Il rispetto della verità sostanziale. Intervista a Vincenzo Iurillo
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BOLOGNA, 25 MARZO 2013 - Il mercato malato dell’editoria italiana che oltretutto risente della crisi si nutre della passione e delle convinzioni di molti professionisti che credono in ciò che fanno. Vincenzo Iurillo, tratteggia la situazione vigente e ci offre il suo punto di vista sul panorama editoriale italiano fra cronisti, giornalismo militante e il codice penale.[MORE]
Perché hai scelto di svolgere questo mestiere?
Bella domanda. Forse perché è sempre meglio che lavorare? Scherzi a parte e lasciando perdere questa vecchia massima che non corrisponde affatto alla massacrante fatica che accompagna il nostro impegno, chi sceglie di fare il giornalista è mosso da curiosità e voglia di cambiare in meglio le cose, raccontandole, sviscerandole, denunciandole. Io ho deciso a 25 anni, mosso da una (in)sana rabbia unita alla consapevolezza che questo era il mio destino. Avevo provato anche a fare altro. Semplicemente, non ero portato.
Secondo te, esiste un vero giornalismo militante in Italia?
Esiste ed è ben rappresentato dalla tradizione dei quotidiani di sinistra: Liberazione, il Manifesto. Giornali schierati e fieri di esserlo. Giornali purtroppo, e forse proprio per questo, attraversati da una continua difficoltà economica: le aziende scappano, non investono in pubblicità su queste testate. Ecco perché, nonostante tutto, continuo ad essere favorevole al finanziamento pubblico a certa editoria di partito. Le voci controcorrente vanno alimentate in qualche modo. E il mercato dell’informazione in l’Italia non è precisamente un mercato libero: monopolisti e imprenditori ‘impuri’ la fanno da padrone.
Molti cronisti sono accusati di raccontare le proprie opinioni invece dei fatti. Cosa replichi?
É un ossimoro. Il cronista racconta fatti, non opinioni. Ma la domanda andrebbe circostanziata. E poi cosa dovrei replicare io? Quando qualcuno mi accuserà di qualcosa di preciso, allora risponderò.
Qual è il limite tra informazione e manipolazione?
Il rispetto della verità sostanziale. E il codice penale.
Sei autore, con il giornalista Bruno De Stefano, del libro “La casta della Monnezza”, un elenco dei leader politici napoletani e campani che hanno collezionato inchieste giudiziarie. Perché avete deciso di scrivere questo libro?
Per le ragioni che descrivemmo nell’introduzione. Eravamo stufi di essere governati da una classe politica clamorosamente non all’altezza. Capace solo di collezionare inchieste e processi su fatti di malversazione o collusioni camorristiche mentre la Campania precipitava nei debiti e nella crisi. E il libro ci è sembrata la maniera giusta di raccontarlo.
Collabori con Il Fatto Quotidiano e con ilfattoquotidiano.it dalla sua nascita. Perché hai deciso di far parte di questa grande squadra?
Quando sei bambino e giochi a calcio in strada sogni di far parte della Juventus, del Napoli, del Milan, dell’Inter. Io da quando ho iniziato a fare il giornalista sul serio ho sognato di andare a lavorare con Travaglio e Padellaro. Mi sono proposto, mi è andata bene. E non sempre sono sicuro di meritarmelo.
Cos’ha in più Il Fatto rispetto agli altri quotidiani nazionali?
La mancanza di un padrone. Il Fatto è dei lettori. Sanno avere di fronte un giornale e un sito elaborati da giornalisti che hanno un solo interesse: quello dei lettori.
Giulia Farneti e Alessandro Bertolucci