Cronaca

Il Giornalismo è lo specchio della società. Intervista a Pino Scaccia

BOLOGNA, 4 FEBBRAIO 2013 - Con la schiettezza e la sintesi di chi è abituato a fare, ad agire in un settore dove la parola ha il suo peso specifico Pino Scaccia analizza e commenta per noi il lavoro del giornalista. Inviato storico del tg1, “ha attraversato la storia da testimone diretto”, con curiosità contagiosa partecipa al cambiamento in atto nel settore del giornalismo e dell’informazione e ce ne rende, come sempre, partecipi.[MORE]

Com’è nato il suo amore per il giornalismo?

Subito, è nato subito. Fin da giovanissimo m’inventavo un giornale, scrivevo romanzi. Il mio primo articolo è stato pubblicato quando avevo appena diciassette anni.

Esiste una realtà giornalistica?

Esiste una realtà giornalistica che talvolta cozza contro altre realtà, soprattutto quella giudiziaria. Il compito di un giornalista è di raccontare i fatti, ma non sempre riesce a raggiungere la verità. Però è anche vero che talvolta la realtà giornalistica è più vicina di quella giudiziaria che ha bisogno di prove.

Ritiene che oggi i giornalisti raccontino maggiormente le proprie opinioni rispetto ai fatti?

Probabilmente sì. E va a scapito dell’informazione. Visto che, come ho detto, è già difficile arrivare alla verità, non si può partire con opinioni precostituite. Ma io sono della vecchia generazione che si ispira ai Biagi, che per vezzo si definiva cronista. Mi sento innanzitutto un cronista, non un analista.

Il giornalismo è ancora lo specchio della società?

Lo è sempre. É in atto, lo sappiamo tutti, una degenerazione della stampa ma da cosa dipende se non dall’abbassamento culturale della società?

Secondo lei qual è il limite tra informazione e manipolazione?

Già la manipolazione è una bestemmia, non dovrebbe mai essere accomunata all’informazione. Se io racconto i fatti devo raccontare quello che vedo e che sento. Dire il contrario è un delitto. L’inviato soprattutto è il tramite tra un evento e la gente a casa: dire una bugia equivale a un tradimento.

Oggi ci troviamo dinnanzi a un giornalismo puro oppure a un giornalismo fortemente influenzato dalla classe politica?

É evidente che è influenzato. E non solo dalla politica. Il problema, ben noto, è che non esistono più editori puri. Ogni impresa ha interessi o politici, appunto, o finanziari. Non si fanno più giornali per venderli ma per usarli a beneficio dei propri interessi. Il ruolo degli inviati – quelli che…raccontano – è stato raso al suolo, magari con l’alibi economico, semplicemente perché è più facile omologare poche fonti.

Il suo blog si chiama La torre di Babele. Perché questo nome e perché ha deciso di farlo nascere?

Intanto l’ho fatto nascere nel 2001 quando stavo a New York per il crollo delle due torri. La circostanza non è casuale. Mi attirava la sfida, il mettermi in gioco, parlare con chi sta dall’altra parte del teleschermo: serviva a lui ma anche a me. Per il titolo sono stato ispirato dalla Torre di Babele perché è il luogo dove secondo la leggenda si sono mischiate le lingue del mondo. Dunque da lì può rinascere anche la speranza di tornare a capirsi. E un blog appunto è un luogo di aggregazione, dove ognuno può dire la sua ma sempre nel tentativo poi di arrivare a una conclusione comune. Ho provato emozione poi quando ho conosciuto in Iraq la torre vera, a Samarra, che lì chiamano la “spirale”. E’ stato molto faticoso salire in cima: una bella metafora, no?

Ci sono stati momenti in cui ha provato paura per la sua incolumità come persona per il lavoro che svolge?

Molte volte. Alcune in modo serio, proprio prima di Baghdad, ma anche a Kabul, a Mogadiscio e nei Balcani. Ho avuto molta paura, ma è la paura a salvarci la vita perché capisci che quella guerra è reale, non è un film e non devi fare passi azzardati. Comunque nessuno di noi è un eroe, né ha la vocazione di diventarlo. Andiamo in un posto sempre per quel “viziaccio” di voler raccontare. In un film dicevano: “qualcuno dovrà pur farlo”. Ma non mi sento certo una vittima, quanto piuttosto un privilegiato. Ho attraversato la Storia da testimone diretto, con il compito di trasferirla attraverso i miei occhi e la mia anima. Non posso che sentirmi fortunato.

Quale sarà il futuro del giornalismo?

Sarà molto diverso, credo. Già lo è, in effetti. Per tutti i motivi che abbiamo detto, ma anche per il progresso tecnologico. Ormai siamo tecnicamente in pieno villaggio globale, tutti stiamo insieme nello stesso momento e nello stesso punto dove qualcosa accade. Naturalmente ne guadagna l’immediatezza a scapito magari dell’approfondimento. Sappiamo tutto, ma forse capiamo meno. Gli strumenti informativi si sono moltiplicati. Anche l’accesso alla professione è diverso. Insomma sono convinto che viviamo un momento di grande rivoluzione. I giovani devono capirlo e inventarsi un nuovo modo di fare i reporter. Una figura probabilmente più preparata e matura. Mi auguro soltanto che mantenga gli stessi principi-base. Soprattutto uno: la ricerca della verità.

Giulia Farneti e Alessandro Bertolucci