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"Il passato" di Asghar Farhadi, nel fuoco del presente
IL PASSATO DI ASGHAR FARHADI, LA RECENSIONE. Assumendo il passato nella prospettiva d’un thriller d’affetti da riformulare in tempo reale, Asghar Farhadi realizza un dramma in situazione di ribaltamenti focali e fuochi psicologici.
Al terminale dell’aeroporto, dietro un vetro, Marie (Bérénice Bejo) guarda il quasi ex-marito Ahmad (Ali Mosaffa), appena giunto a Parigi da Tehran per siglare il divorzio, cercando di chiamarlo. Così vicino, così lontano, non riesce a comunicare: la lastra è trasparente, ma anche isolante. Poi incrociano gli sguardi, lui si avvicina sorridente e cominciano a parlare: un dialogo labiale, con l’audio negato allo spettatore, un contatto che è già, che è anche una separazione, col diaframma del vetro. Una corsa sotto la pioggia insieme per raggiungere l’auto di lei, che li porterà nella casa, in periferia. “Guarda se posso passare”. “Sì, c’è spazio a sufficienza”. Retromarcia di Marie, ed urto invisibile con un ostacolo (un altro veicolo). Titoli di testa: Il passato. Ossia: come una retromarcia possa far male. [MORE]
IL TAPPETO PERSIANO - Si capisce sin dalle prime battute che Asghar Farhadi (About Elly, Una seprazione) è un fuoriclasse dei minimi, un regista patentato ad intridere d’atmosfera drammatica anche i dettagli della routine, da un saluto ad una manovra in un parcheggio. Distribuire gli incroci di relazioni pericolose per due ore e dieci di film, però, convoca qualità di tenuta stilistica, di tessitore paziente, di maratoneta d’atmosfere contrite e dialoghi estenuanti: un drammaturgia instancabile, ed in grado di non stancare, per il suo andamento da detective story della tensione familiare, in cui il progressivo disvelamento dei fatti fa corpo, trama e ordito, col velo squarciato di un’emotività tutta rattoppi, strappi, tentate ricuciture. La bottega tessile è la casa di periferia dove Marie vive con le due figlie d’una precedente relazione. La maggiore, Lucie (Pauline Burlet), sempre sull’orlo della fuga, è in polemica con la madre per il proposito di sposare Samir (Tahar Rahim), l’ultima fiamma. La minore, Lea, è spettatrice passiva di baruffe e rimbrotti, ma forse ferita, tra un gioco e l’altro col figlio di Samir, Fouad (Elyes Aguis), irrequieto, nella mancanza, a intervalli regolari, prima del padre, poi della madre naturale, poi ancora della madre acquisita. In un parola: di regolarità, di stabilità. Può essere Ahmad l’elemento stabilizzatore? Solo come può esserlo la scossa di assestamento d’un terremoto: liberando altra tensione.
CASINO REALE - Come nella scena iniziale, Il passato dell’iraniano Asghar Farhradi si sviluppa come ricerca della trasparenza sentimentale, bramosia d’un urto, epurazione del rumore di fondo, ai fini del raggiungimento di una comunicazione onesta e genuina. Il costante gioco dei campi e controcampi a livello d’immagine, ma soprattutto di storie e contro-storie, di versioni alternative, di consumati decentramenti ed accentramenti, da un personaggio all’altro, tanto a livello scenico col piano sequenza senza stacchi, quanto a livello narrativo, compone un dramma policentrico, anzi, poli-epicentrico, in cui dà di matto la madre, cercando di aggredire la figlia quando emergono verità scomode; erutta in un pianto la figlia, accusando la madre e fuggendo di casa; fa l’uomo di casa Samir, sfiorando la violenza psicologica con i piccoli, come quando li costringe ad un complesso rituale riparatore dopo la perdonabile monellata d’aver messo le mani nella valigia di Ahmad per prendere in anticipo i regali. E Ahmad, appunto? È un trauma ambulante da elaborare – perché, chiede, la moglie l’ha voluto a casa, anzichè prenotargli un albergo? – e per quanto elabori a sua volta da mediatore di pace forse introvabile, non può fare a meno di sbottare: “Why do I have to be here in the middle of this shit?”.
LA TERRA DEI FUOCHI - Con una capacità di racconto così sfumata, possibile anche grazie ad un cast notevolissimo persino nei bambini, il film procede con una miriade di shift, di spostamenti di prospettiva ma anche d’empatia: nessuno davvero colpevole, nessuno davvero innocente, nella suspense emotiva del whodunit applicata ad una famiglia dai confini sfrangiati e dai sentimenti incerti. Incerte sono le confessioni, così come gli avvicinamenti: Lucie sfiora la mano della madre nel lettone, di notte, riavvicinandosi dopo l’asprezza dell’allontanamento; Marie scende per le scale, dopo aver lasciato l’appartamento di Samir, ma poi risale, pedinata dalla macchina da presa, e riprende la conversazione. Nulla è conclusivo, nemmeno il suggestivo, tiratissimo finale, in cui colpisce – non sveliamo nulla – l’ennesimo gioco di sequenze ininterrotte, di ripensamenti, ma soprattutto, ancora, di spostamento di traiettoria e di focalizzazione: s’era iniziati in un aeroporto, si finisce con un altro viaggio e con altri passeggeri. Questa strategia dello shift, del rilancio posizionale dell’agitazione, in cui ci si acclimata col desiderio di stabilità e con la paura d’instabilità di un personaggio, e poco dopo si trapassa ad una personaggio-forza complementare, può essere ben rappresentata dalla sequenza in cui Lucie si allontana da casa, Ahmad avvisa Marie, e Marie si piomba fuori: ma la macchina da presa non la segue, soffermandosi senza stacchi del montaggio – ma con uno stacco sentimentale – sul volto dello Ahmad, mentre la figlia più piccola – dicevamo: spettatrice – è a letto, lo chiama e ne capisce poco o nulla. Gli fa due domande, e le risposte di Ahmad sono “non lo so” e “forse”.
Da un whodunit ad un Idontknowit: il film diventa un problema di messa a fuoco del passato, eppure senza un solo flashback. Tutto è al presente, tutto è un’esteriorità hic et nunc: bisogna capire in fieri qualcosa che si è perso ed appare sfocato, per capire cosa fare, qui, ed adesso.
Assumendo il passato nella prospettiva d’un thriller d’affetti da riformulare in tempo reale, Asghar Farhadi realizza un dramma di ribaltamenti focali e fuochi psicologici, attento a non dissipare l’eccitazione del demistificare, l’emozione dell’intendere in situazione, in un presente cinematografico in cui la confusione è importante quanto la verità. Why do I have to be in the middle of this shit? - si chiede lo spettatore. Perchè così è il cinema quando è umano, quando cattura nonostante la lastra dello schermo.
USCITA CINEMA: 21/11/2013
GENERE: Drammatico
REGIA: Asghar Farhadi
SCENEGGIATURA: Asghar Farhadi
ATTORI: Bérénice Bejo, Tahar Rahim, Ali Mosaffa, Sabrina Ouazani, Pauline Burlet, Elyes Aguis, Babak Karimi, Valeria Cavalli, Jeanne Jestin
FOTOGRAFIA: Mahmood Kalari
MONTAGGIO: Juliette Welfling
PRODUZIONE: Memento Films Production, Memento Films Production
DISTRIBUZIONE: BIM
PAESE: Francia 2013
DURATA: 130 Min
FORMATO: Colore
NOTE: Premio a Bérénice Bejo al Festival di Cannes come miglior attrice
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Antonio Maiorino
Critico cinematografico e d'arte - on Twitter