedevo allora se per il personaggio di Daria, interpretato da Ana Dumitrașcu, avessi cercato volutamente un’attrice che potesse assomigliarti, o che invece conferisse un certo scarto, una differenza al tuo personaggio.

MONICA STAN: non definirei il film una storia autobiografica. Si è solo ispirato alla mia esperienza. Questo è stato lo spunto iniziale e la motivazione che mi ha dato lo slancio, ma poi ho lavorato sui personaggi per "fictionalizzarli". Non è tutto esattamente fedele alla mia esperienza dal punto di vista della narrazione, ma lo è nel senso profondo. Durante il casting, non cercavo un’attrice che mi assomigliasse, ma che al più avesse alcuni attributi che mi connotavano durante la giovinezza: una certa passività, una tendenza ad accettare molto pur di compiacere la gente. Ma non cercavo solo questo. Volevo anche vedere cosa sapesse apportare un’attrice secondo un proprio contributo personale. Ana ha saputo metterci molto del suo, trasformando il personaggio e adattandolo a sé stessa. Penso che sia fantastico che sia rimasta aperta senza chiudersi in quel tipo di personaggio.


A.M: è impressionante come i primi 12 minuti visivamente segnino la centralità di Daria, ma anche una solitudine assoluta. È di fatto l’unico personaggio. Gli altri sono voci off oppure, come nel caso dell’assistente, della sagome fuori fuoco. Perché questa scelta così forte in apertura del film?

M.S.: non era del tutto pianificato, è scaturito durante il montaggio a livello di scelte. Daria si trova in uno strano ambiente e non ha l’immagine chiara di cosa le stia succedendo. Volevo essere con lei in questa sensazione simile a una forma di claustrofobia e trasmettere la medesima confusione allo spettatore.


A.M: a proposito di claustrofobia, si può dire che Imaculat sia un film "senza il fuori"? Il mondo che vediamo è come richiuso su sé stesso.

M.S: sì, lo è. Nella sceneggiatura, in realtà, c’erano parti all’esterno all’inizio e alla fine, ma poi sia io che George abbiamo pensato di eliminarle. Doveva essere più importante quanto accadeva all’interno. Questo non vuol dire che certi comportamenti non si ripetano anche all’esterno, ma a noi interessava uno spazio chiuso per meglio studiare la formazione delle potenti dinamiche che esplodono tra persone obbligate a interagire. In questo contesto claustrofobico, tali dinamiche sono più forti e la sensazione prevalente è quella di sentirsi in trappola. 


A.M: i movimenti della macchina da presa appaiono decisamente funzionali a catturare queste sensazioni: la macchina da presa si muove a distanza ravvicinata da Daria, con campi stretti. Tuttavia la prossimità fisica di un'inquadratura non sempre comporta un’autentica comprensione dell’animo del personaggio. Pensi che la distanza ravvicinata della macchina da presa a Daria valga a rivelarne i pensieri più reconditi, o che piuttosto, paradossalmente, la ragazza resti per larghi tratti un enigma per lo spettatore?

M.S: penso che Daria sia un enigma e che il film in generale non voglia indirizzare lo spettatore in una direzione ben determinata. Credo molto nell’immaginazione dello spettatore ed è importante ciò che il pubblico proietta sul film: le proprie storie, il proprio bagaglio di esperienze, le proprie memorie. Voglio dare la libertà agli spettatori di trovare un proprio significato. Non volevo profilare chiaramente il personaggio e renderlo più facilmente decifrabile. Daria è giovane e non sempre consapevole delle proprie emozioni. Reagisce a quello che le accade intorno senza essere pienamente capace di capire cosa stia succedendo, cosa voglia, come possa ottenerlo. È in una sorta di modalità di sopravvivenza.


A.M: entro tale modalità di sopravvivenza, ci sono dei momenti che potremmo pensare di abbassamento delle difese da parte di Daria, ossia quello dei giochi. Sono scene reiterate, nel film, e in realtà appaiono il contrario di come ci s’immaginerebbe: inquietanti, ambigue, disturbanti. Che valore drammatico hai pensato per tali sequenze di gioco?

M.S: quello dei giochi è un aspetto di fatto molto importante perché, a parte Daria quale personaggio principale, per me contava soprattutto il gruppo. Volevo esplorarne le dinamiche, più che raccontare la mia storia, e mostrare come esse potessero diventare tossiche e patologiche, opprimendo l’individuo e finendo per risultare pericolose e degradanti. Lo sappiamo tutti. All’interno dei gruppi ci sono gerarchie, giochi che diventano cattivi o offensivi. Queste relazioni di potere che si formano nel gruppo in apparenza sono belle all’inizio, ma poi diventano estremamente sgradevoli.


A.M: c’è una progressività nel disvelarsi di questo lato “sgradevole”. Penso si manifesti soprattutto col personaggio di Spartac, che protegge Daria con una dolcezza possessiva. Due scene su tutte, nella seconda parte, sono quella in cui la ingozza di cioccolata e quella in cui, di notte, il suo abbraccio diventa quasi una morsa, una gabbia. Si può dire che la prima parte sia giocata sull’ambiguità del gruppo, mentre nella seconda gli atteggiamenti diventino più espliciti e aggressivi? Costea, inviato - pare - dal ragazzo di Daria in clinica per metterli in contatto, definisce gli altri come delle "iene".

M.S: non volevo giudicare i personaggi in alcun modo, ma piuttosto mostrare come ognuno di loro fosse capace di entrambe le cose: essere divino o diabolico. Ognuno di loro reagisce in base a come si posiziona Daria nei loro confronti. Quando sentono che Daria soddisfa le loro aspettative, sono carini con lei; quando sentono che non lo, le si rivoltano contro. È una dinamica osservabile in tutti i personaggi. Nel caso di Spartac, nutre una protezione possessiva nei suoi confronti, ma è anche egoista e vuole qualcosa da lei. Quando sente che la sta perdendo, il suo lato possessivo si fa più forte e si vede l’altro lato della medaglia: non più quello buono, bensì quello pericoloso.


Daria e Spartac abbracciati a letto, forse troppo


A.M: nella tua capacità di approfondire drammaticamente le dinamiche di gruppo, quanto ha contato la tua esperienza in psicologia? C’è un collegamento tra questi due campi in cui pratichi, psicologia e cinema?

M.S: esiste senza dubbio una connessione. Penso che quello che mi ha spinto a scrivere mi abbia portato anche verso la psicologia. È qualcosa che è dentro di me. L’esperienza narrata nel film è venuta prima che studiassi psicologia, dopodiché l’osservazione dei gruppi è giunta per me come una rivelazione, perché già da tempo soffrivo all’interno dei gruppi o mi trovavo a disagio. Così, quando ho potuto studiare psicologia, ho cominciato a capire meglio i meccanismi dei gruppi. Allorché, però, ho scritto il film, l’ho fatto in maniera naturale, automatica: è qualcosa che è sgorgato dalla mia esperienza e non dai miei studi.


A.M: eppure questo gruppo non può essere come tutti gli altri, deve avere le proprie peculiarità. Quella caratterizzante sembrerebbe data dal fatto che sia un gruppo di persone che stanno cercando di superare le rispettive dipendenze. Questo aspetto può esasperare e rendere più specifici alcuni tratti del gruppo?

M.S: potrebbe e lo fa, fino a un certo punto, ma non direi troppo. Ho visto queste dinamiche anche in altri tipi di gruppo: scuole, università, workshop. Ci sono come elementi essenziali che si ripetono le dinamiche di forza e le gerarchie, che influenzano la tua identità e ti portano ad aderire all’immagine che gli altri hanno di te. Quindi non direi che la dipendenza sia un fattore così decisivo. Una differenza può essere che ci sia più emotività e vulnerabilità. Sì, le emozioni tendono ad esasperarsi di più, ma continuo a pensare che questo resti un tratto generale e universale dei gruppi.



A.M: Daria e il gruppo, il gruppo e Daria. C’è una porzione clamorosa nella prima parte del film in cui la macchina da presa esclude spesso visi e campi più lunghi per riprendere a distanza ravvicinata gesti di contatto e avvicinamento: mani che si cercano, abbracci, corpi che s’intrecciano. Quanto è stato funzionale raccontare di questo approccio fisico anche attraverso precise scelte d’inquadratura?

M.S: questa è una parte importante per noi perché in qualche modo simboleggia il bisogno di connessione che ognuno di noi manifesta, ma che risulta, in particolare, un aspetto di base nella formazione di gruppi e relazioni. Anche se le cose degenerano, tutto presenta alla base un bisogno di connessione. Sono persone sole, il cui desiderio di stringere un rapporto è genuino. Ecco perché non ho voluto demonizzarli né giudicarli. Questo bisogno di connessione può dirigersi verso cose buone o cattive, verso l’amore vero, ma anche verso situazioni di abuso, se non viene soddisfatto. Quando Daria non ricambia in pieno, il desiderio muta in qualcosa di diverso. In tal senso, volevamo che la macchina da presa fosse molto vicino ai personaggi per catturare gesti che dicono così tanto delle persone, piuttosto che mettere tutto in parole o dialoghi.


A.M: ho notato uno scambio in cui c’è una sovrapposizione delle voci tra Daria e Spartac. In genere episodi del genere vengono esclusi dal film in fase di montaggio. Averlo mantenuto mi ha dato una sensazione realistica, ma soprattutto mi ha portato a interrogarmi sul rapporto tra sceneggiatura e recitazione. Ai tuoi attori hai dato battute ben precise, oppure l’idea generale della scena, da affidare poi alla loro capacità d’improvvisazione?

M.S: volevo dare più libertà possibile agli attori e allo stesso tempo restare fedele alle intenzioni e al sentimento della scena. Ho anche cercato di cambiare le cose con gli interpreti stessi, mantenerli vivi, dar loro qualcosa di diverso, far sì che le riprese non risultassero ripetitive per loro. Ci sono stati momenti in cui le riprese sono andate in altra direzione rispetto a quanto previsto, e ne sono rimasta sorpresa. Ma amo essere sorpresa. In alcuni casi ho avuto più di un’idea, così abbiamo provato diverse soluzioni, per poi scegliere tra le diverse opzioni al montaggio. In alcuni momenti ho preferito scene più allegre, in altri segmenti toni più aggressivi. Alla fine, sono felice di aver saputo dare ai miei attori tanta libertà.


A.M: al di là dell’aspetto realistico che potrebbe essere generato dall’approccio fisico della macchina da presa e dalla vicinanza ai personaggi, Imaculat appare calibrato piuttosto sulla sensazione per certi versi opposta: di forte artisticità, di cura formale e fotografica. Questa, forse, sarebbe stata la domanda perfetta per George Chipper-Lillemark, co-regista e direttore della fotografia. Nell’ambiente del centro di riabilitazione, sembra quasi che ci sia un godimento “artistico” nello sfruttare pareti bianche, camici bianchi. Un contesto di whiteness, di biancore totale. Si può dire che sia un aspetto studiato?

M.S: moltissimo. Non eravamo interessati tanto all’aspetto realistico dell’ambiente. Non volevamo mostrare una clinica di riabilitazione, ma quello che succede tra i personaggi. Volevamo far spiccare le persone. Erano importanti le facce e i corpi, nient’altro. L’ambiente doveva supportare i visi di queste persone, perciò non volevo soffermarmi su dettagli che potessero distrarre da questi lineamenti e gesti così potenti. Quando abbiamo parlato con George, abbiamo sentito di voler andare in questa direzione di pulizia fotografica assoluta e non del realismo dello scenario. La storia doveva essere centrata sulle persone.


Daria e Costea


A.M: alle Giornate degli Autori di Venezia78, dove Imaculat ha vinto, hai dichiarato che la tua esperienza alla base del film fosse stata "un’esperienza di apprendimento". Cos’hai appreso tu e, per riflesso, cosa impara Daria alla fine del film?

M.S: direi che questa è una risposta a cui è difficile rispondere. Perché è un’esperienza di apprendimento nel senso che ti trasforma, ti rende più consapevole. Non è come qualcosa che impari a scuola e puoi chiaramente definire. È un processo di tipo olistico che ti fa diventare una persona diversa con un grado superiore di consapevolezza rispetto a quanto succede intorno, così che di fronte alla medesima situazione, la volta successiva, la reazione sarà diversa. Ho imparato molto sulle relazioni e i meccanismi che li regolano, e quanto tu sia responsabile nel crearli. Anche se c’è qualche forma di abuso, ho imparato come fossi responsabile anche io nel consentirlo e nel mio modo di essere. Ho imparato molto sulle dinamiche di gruppo e sul fatto che ci sia all’inizio qualcosa di molto seducente, ma dopo in realtà un prezzo da pagare molto altro. C’è uno scambio tra te e gli altri, sempre. Penso che Daria impari queste cose, ma che per lei sia solo l’inizio, l’inizio di una trasformazione nel senso della consapevolezza.


A.M: chiudo con una domanda da amante del cinema, più che da critico. Ed è una domanda che contiene uno SPOILER – ne avvisiamo i nostri lettori – perché si riferisce a una sequenza post-credits, o meglio, proprio durante i titoli di coda. Volevo semplicemente chiederti di cosa si trattasse: vediamo Daria ballare in una discoteca o a una festa, ma ci sono delle scelte visive che tendono a seminare una certa sensazione di disagio piuttosto che di spensieratezza.

M.S: dimmi tu come l’hai interpretato! (sorride, e le rispondo esprimendole le mie note critiche, n.d.R.). Ci siamo chiesti se aggiungere o meno questa scena. La sceneggiatura aveva un prima e un dopo girati all’esterno, ma nel montaggio abbiamo deciso che l’avremmo tagliato, l’abbiamo fatto ed è stato meglio così per il film. Poi abbiamo pensato d’inserire questa scena come una sorta di epilogo per rompere lo stato in cui si trova lo spettatore e collocare improvvisamente Daria in un altro contesto, ma facendo sì che ci s’interroghi su questo contesto: è prima o dopo l’esperienza nel centro di riabilitazione? Per me non è un finale positivo del tipo: ok, è a una festa e si sta divertendo. È piuttosto quella sensazione di quando ti trovi a un party e vorresti davvero divertirti, ma in realtà ti senti un po’ perso. Ti sforzi di stare bene, ma alla fine ti senti sostanzialmente solo. Volevo mostrare quest’alienazione come una sensazione che esiste anche nella realtà esterna, e non solo nel centro di riabilitazione. Stilisticamente la scena sembra diversa rispetto al resto del film, ma il meccanismo dell’immagine, come notavi, è lo stesso, con un’unica differenza fotografica: non più il bianco, bensì i colori.


SCHEDA DEL FILM

TITOLO: Imaculat
TITOLO INTERNAZIONALE: 
Immaculate
REGIA
: Monica Stan, George Chipper-Lillemark
PAESE: Romania
ANNO: 2021
DURATA: 114’
GENERE: drammatico
FOTOGRAFIA: George Chipper-Lillemark
MONTAGGIO: Delia Oniga
SUONO: Filip Mureșan
CAST: Ana Dumitrașcu, Vasile Pavel-Digudai, Grumăzescu Cezar
COSTUMI: Anca Miron
PRODUTTORE: Marcian Lazăr
PRODUZIONE: Axel Film

(immagini: fotogrammi dal film Imaculat, fonte: Axel Film. Si ringrazia Marcian Lazăr)


Antonio Maiorino