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"Il figlio dell'altra" di Lorraine Lévy, inverosimile parabola di buon senso e umanità

Il figlio dell’altra, terzo lungometraggio diretto da Lorraine Lévy, regista francese di origine ebraica, nasce da un breve racconto di Noam Fitoussi divenuto sceneggiatura con l’aiuto di Nathalie Saugeon, dopo essere stato inviato dalla produttrice alla regista. Girato quasi interamente a Tel-Aviv, in quattro lingue, il film è stato presentato lo scorso dicembre al Torino Film Festival. E’ uscito nelle sale italiane il 14 marzo 2013.

Utilizzando un punto di vista intimo, privato, il film affronta la questione israelo-palestinese. Il conflitto fra i due popoli viene collocato sullo sfondo della storia, distanziato, astratto, quasi ne sia solo la cornice scenografica, mentre il racconto si muove privilegiando una dimensione di fratellanza e identificazione nell’altro che, pur volendo dipingere grande umanità e buon senso, sconfina nella semplificazione, nel tentativo arbitrario di razionalizzare le emozioni e divenendo per questo edulcorazione della realtà, una sovrastruttura posticcia, forzata, calata su una situazione seriamente complessa, fatta di odio e barriere vere. Il risultato è quello di rasentare la favola con una nota stonata - in quanto inverosimile - all’interno di una trama realistica che affonda le sue radici nel contesto socio-politico.

Joseph Silberg è un ragazzo israeliano che, durante la visita per il servizio di leva nell’esercito israeliano, scopre di non essere il figlio biologico dei suoi genitori: appena nato, durante la Guerra del Golfo, per i bombardamenti su Haifa, città abitata da ebrei e arabi, è stato scambiato per errore con Yacine Al Bezaaz, palestinese dei territori occupati in Cisgiordania. La rivelazione getta lo scompiglio tra le due famiglie, che provano a incontrarsi e accorciare le distanze culturali. Mentre i padri finiscono per rinfacciarsi il dolore dei rispettivi popoli, le madri colgono l'opportunità dello scambio e accolgono il figlio biologico cresciuto dall'altra.

Il conflitto israelo-palestinese viene “stilizzato” attraverso la caratterizzazione dei due personaggi: Joseph, vissuto nella famiglia di un alto ufficiale israeliano, è immaturo e sognatore, veste all’ultima moda e suona la chitarra sulla spiaggia insieme agli amici, Yacine invece, cresciuto nella famiglia di un ingegnere palestinese, è più maturo e sta per laurearsi in Medicina a Parigi. All’interno di questa “metafora”, che i due ragazzi incarnano egregiamente, è riassunto il conflitto israelo-palestinese. Nello stesso modo viene realizzata un’altra stilizzazione metaforica, quella che divide gli uomini dalle donne: odio e risentimento sono confinati alla reazione dei padri, mentre le madri divengono il catalizzatore di tutte le energie positive e dei nobili sentimenti, incarnando un simbolo di speranza, pace e fraternità. [MORE]

L’idea di fondo è senza dubbio originale come pretesto per una storia tutta costruita sul senso di identificazione nell’altro, allo scopo di annullare barriere e rancori nei confronti della diversità. Il problema della verosimiglianza sorge in quanto - in maniera semplicistica - l’identificazione dei due temi viene resa speculare: pacificazione del conflitto familiare e pacificazione di quello politico-sociale. La profondità del tema affrontato scade dunque nella superficialità: il conflitto israelo-palestinese è una matassa così estremamente complessa ed atavica da non poter essere dipanata con l’accostamento metaforico alla possibile conciliazione del conflitto privato. La storia delle due famiglie costringe i suoi protagonisti alla complicità e alla convivenza, banalizzazione che non può essere applicata facilmente alla realtà sociale del conflitto israelo-palestinese, di ben altra portata e drammaticità.
Dunque il film, pur partendo dalla nobile premessa di rappresentare una speranza di pace fra Israele e Palestina, non gioca la sua potenziale carta vincente perché non prende in considerazione l’eventualità di mettere in scena la forza delle vere contraddizioni che animano il conflitto fra i due popoli e lo lascia sullo sfondo annullandolo e banalizzandolo. La razionalizzazione del dramma, attraverso la metafora della fratellanza, risulta poco convincente, inverosimile, confezionata. Si assiste a una parabola di buon senso, null’altro.

L’idea sincera che rende l’unico possibile merito al film è quella che riguarda la vicenda privata, l’opportunità - simbolica - nel cogliere l’occasione di vivere nel modo migliore la vita di un altro.
I due ragazzi entrano lentamente nella famiglia di origine imparando il rispetto e la responsabilità verso ciò che è diverso, possibilità favorita dal caso in cui - paradossalmente - quell’estrema diversità coincide con la propria identità, con la vita che realmente avrebbero dovuto vivere.


Titolo originale: Le fils de l’autre
Regia: Lorraine Lévy
Interpreti: Emmanuelle Devos, Jules Sitruk, Pascal Elbé, Bruno Podalydès, Ezra Dagan, Khalifa Natour, Mehdi Dehbi, Areen Omari
Origine: Francia, 2012
Distribuzione: Teodora Film 

Durata: 105'


(In foto: particolare del manifesto del film)

Gisella Rotiroti