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"Il mestiere dell'inviato": la lezione di Marco Imarisio agli studenti dell'Unibo
BOLOGNA, 9 DICEMBRE 2013 - “Il mio lavoro è quello dell'inviato e finché me lo permetteranno continuerò a farlo”. Più volte, durante la lezione tenuta presso l'Università di Bologna, Marco Imarisio ha ribadito questo concetto. Il cronista (è così che lui vuole definirsi) del Corriere della Sera è stato il primo degli ospiti chiamati a condividere con gli studenti (e non solo) del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione le esperienze che hanno contraddistinto la propria attività giornalistica. Un incontro sobrio e alquanto partecipato questo che ha inaugurato il ciclo di conferenze dal titolo “Cinque lezioni di giornalismo”. [MORE]
Le sorti del giornalismo non così tanto spacciate, l'affetto dimostrato nei confronti della sua testata (dalla quale, più volte, ha ribadito di non ricevere particolari pressioni) e dei giornalisti del passato che lo hanno formato, i racconti riguardo i reportage che ha creato in giro per il mondo prima, per l'Italia poi (l'ultimo suo libro “Italia ventunesimo secolo”, Il Saggiatore, 2013, raccoglie gli articoli da lui scritti e che raccontano i fatti italiani che hanno aperto il nuovo secolo). Dall'episodio in cui il maresciallo preposto a seguire le indagini del caso di Novi Ligure gli ha annunciato la confessione dell'omicidio eseguito da Erika e Omar all'inchiesta inerente le carceri italiane fatta nel 2003 e oggi, dopo dieci anni, ancora attuale. Dalla più recente esperienza all'Isola del Giglio ai fatti del G8 di Genova (da cui ha pubblicato il libro "La ferita. Il sogno infranto dei No Global italiani", Feltrinelli, 2011).
Marco Imarisio è un giornalista vecchio stampo, se così si può dire. Uno di quelli che per scrivere spegne la tv, non consulta la rete, non si serve di agenzie. Conta sui suoi ricordi e sul suo taccuino pieno di appunti di ciò che vede, delle emozioni che prova. “Anche a me capita di piangere quando sono in un posto per fare il mio lavoro. L'ultima volta ho pianto durante l'alluvione a Genova del 2011 quando ho visto riaffiorare dallo scantinato di un palazzo del centro il corpicino di una bambina”. Parole, queste, pronunciate a voce più bassa quasi per nascondere l'emozione del ricordo o per avvalorare la sua opinione riguardo la giusta distanza che ogni giornalista deve rispettare nel raccontare i fatti che più lo coinvolgono. Dalle sue parole man mano più sciolte quasi a formare dei veri e propri racconti non sono sfuggite critiche all'egocentrismo più volte esercitato da suoi colleghi giornalisti, sketch relativi alla passione per il basket americano oppure opinioni riguardo i new media che, seppur importanti per il futuro del mestiere, non devono in alcun modo modificare le sue modalità di svolgimento.
In un recente incontro televisivo (uno dei pochi) con Concita De Gregorio, Imarisio ha affermato che l'Italia è un Paese unito solo in occasione dei funerali, quando qualcuno muore durante un evento straordinario, che sia un terremoto o un pullman che esce fuori strada o un delitto di cui il nostro Paese ci ha resi più volte partecipi. Chi, meglio di un cronista così appassionato al suo mestiere, può raccontare di queste vicende. Solo lui, chi come lui e “noi italiani, noi che abbiamo visto tutto questo, siamo gli unici a poter raccontare questa notte maledetta, questo sole, questa luna, questa notte italiana”.
Giovanni Cristiano