Il velo sopra Berlino: vi ricordate di "About Elly"?
Entra nel nostro Canale Telegram!
Ricevi tutte le notizie in tempo reale direttamente sul tuo smartphone!
[MORE]Non necessita certo di sdoganamenti Ashgar Fahradi, recente vincitore al Festival di Berlino con “Nader and Simin. A Separation”: la sua opera è sempre stata riconosciuta centrale nella new wave cinematografica iraniana. Vale allora la pena concedersi un piccolo amarcord mediorientale, andando a riscoprire quell’”About Elly” che, prodotto nel 2009 ed incassato l’Orso d’Argento a Berlino nello stesso anno, è poi sbarcato in Italia ad inizio estate 2010. Passato semi-inosservato a molti, c’è da scommettere che sarà riconsiderato a seguito dell’alloro teutonico di Fahradi.
Opera magnetica e ben sceneggiata, “About Elly” (Darbareye Elly) inizia con la gita fracassona di un gruppo di amici – infanti inclusi – sulle coste del Mar Caspio. Sorrisi e strombazzamenti, ma l’ombra sui loro volti – tecnicamente dovuta al passaggio in una galleria – pare addensare oscuri presagi. La giovane madre Sepideh ha invitato la maestra della figlia, Elly, col progetto di combinare una tresca con l’amico Ahmad. Timidezza da parte di entrambi, primi rituali corteggiatori da romanzo rosa, poi scatta il noir con sottofondo tragico: uno dei bambini rischia l’annegamento, ma viene salvato. Elly, che doveva sorvegliarli, è però sparita.
L’”about” del titolo suona come l’enfasi amara sul destino di Elly quale vittima sacrificale di un sistema di valori. Sulle prime si ha infatti la sensazione che la rabbia generale sia strumentalizzata da alcuni protagonisti per scaricare responsabilità su altri. Con l'affiorare graduale della verità il gruppo comincia a funzionare con maggiore affiatamento, ma più indizi lasciano indovinare che sia scattato, a quel punto, un meccanismo collettivo di autodifesa, tale da lasciare in secondo piano la genuinità del dolore per la scomparsa della ragazza, profilando piuttosto la propria salvaguardia legale (la chiamata della polizia) e culturale (le giustificazioni col fidanzato). Una vera e propria riproduzione in scala ridotta del funzionamento di un sistema pervicacemente attaccato alla propria tradizione, che legittima anche la scelta di protagonisti della middle class agiata dell'Iran. Il finale, da molti indicato come sorta di rappresentazione metaforica della faticosità nell'uscire dal "pantano" di un sistema codificato, possiede l’apertura emotiva coerente all’impianto dialettico dell’opera. Il gruppo ridottosi a risolvere il problema semplicemente tecnico di spostare un'auto, a così breve distanza dal trauma presumibilmente ancora vivo, rende ragione visiva della parabola della sofferenza che scema. Come a dire: ci sono vittime - del sistema - ma la vita va avanti, con i suoi problemi più o meno scottanti... preservare la propria posizione in un contesto conservatore, o solo spostare un'auto. In entrambe i casi, è un problema di sopravvivenza.
Merito del regista è quello di aver tracciato una percorribilità dello spazio filmico multidirezionale ed affrancata, calando lo spettatore all’interno del contesto drammatico senza offrirgli gli appigli rassicuranti di posizioni solide. I vacillamenti della macchina da presa ricreano la fruizione visiva come partecipazione al locus testuale abitato dai personaggi. Si tratta, infine, di un locus mentale, fatto di dialoghi, reticenze, accuse e difese, rovesciamenti di ruoli, che non s’incanalano nel solco del film a tesi per la struttura intimamente combattuta, che a lungo trattiene l’osservatore perfino dal definire con nettezza la propria qualifica empatica rispetto ai personaggi: Elly è colpevole o vittima? È fuggita o è sparita? Il corpo tumido restituito dai flutti è l’unica chiamata, ma senza appello, affinché chi guardi scelga in definitiva cosa pensi. Una chiamata tempestiva, nella sua voluta tardività. Anche ambigua, però – e qui risiede parte dell’intelligenza del filmaker: poiché in tanto buon cinema l’unica risposta possibile è quella dello sguardo.
ANTONIO MAIORINO