Chiesa e Società
Il progetto familiare infranto e la via della riconciliazione
CATANZARO, 20 FEBBRAIO 2015 - Nell’ambito del progetto “famiglia e modernità; sette dialoghi alla luce del sinodo straordinario dei vescovi”, promosso dall’Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace e attuato dal Movimento Apostolico, si è svolto alle ore 18.00 di giorno 19 febbraio, presso la Sala della Cultura “Vincenzo Calderazzo” della Provincia di Catanzaro, la conferenza “Il progetto infranto e la via della riconciliazione” tenuta dal biblista don Edoardo Palma.
Don Gesualdo De Luca, assistente regionale del Movimento Apostolico, ha introdotto i lavori, evidenziando le ferite che le famiglie sopportano, la necessità per la comunità ecclesiale e civile di prendere a cuore le loro difficoltà, venendo incontro al desiderio di pacificazione che ciascuno porta nel cuore, come ci esorta papa Francesco.
Proprio all’individuazione di vie di riconciliazione è stata dedicata la relazione di don Edoardo, che ha percorso il testo biblico, non fermandosi al solo senso letterale ma a quello sapienziale. La Scrittura infatti nelle prime pagine del Libro della Genesi ci offre il progetto del Signore sulla famiglia. Ma ci presenta anche la sua rottura a causa del peccato dell’uomo che introduce nella storia tanta sofferenza: omicidio, poligamia, non riconoscimento della dignità della donna, arroganza e violenza.
È una situazione che ognuno di noi vive sulla propria pelle e che san Paolo, nella Lettera ai Romani descrive in termini lapidari: tutti gli uomini sono sotto il dominio del peccato; ogni uomo, fin dalla nascita è segnato da una natura fragile, incapace di compiere tutto il bene che Dio vuole. Alza pertanto un grido: “Chi ci libererà da questo corpo di morte?”. Ma subito dopo il grido si trasforma in inno di lode: “Siano rese grazie a Dio per il suo Figlio Gesù Cristo”. Grazie a Cristo infatti siamo “giustificati per grazia”. Per la fede in Cristo avviene il passaggio dal progetto infranto alla ricostituzione del progetto, dall'ira alla giustificazione, alla pace.
La fede, secondo Paolo, è adesione piena e consapevole all'annuncio del vangelo: è fiducia ma anche obbedienza. Accogliendo Cristo come verità per la nostra vita quotidiana nasce la speranza.
Siamo di nuovo riconciliati. Col il peccato siamo usciti dal progetto, con la fede entriamo nella pace. Ma non ci può essere pace e riconciliazione senza la pace con Dio, rientrando nella verità perduta.
Concretamente: la vita umana è segnata dalla sofferenza, dalla tribolazione. La fede ci dice come vivere la sofferenza, perseverando nella giustizia. Per Paolo ci possiamo “vantare nella sofferenza” perché genera in noi la dokimé (le virtù provate): la sofferenza tempra l'uomo e lo rende affidabile (dokimoòs). È proprio questo che manca oggi: la prontezza per affrontare la sofferenza. Senza di essa c'è il naufragio nelle varie situazioni della vita, anche in quella familiare. San Paolo ci dice che solo in Cristo è possibile diventare affidabili e vivere le difficoltà della vita, divenendo capaci, nella potenza dello Spirito Santo, di essere come Cristo che imparò l'obbedienza dalle cose che patì e divenne perfetto nella sua umanità (cf. Lettera agli Ebrei).
Il cammino della perfezione dell’umanità che ogni uomo, dall’antichità ad oggi insegue, si ha solo in Cristo, accogliendo il quale, grazie allo Spirito Santo, l’amore di Dio viene effuso nel nostro cuore. Lo Spirito ci fa vivere tutto l'amore possibile, che tutto spera, tutto sopporta (cf 1 Cor 13).
Anche il progetto matrimoniale si può vivere se c'è l'amore di Dio. Ma l'amore va accolto per esserne trasformati. La via della riconciliazione appare chiaramente indicata: tornare a Dio attraverso la fede in Cristo, per vivere, mediante la forza dello Spirito Santo, tutta la potenza dell’amore nella storia, a cominciare dalla famiglia.
Don Gesualdo De Luca,
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Di seguito testo Integrale relazione Don Edoardo Palma
Il progetto infranto
L’orizzonte di senso di questo mio intervento emerge già dal suo titolo: “Il progetto in-franto e la via della riconciliazione”. Vogliamo, infatti, accennare anzitutto ad un “progetto” – anzi, al progetto – voluto dal Signore sulla famiglia. E dobbiamo, per questo, risalire fino al momento della creazione, quando lo stesso Dio dispose di fare l’uomo “a propria imma-gine”, creandolo “maschio e femmina” (cf Gen 1,26-27).
E così la donna divenne per l’uomo “quell’aiuto che gli corrisponde” (2,15), in tutto simile a lui, poiché essa era «osso dalle sue ossa, carne dalla sua carne» (v. 23). «Per questo – continua il testo della Genesi – l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno un’unica carne» (v. 24), cioè un’unica vita, un unico soffio vitale. E questo è l’istituto del matrimonio secondo l’ordine della creazione, per come sancito da Dio (il “progetto” cui accennavamo prima).
Purtroppo, fin dalle origini, l’allontanamento dell’uomo e della donna dalla volontà del Signore, ha avuto come conseguenza diretta anche la profonda deturpazione di questo rapporto di coppia. Così, colei che prima era stata riconosciuta dall’uomo come «osso dal-le sue ossa, carne dalla sua carne» (v. 23), dopo il peccato viene indicata da suo marito come «la donna che tu [Dio] mi hai posto accanto» (3,12).
Il peccato personale dell’uomo e della donna determina, dunque, nel rapporto di coppia la mancanza del vero amore, della parità, dell’uguaglianza spirituale, come affermato dallo stesso Dio quando, rivolgendosi alla donna, dice: «verso tuo marito sarà il tuo istinto, ed egli ti dominerà» (v. 16b). Se, quindi, inizialmente la volontà creatrice di Dio aveva basato il “progetto” matrimoniale e familiare sull’amore e sul reciproco aiuto, dopo il peccato quello stesso progetto cade in balìa del dominio e dell’istinto. Ecco allora perché possiamo (e, anzi, dobbiamo) parlare di un progetto deturpato, frantumato, “infranto” (come abbiamo indicato nel titolo).
Un decadimento universale
E non solo: secondo l’insegnamento dei capp. successivi della Genesi, la lacerazione nella vita di coppia non è l’unica drammatica conseguenza del peccato. Iniziano, infatti, gli omicidi (Caino uccide il fratello Abele – cf Gen 4,1-16), nasce la poligamia (Gen 4,19), ci si vendica in modo violento e smisurato (Lamec – 4,23-24), la vita politica viene contraddistinta dal dominio arrogante di chi vuole imporre il proprio potere (Babele – 11,1-9).
Il peccato dell’uomo produce, dunque, un vero e proprio decadimento nella vita familiare e sociale. Il che si riflette anche nell’insegnamento neotestamentario, tanto da far concludere a Paolo nella prima parte della Lettera ai Romani che tutti gli uomini, senza esclusione alcuna, «sono sotto il dominio del peccato» (Rm 3,9). Tutti gli uomini, infatti, per il peccato dei progenitori, ereditano una natura fragile, la quale in sé (senza, quindi, considerare gli eventuali peccati personali) non permette di compiere tutto il bene connesso alla volontà di Dio (cf 3,10-18).
E non bastano le alleanze con Dio, la stessa Legge data per mezzo di Mosè, poiché – continua Paolo – «per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato» (3,20b), ma «in base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio» (v. 20a). Ecco allora il grido che lo stesso Apostolo rivolge più avanti ancora nella Lettera ai Romani: «Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?» (7,24a).
La giustificazione per la fede
Tuttavia, egli subito afferma: «Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (7,24b). Ora chiediamoci: perché Paolo, immediatamente dopo aver descritto la condizione disperata dell’umanità a causa del peccato, introduce la figura di Cristo? Ed in che modo questa va collegata al riscatto della famiglia e della società?
Ce lo dice lui stesso in un altro passo della Lettera: «ora, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, [...] per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della reden-zione che è in Cristo Gesù» (Rm 3,21-24).
Ecco allora quanto ci vuole rivelare l’Apostolo riguardo alla nostra condizione umana: il passaggio dal peccato alla grazia (e, quindi, dalle macerie di un progetto infranto alla sua ricomposizione in Dio) avviene solo “per mezzo della fede in Gesù Cristo” (3,22). Lo stesso Paolo chiama tale passaggio “giustificazione”, come dichiara, ad esempio, all’inizio del cap. 5 della Lettera: «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (v. 1).
Ma cosa significa che “siamo giustificati per la fede in Cristo Gesù”? Contrariamente a ciò che molti possono pensare, la “fede” cui fa riferimento Paolo non è una semplice cre-denza nell’esistenza di Dio. È piuttosto l’atto personale di chi, avendo ascoltato l’annuncio del Vangelo, lo accoglie come unica e sola Parola di vita (cf Rm 1,16: «Io infatti non mi vergogno del Vangelo, perché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede»).
La via della riconciliazione
E così, nel momento in cui accogliamo Gesù, la sua Parola, il suo Vangelo, come veri-tà della nostra esistenza, noi siamo dunque “giustificati”. Ma Paolo si spinge oltre. Egli, in-fatti, afferma che la fede nel Vangelo ci fa essere “in pace con Dio” (5,1b). Se quindi il peccato aveva guastato rovinosamente il rapporto originario con il Signore, frantumando il progetto che questi aveva stabilito per l’uomo al momento della creazione, ora l’Apostolo ci annuncia che nella fede in Cristo e nella sua Parola, noi siamo di nuovo in pace con Dio.
La frantumazione del progetto originario sull’uomo e sulla famiglia trova, dunque, nel nostro rientro nella verità di Dio la via per la sua riconciliazione (che è poi ciò a cui tutti aspiriamo). Inoltre, come abbiamo già avuto modo di vedere accennando al racconto della creazione, nella verità di Dio dimora anche la verità del nostro essere uomini. Rientrare nella verità divina mediante la fede nel Vangelo, significa pertanto rientrare nella nostra verità di uomini e donne creati dal Signore. È dunque in Cristo Gesù che siamo riconciliati con Dio, ma anche con noi stessi, con gli altri uomini e con l’intero creato.
Oggi purtroppo dobbiamo riscontrare, al riguardo, questo grave errore: si pensa, infatti, che si possa essere in pace con gli uomini e con la natura, senza però essere in pace con Dio, e rimanendo quindi nella nostra falsità, nel nostro errore, nel nostro peccato. Da questo punto di vista, Paolo è invece molto chiaro: la riconciliazione e la pace con gli altri uomini e con il creato possono nascere solo dalla riconciliazione con Dio, frutto della nostra fede in Cristo Gesù, il solo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati (cf At 4,12).
La perseveranza nelle opere buone
Ma, concretamente, cosa comporta per noi “rientrare nella nostra verità” mediante la fede in Cristo? Quali effetti, cioè, si hanno nella nostra esistenza quotidiana? Lo si può dedurre da quanto Paolo dice nei vv. successivi di Rm 5, dove afferma: «[noi giustificati per fede] ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce perse-veranza, la perseveranza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (vv. 3-4).
Andiamo con ordine. Anzitutto, l’Apostolo riconosce che la vita umana è accompagnata dalla “tribolazione” (θλ‹ψις), e che noi cristiani non siamo esenti da questa inesorabile dimensione dell’esistenza. Lo stesso Gesù così aveva avvertito i suoi discepoli riguardo alla loro missione dopo la Sua morte: «Allora vi abbandoneranno alla tribolazione [θλ‹ψις] e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. [...] Ma chi avrà perseverato [Øπομšνω > Øπομονή] fino alla fine sarà salvato» (Mt 24,9.13). Insegnamento questo ricordato anche nella Lettera ai Romani, dove Paolo ricorda che Dio darà «la vita eterna a coloro che, perseverando [καθ’ Øπομονήν] nelle opere buone, cercano gloria, onore e incorruttibilità» (2,7).
Ora, umanamente, nessuno vuole soffrire. Per natura, infatti, speriamo sempre di poter vivere un’esistenza quanto più possibile serena. Eppure, l’Apostolo non solo ci dice che non dobbiamo illuderci (poiché la tribolazione fa parte della nostra vita terrena), ma addirittura afferma di “vantarsi” nelle tribolazioni. E perché? Ce lo dice lui stesso: «sapendo che la tribolazione produce perseveranza [Øπομονή]» (Rm 5,3b). Così, se da un lato Gesù aveva avvertito i discepoli che avrebbero avuto delle tribolazioni e che si sarebbero salvati solo nella perseveranza, dall’altro Paolo ci rivela che sono proprio le tribolazioni a produrre quella perseveranza che è necessaria per avere la vita eterna.
La crescita nelle virtù
Sembra un controsenso. In realtà, non è così. E lo capiremo continuando a seguire il ragionamento di Paolo. C’è infatti un altro frutto che, secondo lui, viene prodotto dalla perseveranza, e cioè la δοκιμή (5,4). Questo termine in greco esprime una “dimostrazione concreta di affidabilità”, ed in genere viene tradotto in italiano con “virtù provata” (Cei), o anche con “virtù collaudata” (Paoline).
E qui entriamo purtroppo nel dramma umano che troppo spesso emerge nella nostra attuale società. C’è, infatti, una terribile fragilità, una debolezza a volte davvero disarman-te, che diviene poi incostanza, non perseveranza, o anche, nei casi più estremi, rinuncia, abbandono, disimpegno. Molto spesso la parola “virtù” non si sa neanche cosa sia. Ed anche in quelle dimensioni della vita che richiedono un impegno responsabile e costante, si cade purtroppo nella grande superficialità o, peggio ancora, nel totale disinte-resse.
L’uomo di oggi spesso sa coltivare solo vizi. Ma, come l’esperienza insegna, prima o poi la tribolazione, la sofferenza, bussa alla porta, e quando sarebbero necessarie le virtù per poterla affrontare adeguatamente, queste non ci sono, e non si sa più cosa fare, cosa pensare, come agire. E così i suoi progetti falliscono, e la sua vita si perde. E questo non solo nella società, al lavoro o nelle scuole. Ma in ogni ambito in cui l’uomo vive ed opera, viene resa manifesta questa sua fragilità costituzionale. E, quindi, anche nelle famiglie (costituite troppo spesso senza la necessaria preparazione), dove, al sopraggiungere dei primi problemi, tutto si logora, tutto si spezza, tutto va miseramente in frantumi.
Cristo, Uomo perfetto, rende perfetto l’uomo
Alla luce di questo, si capisce allora quanto siano importanti ed attuali le parole di Paolo. Egli infatti ci dice che, in Cristo (e solo in Lui), è possibile un cammino di crescita nelle virtù. Addirittura, tutto nasce dalla tribolazione (θλ‹ψις): mediante la sofferenza, infatti, è il Signore stesso che allena l’uomo nella perseveranza (Øπομονή), guidandolo alla crescita ed alla perfezione nella virtù (δοκιμή). E per rendersi conto di quanto questo sia vero, basta pensare che anche Gesù, pur essendo di natura divina, nel farsi uomo dovette raggiungere la sua perfezione umana “dalle cose che patì” (cf Eb 5,8-9). Ora, se questo è accaduto per Gesù, a maggior ragione dovrà essere per ogni altro uomo che vive sulla terra.
Ma, a questo punto, può sorgere un dubbio: se, infatti, da una parte è vero che l’inizio di questo perfezionamento viene segnato dalla fede in Cristo Gesù e nel suo Vangelo (Rm 5,1), dall’altra però chi mi dice che è ancora la fede in Cristo a determinare anche il successivo percorso di crescita attraverso la perseveranza nella tribolazione? Si potrebbe infatti anche pensare che, una volta posto l’atto di fede iniziale, questo processo di perfezionamento possa poi essere frutto di uno sforzo puramente umano. E, in effetti, la necessità di una crescita umana nelle virtù, nel corso della storia è emersa anche nella riflessione culturale extra-biblica, senza peraltro alcun riferimento alla sfera del divino.
Ebbene, quanto successivamente affermato da Paolo permette di chiarire anche tale questione. Egli, infatti, rivela che «l’amore [¢γ£πη] di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5b). Ed altrove descrive tale amore come «magnanimo, benevolo [...]; [che] non è invidioso, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. [Un amore che] Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta [Øπομšνει]» (1Cor 13,4-7).
È dunque l’amore riversato da Dio nel nostro cuore che ci permette di rivestirci di per-severanza [Øπομονή]. Ed è in questo stesso amore che “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”, riversato nei nostri cuori per la fede in Cristo Gesù, che noi uomini diveniamo realmente capaci di un autentico cammino di perfezionamento nelle virtù.
Ma allora, fa tutto Dio? E noi, non dobbiamo fare nient’altro? In realtà, in questo cam-mino di crescita c’è anche l’apporto umano: Qui creavit te sine te, non salvabit te sine te (“Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te”), diceva sant’Agostino. E, in effet-ti, se da un lato è il Signore che ci dona il Suo amore (¢γ£πη), dall’altro siamo noi che nella fede dobbiamo far nostro questo dono, lasciandoci continuamente trasformare da esso fino al raggiungimento della perfezione in Cristo (cf Col 1,28).
In tutto come ha fatto Gesù nella sua vita terrena. Egli, infatti, pur essendo il Figlio eterno del Padre (e, quindi, divino per natura), fattosi uomo «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52), «imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9).
Conclusioni
Il richiamo alla creazione dell’uomo «a immagine di Dio» come «maschio e femmina» (Gen 1,27), ed il successivo allontanamento dell’uomo e della donna dalla verità del Si-gnore (Gen 3), ci ha permesso di risalire al peccato come “causa prima” di quello che è stato indicato come “il progetto infranto” sul matrimonio e sulla famiglia. È, dunque, la rot-tura del proprio rapporto creaturale con Dio e con la sua Parola che ha prodotto (e produ-ce ancora) per l’uomo la grave situazione di dissidio, di lacerazione e di strappo, riscontra-ta nella famiglia, come in altre dimensioni della vita sociale.
Le parole dell’Apostolo Paolo in rapporto alla “riconciliazione” di quel progetto, non po-tevano quindi non avere una precisa connotazione teologica, basata cioè sulla ricostitu-zione del rapporto con Dio, originariamente frantumato dal peccato dell’uomo (cf Rm 5,1). Se, dunque, la caduta dalla fede (intesa come fedeltà alla volontà del Signore) aveva causato la rovina di quanto Dio aveva predisposto per l’uomo e per la donna, solo il ritorno alla fede poteva determinarne la vera ed autentica rifondazione.
È quindi il ritorno a Dio mediante l’accoglienza del Vangelo, il conseguente dono del Suo amore in noi, che è poi lo stesso amore col quale Cristo ci amati (Rm 5,8), fatto nostro nella fede e reso efficace in noi per l’azione dello Spirito Santo, che rende la nostra umanità capace di perseverare nelle buone opere (v. 3; cf 2,7). E così ognuno di noi può divenire costituzionalmente affidabile (dÒkimoj), e perciò adeguatamente preparato per affrontare le tribolazioni della vita
Don Edoardo Palma