Cronaca
Il giornalismo è il principale termometro della democrazia. Intervista a Roberto Rossi
MILANO, 5 OTTOBRE 2012 – Roberto Rossi è un giornalista catanese del 1980. Scrive da anni di mafia e informazione su Problemi dell’informazione, rivista scientifica sul giornalismo in Italia. Dalla fondazione, collabora con Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio Fnsi-Odg sui giornalisti minacciati. Ha collaborato con La Sicilia, Studio Aperto, Il fatto quotidiano, Libera informazione, Narcomafie. Il giornalismo è contemporaneamente racconto e politica, strumento e contenuto di democrazia; l’antimafia è politica e il giornalismo è atto di denuncia contro la mafia.
Quando e perché nasce l’interesse per la criminalità organizzata?
Ho assistito ad un omicidio quando avevo nove anni. Ero in classe, alle elementari. Uccisero un commerciante mafioso davanti alla mia scuola. A poche decine di metri dalle finestre della nostra aula al piano terra. Mi è capitato poi altre volte da bambino di vedere cadaveri colpiti a morte per strada. Crescendo ho potuto sperimentare altre facce della criminalità. Nel ’92 avevo dodici anni, l’età giusta per cominciare a metabolizzare quelle esperienze alla luce delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Nacque e crebbe dentro la volontà di oppormi a quelle violenze. Capii che la mafia era un problema della Sicilia.. il primo scritto a riguardo fu il tema dell’esame di terza media. Non molto tempo dopo mi resi conto che il problema non era solo siciliano.
L’interesse per il giornalismo?
Nacque prima l’interesse per la politica. Al liceo. Mi piaceva scrivere, argomentare per iscritto le mie posizioni. Pensai che facendo il giornalista potevo mettere in campo queste due passioni. Ho capito in seguito che il giornalismo è al contempo racconto e politica: strumento di democrazia e, quindi, contenuto di democrazia. Poi ho maturato che non esiste antimafia che non sia politica, né di conseguenza giornalismo che non sia atto di denuncia contro la mafia.
Cosa significa oggi informare e quale ruolo ha l'informazione nei confronti della mafia?
Informare significa mettere a conoscenza i cittadini di ciò che accade. Fornire loro le informazioni necessarie ad esercitare al meglio il loro diritto di cittadinanza. Una società contaminata dalla presenza mafiosa non ha cittadini, ha sudditi. Le persone non sono libere, non hanno diritti, soddisfano i loro bisogni chiedendo favori. In questa società, il giornalismo è il nemico numero uno perché rende trasparente ciò che deve rimanere opaco, perché offre occasioni di cambiamento, perché è atto democratico volto al bene comune in un sistema dittatoriale che difende con la violenza il privilegio di pochi.
Cosa significa oggi fare il giornalista d'inchiesta?
Quello che è sempre significato. Scavare, andare oltre l’apparenza, l’abitudine, oltre la versione edulcorata dei fatti.
Collabori dalla sua fondazione con Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio Fnsi-Odg sui giornalisti minacciati. Cosa ti ha spinto a collaborare e perché?
Quando è nato Ossigeno scrivevo già da alcuni di giornalismo e criminalità organizzata su “Problemi dell’informazione”. Nel 2008, per un numero monografico sulla mafia, chiesi ad Alberto Spampinato di scrivere un pezzo sui problemi che ancora oggi i giornalisti incontrano nell’occuparsi di mafia. Alberto scrisse “Il continente inesplorato”, un saggio straordinario, frutto di decenni di riflessioni sul tema, di una lunga esperienza professionale e della scrupolosa analisi delle condizioni che portarono all’uccisione di suo fratello Giovanni. Quel pezzo era la carta costituzionale di Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio che lo aiutai a sviluppare assieme ad Angelo Agostini, direttore di “Problemi” e in seguito anche direttore scientifico di Ossigeno, e ad altri colleghi. Dalla sua fondazione, l’osservatorio ha potuto recensire 350 episodi intimidatori e raccontare le storie di 1200 giornalisti minacciati. Un fenomeno enorme, gravissimo per la nostra democrazia, tanto più che questi sono solo i dati che abbiamo potuto raccogliere e pubblicare, l’indice di un problema ben più vasto nella realtà dei fatti. Di tutto questo poco o nulla si sapeva fino a qualche anno fa. Se se ne parla oggi è grazie ad Ossigeno, al lavoro volontario dei collaboratori presenti sui territori e alla straordinaria tenacia del suo fondatore che va avanti nonostante le numerose avversità che un lavoro del genere si è procurato soprattutto, ahimè, all’interno della professione.
Ogni giorno molti giornalisti rischiano la loro vita nel quotidiano sforzo di trovare e raccontare la verità, spesso scomoda, in che modo dovrebbero essere tutelati?
Ossigeno ha proposto diverse cose a riguardo. Serve per prima cosa conoscere e diffondere le loro storie. Serve che le redazioni attuino tecniche di tutela come il lavoro d’equipe. Serve una revisione del codice penale per il reato di minaccia che preveda l’aggravante per chi intimidisce i giornalisti in quanto professionisti di pubblica utilità. Serve anche rivedere il testo in merito alla diffamazione, perché venga scoraggiata la prassi molto diffusa delle querele temerarie. Serve infine – la cosa più importante – che cessi la prassi dell’autocensura: la cosa non è grave solo per i lettori, ma anche, soprattutto, per i giornalisti che non si sottraggono al loro dovere e che per questo rimangono isolati, più esposti alla rappresaglie violente.[MORE]
Oggi c’è un’area grigia della società costituita da commercianti e professionisti che fanno da intermediari con la mafia. Cosa si dovrebbe fare per impedire che questo avvenga?
Ci vuole buona politica: dare più risorse alla magistratura e alla polizia inquirente e al contempo creare le condizioni perché venga tutelata la loro indipendenza; incrementare l’uso delle intercettazioni telefoniche e ambientali per fini investigativi; approvare finalmente un testo serio contro la corruzione.
Qual è la situazione del sistema mafioso nel territorio siciliano?
Credo che nulla in verità sia molto cambiato. Ancora oggi in Sicilia non vedo molti diritti, né cittadini, vedo sudditi e anch’io me ne sono andato per non cedere alla logica del favore.
Cosa pensi dell’attuale situazione politica in Sicilia?
Spero che i siciliani capiscano che le prossime elezioni regionali sono una grande opportunità di cambiamento. Gli ultimi due governatori non sono stati un esempio di buona politica, Raffaele Lombardo in particolare ha esasperato il sistema clientelare. Un sistema che è imploso, incapace ormai di garantire prebende, dati i tagli alla spesa pubblica. Lombardo è imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e per voto di scambio politico-mafioso. Il suo predecessore, Totò Cuffaro, è a Regina Coeli per aver informato un boss mafioso su delle segretissime indagini che lo riguardavano. Le prossime elezioni sono l’occasione per dimostrare che per fare politica in Sicilia non è necessario venire a patti con la mafia. Il problema è la povertà che abita da parecchio ormai dentro le vite di molti siciliani. Il rischio vero è il voto qualunquista. Il movimento dei Forconi è stata la novità politica siciliana più nota fuori dalla Sicilia nel 2012. D’altra parte, giornali e televisioni locali in questa fase stanno fomentando la disperazione, lo scontento, la reazione scomposta. Le formazioni politiche direttamente legate al passato stanno cavalcando questo sentimento. C’è il rischio serio che, ancora una volta, tutto cambi perché nulla cambi.
Sei autore, con Roberta Mani, del libro inchiesta “Avamposto”. Perché la Calabria è ai primi posti per le minacce nei confronti dei giornalisti rispetto alle altre regioni minate dalla mafia? Non fanno altro che il loro lavoro ma vengono chiamati “infami”. Perché hai sentito la necessità si scrivere “Avamposto”?
Avamposto nasce dalla volontà di rompere il silenzio intorno ad un tema tabù. Prima del 2010, anno in cui esce Avamposto, non si parlava molto di Calabria, men che meno di giornalisti minacciati. Roberta e io eravamo andati in Calabria per il primo reportage sul tema (dopo il libro ne sono venuti molti altri) pubblicato da “Problemi dell’informazione” per Ossigeno per l’informazione. Ci siamo resi conto che la situazione era drammatica, che questi colleghi rischiavano sul serio e ci siamo presi l’impegno di approfondire. Ne è venuto fuori un documentario, poi un libro.Ritengo che così tante minacce siano dipese, oltre che dal coraggio col quale molti giornalisti in Calabria intendono la professione, dalle mutate condizioni in cui questi cronisti hanno potuto sperimentarsi negli anni passati. Si passava da una situazione di monopolio decennale della “Gazzetta del Sud”, a un mercato delle notizie vispo e agguerrito: ben due quotidiani alternativi alla “Gazzetta” presenti in tutte le provincie calabresi. Per vendere occorreva dare notizie, notizie vere. Negli ultimi due anni la situazione mi sembra più opaca. “Calabria Ora” in particolare pare abbia fatto un passo indietro. Ma il rischio per i giornalisti che continuano a scrivere non è diverso da prima. Sono diminuite le minacce ma sono aumentate le pressioni politiche. Il rischio è maggiore proprio perché altri hanno rallentato. Per chi volesse approfondire a riguardo suggerisco la lettura della sezione dedicata alla Calabria del Rapporto 2011/2012 di Ossigeno, interamente scaricabile dal sito dell’osservatorio.
Giulia Farneti