Editoriale
Il paese in cui si delega tutto. Soprattutto le responsabilità
ROMA, 10 GIUGNO 2012 - Avevamo iniziato bene. Dopo il terremoto in Emilia-Romagna – anzi, considerando che la terra trema ancora sarebbe più appropriato dire durante il terremoto – qualcuno aveva iniziato ad usare quella parola: responsabilità.
Come sottolinea Saverio Tommasi ne “Il terremoto da un certo punto di vista”, anche attraverso le parole di Nicola de Simone, ingegnere e già genio civile della regione Romagna «il terremoto è madre natura, il capannone che cade[...]è opera dell'uomo».
Qualcuno aveva iniziato a parlare di responsabilità. Poi, come al solito, ci siamo persi nelle cacofoniche dichiarazioni dei nostri parlamentari. Però stavolta ci eravamo andati davvero vicini ad avere qualcosa di serio su cui dibattere.
A voler fare gli ingenui ci si potrebbe stupire nello scoprire che “forse” alcune aziende non rispettavano tutti i criteri anti-sismici, nonostante passassero tranquillamente tutti i controlli. Dando per certo che questi ci siano realmente stati.
Rimanendo col senno al paese reale, invece, non è uno scandalo che l'edilizia abbia preso ad unica legge la massimizzazione del profitto. Di scandaloso, invece, c'è che, pur conoscendo la politica de-cementificatoria che i media (ed ogni tanto le inchieste giudiziarie) raccontano da un po' di tempo non si sia mosso un dito per cambiare tale situazione.[MORE]
Si era paventata, all'inizio, la possibilità di richiedere un censimento dei luoghi a rischio crollo, associando a questo anche una seria politica di soluzione preventiva del problema (son buoni tutti a non trovare il cemento nei pilastri di case già crollate, d'altronde). Non se ne è fatto più nulla, perché chiedere una legge – o proporla, essendo l'iniziativa popolare un istituto legislativo previsto dal nostro ordinamento a cui sarebbe il caso di dare più attenzione – la quale imponga non solo che tutti gli edifici costruiti d'ora in poi siano anti-sismici, ma che anche gli edifici già in piedi subiscano lo stesso trattamento.
Ci vorranno – o ci vorrebbero – tantissimi soldi, ma non vedo cosa ce ne faremmo di esercito ed altre voci d'acquisto in ambito militare in un paese che sembra uscito da vecchi filmati sui bombardamenti di guerra.
Dovrebbe suscitare scandalo, inoltre, quel documento pubblicato nei giorni scorsi sui giornali con il quale si chiedeva ai lavoratori non tanto di rientrare a lavoro immediatamente per evitare di spezzare il ciclo produttivo, ma di farlo a proprio rischio e pericolo (come titolava un articolo comparso su Il Manifesto nei giorni scorsi) «liberando la proprietà da qualsiasi responsabilità penale e civile», come recitava il documento della Forme Physique di Carpi, eletta dai media come il Mefistofele-capitalista di turno pur essendo in ottima compagnia, non solo nell'emiliano-romagnolo, come il trattamento della nuova Fiat di Marchionne di cui ha parlato Manuele Bonaccorsi in un'inchiesta - “Se questa è una fabbrica” il titolo – pubblicata in una delle ultime uscite del settimanale Left.
È logico e comprensibile, seppur non totalmente condivisibile, che molti operai «terrorizzati dalla prospettiva di perdere il lavoro», come scriveva Valeria Tancredi sull'Unità dello scorso 6 giugno, abbiano firmato.
Laddove poi i proprietari – o padroni, usando un termine ormai in disuso seppur più appropriato in alcuni casi – deleghino poi la «responsabilità civile e penale» sugli operai, li inviterei ad affidare agli operai (i veri proprietari della fabbrica, per dirla con il Mastroianni de “I Compagni” di Mario Monicelli) la gestione tout court dell'azienda, auto-espellendosi da un processo produttivo in cui, come spesso raccontano le cronache, riescono a stare solo giocando sporco.
In tutto questo non mancano i virgolettati dei partitocrati (politica e partitismo non combaciano perfettamente, e in questa fase storica del nostro Paese ce ne stiamo rendendo sempre più conto, e bisogna dunque rivedere anche il dizionario) che, se memoria non mi inganna, in alcuni casi lungo questi anni si sono prodigati, in correità con la classe padronale, nell'eliminare tutele sul lavoro, sulla sicurezza e, in ultima analisi, sulla vita stessa dei cittadini-lavoratori.
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Partitocrati che tornano utili anche per un altro paio di argomentazioni che ruotano tra “delega” e “responsabilità”.
«Gli Italiani continuano ancora ad andare, sempre, a votare (votano, votano, votano) ma non si capisce perché votino. Per dare un senso a che cosa?[...] Non risolveranno mai niente con la democrazia. "Democrazia" nel senso di Hobbes, che la chiamava "demagogia". Fu il primo a chiamarla col termine giusto».
Citazione da una più ampia riflessione fatta il 27 giugno 1994 davanti al pubblico del Maurizio Costanzo Show da Carmelo Bene (qui trovate una lunga parte dell'intervento).
Il lavoro – nelle sue varie problematiche – è una delle principali istanze dell'attuale situazione del Paese reale.
Paese reale che sembra essere uscito completamente dall'agenda politica della nostra classe partitica, interessata più a capire come spartirsi il potere nel paventato nuovo assetto istituzionale (che, è bene sottolinearlo, non è possibile modificare con un semplice schiocco di dita) che ai problemi della gente comune. Parafrasando Vendola, ormai il Paese reale ed i partiti narrano due storie che viaggiano su rette parallele, non incontrandosi mai, nemmeno per sbaglio.
Mentre decidono questo, assistiamo alla (spero) fase ultima di Bersani in politica, che nei giorni scorsi ha annunciato per l'ennesima volta di candidarsi a premier, convinto forse di essere ancora in credito con chi, nelle ultime tornate elettorali, gli ha dato fiducia.
Il problema, in questi anni, è stata la politica del “meno peggio”, del “votare turandosi il naso” che ha abbassato di netto l'asticella dei nostri partitocrati che, salvo rare eccezioni, ci ha portato oggi ai partiti di mediocri (tornando a Bene) col «carisma di Ciccio di Nonna Papera», come direbbe Caparezza.
Nonostante questo, però, si ricomincia con il vecchio annuncio: “A.A.A. Cercansi Leader di Sinistra”, come se il capo-popolo abbia mai risolto qualche problema, in Italia. Gli unici leader degni di questo nome (uno su tutti: Pio La Torre, per rimanere alla partitocrazia) chissà perché li hanno sempre fatti fuori.
La risposta di questo “nuovo che indietreggia” è: i partiti sono tutti morti. Ed a guardare i dati dell'astensionismo ad ogni tornata elettorale non è poi così sbagliato. Ma credo sia più interessante la domanda da assegnare a quella risposta: oggi i partiti servono ancora?
Mentre i vertici dei partiti giocavano alle “quote” (il Gaber de “I partiti” o “Il voto” fa ancora scuola) infatti nel Paese reale si tornava a far politica. Quella seria, quella degna di questo nome. Abbiamo assistito e partecipato – e continuiamo ad assistere e partecipare – ad una sempre più lunga lista di battaglie sociali (i referendum sull'acqua ne sono un esempio, così come le lotte dei no tav, no-Muos, le lotte femministe per la presa di coscienza sui femminicidi o per la salvaguardia della legge 194) che stanno ricostruendo la politica non sul “programma del congresso” ma sul “programma dei problemi contingenti”, dimostrando l'anacronismo del partito-novecentesco, quello basato sugli -ismi poi venduti sull'altare del capitalismo e del “moderatismo”, del “se rimanesse lì, DP, quella roba lì...tra tre quattro anni: partito di centro! Capito lo scivolo?”, scomodando ancora il signor G.
Servono ancora i partiti, le lotte tra correnti interne, le campagne elettorali, in un paese in cui il governo – tecnico – viene calato dall'alto mentre dal basso arriva nuovamente un forte fermento sociale, punti di una mappa che andrebbero solamente uniti, in un'unica lotta che istituirebbe un nuovo soggetto politico oscurato in questi anni da riflettori puntati sulla mediocrità di corte?
Per dirla con una celebre frase di Corrado Guzzanti: «se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori».
(foto: aulaerre.noblogs.org)
Andrea Intonti [http://senorbabylon.blogspot.com/]