"Il Muro del Canto", folk granitico sul lungotevere con "L'ammazzasette"
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ROMA, 18 MARZO 2012 - “L’ammazzasette” della band capitolina Il Muro del Canto è un disco romanissimo, si: ma non è affare privato della Capitale. La proposta musicale tutta folk rock, per quanto impregnata di un’atmosfera pasoliniana che della “città eterna” racconta gli eterni conflitti con lancinata ugola popolare, s’inserisce nello spazio angusto ma accogliente del panorama recente della canzone d’autore in dialetto romano già popolato da gruppi come Mandarino ed Ardecore.
Alla voce e ai testi Daniele Coccia, storico cantante dei Surgery, alle percussioni e alla voce narrante Alessandro Pieravanti. Alla chitarra elettrica Giancarlo Barbati. Ludovico Lamarra e Eric Caldironi, rispettivamente basso e chitarra acustica, entrambi già componenti degli En plein air. Last, anzi urtimo, but not least, Alessandro Marinelli completa l’ensemble col tormentoso controcanto della fisarmonica, ben inserito nell’amalgama corale di canzoni che suonano come inni senza tempo, beghe d’amore e pasticciacci di coltello narrati come nenie noir dalle venature surreali.[MORE]
Non sono solo i vichi di Roma a esalare l’odore di stracci – di classe, ma anche i palchi occasionali ed i locali che ospitano da due anni, tra sudore e lacrime, le apprezzatissime performance live del gruppo, accompagnate a squarciagola da un uditorio trasportato in un immaginario narrativo. Nel 2011 il gruppo vince il Premio “Stefano Rosso” per il miglior arrangiamento, grazie alla propria versione di “E intanto il sole si nasconde”. "L'ammazzasette" (2012, Goodfellas) è il primo album ufficiale, preceduto nel 2010 dal singolo “Luce mia” e da un EP con sei tracce, “Il Muro del Canto”.
La title track sembra esordire come la colonna sonora di uno spaghetti western, ma l’immagine di Lee Van Cleef sfuma presto in quella di un Celentano-Rugantino alquanto disperato. “La Terra è Bassa” è un pezzo pienamente folk, sulle prime strappato ad una periferia rurale da neorealismo italiano, mentre “Luce Mia” è uno dei pezzi più accorati e lunari dell’album. “Serpe ‘n seno” tambureggia come un western nostrano, con un ritornello che riecheggia il prog italiano dei seventies. “San Lorenzo” fa capire il formato “musica da guera” del gruppo, mentre “L’orto delle stelle” è la versione baritonale, di “Storia d’amore” di Celentano. “Cristo de legno” è una preghiera da osteria, mentre “Spina” fa male, tanto si addolora – ma sempre con edulcorante orecchiabilità. “500” sconfina addirittura nel parlato, melodramma sulfureo, prima del lamento anticlericale “da vinti” di “Chi mistica mastica”. “Ridi Pajaccio” prende quasi un entusiasmo tzigano, stemperandosi in un’allegria da taverna; “Addio” si cadenza come un canto popolare. “So’ morto per sbajo” è un unico, sussurro dall’oltretomba di qualche crocicchio capitolino, mentre allegre ragazze morte fanno capolino nella breve e drammatica “Parla co’ Me”. “Quanto Sete Brutti”, tra ladri, preti e mignotte, e soprattutto politici, chiude polemicamente con un’inflessione blues, che visto il contesto trasteverino sembra uno spiritual da lungotevere (non infestato, non in festa).
L’immaginario, per pura evocazione musicale, è già bello e pronto: chi ascolta il disco avverte una carnalità suggestiva che intreccia immagini ed odori di Roma. Ma, davvero, le immagini arriveranno: sono in realizzazione una serie di videoclip incentrati sulle storie de “Il Muro del Canto”, la cui regia è affidata a Carlo Roberti per Solobuio visual factory (già regista di Spiritual Front, Ardecore, Surgery, Dope Stars Inc). Il primo video sarà “La Spina”: non vediamo l’ora di farci male.
Antonio Maiorino