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Il film noir americano, Lindau Edizioni: intervista all'autore Leonardo Gandini

Oramai la parola noir è un brand. Io comincerei da questo. Ce lo dice il Prof. Leonardo Gandini, autore del libro Il film noir americano (Lindau), appena giunto alla terza edizione. Preziosa ricognizione di uno dei generi cinematografici più amati, ma anche più controversi dal punto di vista critico, il saggio si profila come un testo imperdibile per gli amanti del cinema, in cui Gandini – professore di Storia del cinema ed Estetica del cinema all’Università di Modena e Reggio Emilia – chiarisce il senso della definizione originaria di noir e puntella con l’analisi di diversi film le tracce tematiche del proprio percorso: il noir e la critica, la letteratura di genere, il sogno, lo spazio e il tempo nel noir, il post- e il neo-noir. Ne abbiamo parlato in un’intervista che spazia tra questi temi, ma che soprattutto mette addosso una gran voglia di leggere il libro e di vedere i film.

Per cominciare, potrebbe non essere chiaro come il noir si rapporti al realismo. Per alcuni, come Paul Schrader, esisterebbe un periodo realista, corrispondente al secondo dopoguerra, da assorbire nella cronologia del noir; per altri, come Borde e Chaumeton, il realismo andrebbe addirittura escluso dal noir, in quanto genere improntato alla perdita dei punti di riferimenti psicologico. Ci sembra di capire che Lei propenda per quest’ultima tesi, e questo porterebbe a riscrivere un po’ delle “liste dei migliori noir” in circolazione… 

La questione è molto complessa. Il noir è un marchio entrato nell’immaginario collettivo, è oggetto di progetti, forme di consumo e produzione culturale, e quindi si è felicemente svincolato dall’ambito del cinema. Esistono cattivi noir, biscotti noir, profumi noir: la proliferazione del termine è incontrollata. Niente di male, allora, che l’etichetta noir per quanto riguarda il cinema si applichi anche a film che dei noir originali hanno poco. Volendo compiere un’operazione filologica, dobbiamo però ricondurre il noir ad una serie di temi che attraverso lo stile e la narrazione mettono in discussione il principio della realtà. È quello di cui parlano di Borde e Chaumeton riferendosi all’onirismo diffuso. Di cosa si tratta? Del fatto che l’universo narrativo del film galleggi dentro un’atmosfera da sogno. Ciò fa sì che nel noir contemporaneo siano pochi i cineasti che abbiano cercato di lavorare in questa direzione. Io obietto al fatto che il noir venga trasformato in sinonimo di poliziesco o criminale: non basta un’indagine, un delitto o un mistero per fare di un film un noir. In epoca contemporanea questi meccanismi di smaterializzazione del piano narrativo si sono fatti più complicati, così i film che vanno in quella direzione sono diventati meno numerosi. C’è innanzitutto un motivo tecnico: il bianco e nero si prestava ad effetti di illuminazione contrastata e di ombre che né il cinema a colori né quello digitale hanno a portata di mano.

Realista è anche il genere hard-boiled, da cui il noir ha spesso attinto. Lei ha scritto che “nel passaggio dalla pagina allo schermo, il genere hard-boiled perde parecchie delle sue caratteristiche e allo stesso tempo ne acquisisce altre, del tutto diverse, che sono invece proprie del film noir”. Da Il mistero del falco, a La fiamma del peccato, passando per L’ombra del passato, fino a Il grande sonno: quali sono le strategie più comuni usate negli adattamenti?

Bisognerebbe capire meglio ogni singolo adattamento. La letteratura di hard-boiled di Chandler, Hammett ed altri è di carattere fondamentalmente realista. Secondo una nota espressione, riporta il crimine nelle strade: è la risposta statunitense – improntata ad un sano pragmatismo – a quella inglese, in cui il mystery ed il poliziesco sono più artefatti nei personaggi e nelle situazioni. Basti pensare a Sherlock Holmes ed ai raffinatissimi crimini che è chiamato a risolvere. IL cinema noir attinge dall’hard-boiled un’ambientazione realistica ma la riconfigura in chiave onirica. Non a caso il cinema noir predilige gli autori meno realisti della scuola hard-boiled, come Cornell Woolrich e James Cain, diversi da Chandler ed Hammett, questi ultimi più ancorati al canovaccio poliziesco classico, con l’investigatore che indaga. Woolrich e Cain sono invece interessati a temi come la colpa, il castigo, l’incubo; sono affascinati più dai trasgressori della legge che dai tutori. Il cinema noir ha dunque costruito proprio da questi due scrittori alcuni dei suoi film più belli.  

Mi ricollego proprio agli “incubi” di Woolrich. In apertura del capitolo che tratta del rapporto tra noir e sogno, lei osserva che gli studiosi hanno spesso stilato elenchi dei cineasti tedeschi approdati ad Hollywood negli anni ’30, ma hanno talora tralasciato l’arrivo di intellettuali di varie discipline, tra cui i discepoli di Freud. Cosa di Freud suggestiona l’America, cosa di Freud viene però tradito e travisato?

Perché gli Americani abbracciassero la psicanalisi, era necessario che la psicanalisi venisse semplificata e volgarizzata. La versione freudiana che gli Americani sposano si riconduce a varie possibilità di un’interiorità turbata: sensi di colpa, complessi di Edipo, ecc. Ciò alimenta l’idea che la soggettività sia una costruzione fittizia dietro cui si nascondono delle pulsioni centrifughe: l’individuo non ha una propria integrità, ha pulsioni che non si compongono tra di loro. Il cinema noir costituisce in ambito massmediale il precipitato di questo assunto: l’idea che l’individuo sia ambiguo nella propria identità e prigioniero di tensioni contrapposte. Negli altri generi del cinema hollywoodiano, come il western, la commedia, il film d’avventura ed il film bellico, non si poteva prescindere dalla presenza di un individuo a tutto tondo: il protagonista è un individuo la cui immagine interiore corrisponde a quella esteriore, è leggibile, ha un obiettivo il cui raggiungimento costituisce l’asse del film, che sia conquistare una ragazza, sconfiggere i Giapponesi, fare lo sceriffo, a seconda dei generi. Si parte da un punto A e si arriva ad un punto B: questo è il tragitto narrativo. Nel noir, attraversato da elementi della psicanalisi di Freud nella versione “americana”, è difficile che questo accada. Spesso, innanzitutto, perché il film è in flashback, e sappiamo sin dal principio che il protagonista al punto B non è riuscito ad arrivare. Inoltre. Siccome il personaggio è scisso, non ha ben chiaro dove voglia arrivare, quindi non c’è un punto B: c’è un girare a vuoto che muove dal punto A e ritorna al punto A.

Ci sono altri due generi a cui presta particolare attenzione nel libro in rapporto al noir: melodramma e horror. 

Intanto ricordiamo che i generi non sono forme pure e distinti ma s’intrecciano tra di loro secondo normali dinamiche dell’industria culturale. Molti noir all’epoca in cui uscivano nelle sale venivano presentati e recensiti dai critici come crime-melodrama. Penso, ad esempio, a Mildred Pierce di Michael Curtiz o Gaslight di George Cukor, che hanno al centro personaggi femminili e le loro sofferenze. Una cospicua parte dei noir si ibrida dunque con questo tema che è proprio del melodramma. Quanto all’horror, il debito del noir è soprattutto di tipo iconografico: l’horror degli anni ’30 ed ancor di più quelli RKO degli anni ’40 mettono a punto questa idea visiva dell’ombra come metafora della colpa e del delitto, nonché della presenza del male nel mondo.

Restiamo nel concreto, su titoli ben precisi. Lei considera Detour di Edgar Ulmer un film emblematico per parlare di un aspetto a cui dedica un intero capitolo: la spazializzazione del tempo. In che senso? 

Il tempo viene spazializzato perché spesso questi film sono ambientati in luoghi che rimandano ad una temporalità sospesa, schiacciata su sé stessa. Penso alla frequenza dei diners, questi bar-ristoranti dove le persone si fermavano a bere qualcosa; ma anche gli alberghi, i motel sulla strada. Sono luoghi non domestici che sotto il profilo spaziale rimandano ad una temporalità che non ha progressione, né continuità. Detour è più esemplare degli altri perché lavora sulla metafora della strada, ma come sarà nel Lynch di Stade perdute è una strada sempre uguale a sé stessa, con un falso movimento, priva di riferimenti. Il protagonista è diretto a Los Angeles da New York, ma nulla della sua progressione emerge nel tessuto del film: sono solo pezzi di strada raccontati come fossero più o meno uguali tra loro. Ad una mancata progressione dello spazio corrisponde una mancata progressione del tempo: il film è in flashback e sappiamo sin da subito, allora, che il personaggio è chiuso in sé stesso.

Ancora un film in particolare per parlare di un argomento, cioè la “fine” del noir: perché Un bacio e una pistola di Robert Aldrich è così controverso da essere definito da taluni il capolavoro del noir, da altri il punto di non-ritorno?

Intanto è un film che si colloca cronologicamente in una stagione in cui la parabola del noir può dirsi esaurita, ossia la metà degli anni ’50. Poi perché perde molte delle caratteristiche proprie del noir. Per iniziare, una figura maschile preda della controparte femminili: qui abbiamo un personaggio maschile misogino e dominante. Inoltre, dal punto di vista tecnico, questo film si tiene a distanza dell’uso dell’ombra e del chiaroscuro, è un film in cui la visibilità prende il sopravvento. Infine, è un film il cui finale apocalittico e nucleare vanifica ogni sforzo del detective per risolvere il caso: il protagonista deve arrendersi ad un evento su cui non ha nessun tipo di controllo. Per questo molti lo considerano un film che chiude il noir, perché fa prendere al poliziesco un’altra strada. Ne parlo nell’ultimo capitolo del libro perché lo ritengo caratteristico di una torsione del genere poliziesco che col noir non ha praticamente più nulla a che vedere.

Il noir dopo il noir è spesso citazione, in particolare da parte di una generazione di cineasti che conoscono e amano i loro predecessori. Tra gli altri lei cita Scorsese, Lynch, i Coen, ma con Lynch si ha la sensazione – a proposito di torsioni – che ci si trovi di fronte ad un’autentica “torsione del noir”.  

Sì. Lynch recupera la dimensione dell’onirismo, ed è l’unico autore che non considera il noir un catalogo di oggetti e figure da citare, come avverrà spesso negli anni ’80 e ’90. Si preoccupa invece di recuperarne la dimensione onirica. Se pensiamo a Strade perdute e Mulholland Drive, questo onirismo si traduce nella costruzione di trame dalla temporalità contorta in cui non è dato comprendere il punto di entrata e di uscita. Lynch non cita il noir, ne estremizza certi tratti alla luce del fatto che nel cinema post-moderno questo è possibile. Porta il noir alle estreme conseguenze narrative senza occuparsi di citazioni particolari.

Curiosità finale, in assoluto relax cinefilo. Quali sono i suoi noir preferiti?

Più o meno quelli di cui parlo nel libroLa fiamma del peccato di Billie Wilder, La Signora di Shangai di Orson Welles, Strada scarlatta di Fritz Lang, Detour di Edgar Ulmer, Lo sconosciuto del terzo piano di Peter Lorre. Questi mi sembrano i film fondamentali.

Bene, allora la nostra intervista ha trovato il suo punto B: un vero e proprio invito alla visione dei capolavori del noir. Così come, d’altronde, vien fuori dal libro.         

Così come i libri di cinema devono fare: altrimenti sarebbero solo oggetti inerti.


Scheda libro

(In copertina: immagine tratta da La fiamma del peccato di Billie Wilder; all'interno, prima immagine: da Detour di Edgar Ulmer; seconda immagine: da Un bacio e una pistola di Robert Aldrich)

Antonio Maiorino