Salute
Il disturbo d’ansia sociale. Intervista allo psicologo Fabrizio Gaoni
ROMA, 9 NOVEMBRE 2018 – Nel linguaggio informale, le persone abusano spesso del termine ansia senza conoscerne il reale significato. Inoltre, non tutti sono a conoscenza dell’esistenza di varie tipologie e classificazioni del disturbo. Possiamo definire l’ansia come una sorta di apprensione che l’individuo prova nell’anticipazione di certo problema, reale o ipotetico. Non sempre l’ansia è disfunzionale, in quanto a volte ha uno scopo adattivo e funzionale al perseguimento di obiettivi personali, mentre livelli non accettabili possono compromettere qualche area importante della vita del soggetto, da quella relazionale a quella lavorativa.
Nell’ambito del gruppo dei disturbi d’ansia, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) fa una distinzione tra le varie tipologie e specifica caratteristiche, sintomi e possibili fattori che originano la più comune delle psicopatologie.
Con lo Psicologo Clinico e dello Sviluppo Fabrizio Gaoni, dopo aver spiegato in cosa consiste l’ansia e illustrato le varie classificazioni proposte dal DSM, si affronterà nello specifico il tema del disturbo d’ansia sociale.
Dottor Gaoni, in cosa consiste l’ansia e quali sono le principali categorie diagnostiche previste dal DSM?
“L’ansia è una delle quattro emozioni di base (gioia, tristezza, rabbia e paura o ansia) come dimostrano gli studi di Paul Ekman. Probabilmente a molte persone sono diventate note grazie al film ‘Inside out’! L’ansia è uno stato psicologico di preoccupazione o paura verso un potenziale pericolo e coinvolge fortemente anche il nostro corpo: il nostro respiro si fa corto e rapido, il cuore aumenta i suoi battiti, i muscoli si tendono per renderci pronti a fuggire. Come ogni emozione di base, l’ansia è un’emozione che abbiamo fin dalla nascita e ha lo scopo di farci adattare all’ambiente circostante: ci segnala i pericoli potenziali da cui dobbiamo proteggerci per sopravvivere. E’ come un allarme salvavita. Tuttavia, quando l’ansia supera un certo livello che possiamo definire normale, comincia a non essere più adattiva e a essere invece disfunzionale: ci fa percepire in pericolo in situazioni che invece sono neutre o solo lievemente difficili. Così l’ansia si trasforma in un farci vedere fantasmi.
Secondo alcuni studi (Lowe et al. 2008) i disturbi d’ansia sono i disturbi psicologici più diffusi al mondo, anche più della depressione. Nessuna sorpresa quindi che il DSM 5 comprenda una vasta gamma di disturbi d’ansia. Tra i più importanti possiamo citare, dal più al meno diffuso: fobie specifiche, disturbo d’ansia sociale (o fobia sociale), disturbo di panico, disturbo d’ansia generalizzata, agorafobia”.
Ansia sociale. Quali sono le caratteristiche del disturbo?
“Tra i sintomi elencati dal DSM mi riferisco ai più importanti. Prima di tutto, la persona che soffre di ansia sociale prova intensa paura riguardo ad una o più situazioni sociali in cui può essere osservata e giudicata da altre persone. Abbiamo già visto i sintomi fisici della paura. Quanto alle situazioni sociali, la persona può temere ad esempio situazioni in cui deve presentarsi a nuove persone, situazioni in cui deve mangiare di fronte agli altri, lo stare in luoghi affollati come negozi, concerti, mezzi pubblici. La persona è inoltre spaventata al pensiero che, trovandosi nella situazione sociale temuta, gli altri si accorgeranno del suo disagio, la giudicheranno e derideranno. Questa condizione di ansia sociale deve persistere da almeno 6 mesi, quindi ha una certa stabilità nel tempo, e porta la persona all’evitamento delle situazioni temute o all’affrontamento al costo di una grande sofferenza. Un ultimo punto fondamentale è che questa condizione di ansia sociale causi un’alterazione significativa del funzionamento psico-sociale della persona: tradotto dallo ‘psicologhese’, significa che in seguito a quest’ansia sociale la persona modifica il suo stile di vita e ne risente dal punto di visto emotivo, relazionale, scolastico-lavorativo”.
Sembrerebbe che i sintomi siano simili a quelli della timidezza. Esistono delle differenze?
“Certo. Diciamo subito che la timidezza è una caratteristica innata della persona, fa parte del suo temperamento: l’ansia sociale è invece qualcosa che viene appreso nel tempo. Per esprimerci in modo semplice, la differenza tra timidezza e ansia sociale sta nel livello di intensità dell’ansia. La persona timida prova una certa ansia nelle situazioni sociali, più ansia rispetto alla media delle persone, e non vive queste situazioni con la naturalezza di un soggetto estroverso; tuttavia l’ansia si mantiene a livelli tollerabili. La persona semplicemente timida infatti continua a presentarsi alle situazioni sociali, a presentarsi a scuola o sul lavoro. Non evita queste situazioni. Non perde adattamento alla realtà”.
Esiste una correlazione con il disturbo evitante di personalità? Quest’ultimo ne è una diretta conseguenza?
“Questa è una domanda molto interessante. Infatti, se in una situazione interpersonale ci troviamo davanti un evitante e un fobico sociale, probabilmente non riusciremo a distinguere tra i due: entrambi tenderanno a isolarsi, a passare inosservati, a dare segni di ansia se cerchiamo di instaurare un contatto con loro. Tuttavia, la differenza tra l’evitante e il fobico sociale è meno complessa di quanto possa sembrare. Il fobico sociale evita una o più situazioni sociali in cui teme il giudizio altrui, ma nelle altre situazioni sociali è in grado di interagire con gli altri. La persona con un disturbo evitante di personalità, invece, tende a evitare le situazioni sociali in generale: non è un qualcosa legato alle singole situazioni sociali, ma proprio alla sua personalità. Tendenzialmente è una persona senza amici e relazioni intime. Da questo possiamo intuire che il disturbo evitante di personalità è sensibilmente più grave del disturbo d’ansia sociale”.
Da quali fattori può essere originato il disturbo d’ansia sociale?
“Come per ogni disturbo psicologico, ci sono diversi fattori (fattori di rischio) che combinandosi tra loro possono dare origine al disturbo d’ansia sociale. Un primo fattore è costituito dall’avere genitori ansiosi: i figli di genitori ansiosi (come i miei genitori per esempio!) hanno da 2 a 6 volte in più la possibilità di sviluppare un disturbo d’ansia sociale rispetto ai figli di genitori non ansiosi. Un altro fattore è dato dalla fisiologia con cui il bambino viene al mondo: ci sono bambini che da subito mostrano una maggiore reattività agli stimoli, una maggiore facilità a spaventarsi e a mettersi a piangere. Aver ricevuto maltrattamenti o trascuratezza nella propria infanzia da parte dei genitori o delle figure con ruolo genitoriale è un ulteriore fattore di rischio. Infine, un altro fattore importante è costituito dalle esperienze di esclusione e di derisione subite in età scolare da parte dei coetanei”.
In cosa consiste il trattamento psicologico del disturbo?
“Visto che l’ansia nell’affrontare alcune situazioni sociali è molto intensa, al punto da poter sfociare in attacchi di panico, è necessario valutare la possibilità di assumere ansiolitici per un determinato periodo di tempo: per questo aspetto bisogna consultarsi con il medico di base o (preferibilmente) con uno psichiatra. Quanto al trattamento psicologico, ovviamente cambia in base a quello che è l’approccio dello psicologo o dello psicoterapeuta. Ci sono però dei punti condivisi dalla maggioranza degli approcci psicologici. Innanzitutto, la base indispensabile è che si crei una relazione di empatia e di fiducia con lo psicologo: se il paziente non si fida dello psicologo, perché dovrebbe poi fidarsi ad affrontare le situazioni che teme più al mondo? Si tratta poi di agire sulle convinzioni negative che il paziente si è fatto su di sé e sugli altri nelle situazioni sociali perché sono queste convinzioni a mantenere in piedi la gabbia della fobia sociale. E’ necessario rielaborare emotivamente quelle esperienze di sofferenza, a volte anche traumatiche, in cui la persona ha vissuto l’esclusione e la derisione da parte degli altri. A partire da queste esperienze, la persona si è creata le convinzioni disfunzionali di cui parlavo sopra; a questo punto è possibile capire come quelle convinzioni un tempo le siano state utili per proteggersi, ma ora sono diventate disfunzionali e fonti esse stesse di sofferenza. Si tratta quindi di fare un percorso parallelo: da una parte il paziente è chiamato a cambiare gradualmente le sue convinzioni, dall’altra parte è invitato a esporsi gradualmente nelle situazioni temute in modo da verificare, sulla sua stessa pelle, che le situazioni sociali non sono così ostili e minacciose come le fantasticava”.
Quali tecniche garantiscono una migliore efficacia?
“Più che di tecniche specifiche, io parlerei più genericamente di strategie che poi ogni psicologo o psicoterapeuta può declinare in base all’approccio o agli approcci che segue:
- Costruire subito una buona alleanza terapeutica: è sempre fondamentale, ma lo diviene a maggior ragione con le persone che manifestano un disagio proprio nel campo delle relazioni interpersonali;
- Identificare le ‘esperienze traumatiche’ vissute in passato in situazioni sociali;
- Mettere in discussione le convinzioni negative su di sé e sugli altri maturate dopo queste esperienze
- Esporsi in modo graduale alle situazioni sociali temute, facendo esperienza di essere capaci”.
Sembrerebbe che le strategie più efficaci per il trattamento dei disturbi d’ansia provengano dalla Terapia Cognitivo Comportamentale. E’ d’accordo con questa affermazione?
“No, non sono d’accordo, a costo di incorrere nella scomunica dei miei amici cognitivisti. Alcune tecniche nate in ambito cognitivo-comportamentale, come la de-sensibilizzazione e l’esposizione, storicamente sono state determinanti per aiutare psicologi e psicoterapeuti a padroneggiare i disturbi d’ansia. Tuttavia adesso sono un patrimonio comune al mondo della psicologia: inoltre, come spiegavo prima a proposito di tecniche e strategie, ogni approccio terapeutico ha ormai delle proprie tecniche per trattare un paziente con un disturbo d’ansia. Quest’affermazione poteva essere vera al massimo fino a 20 anni fa, non ora. Quindi va bene la terapia cognitivo-comportamentale, va bene l’analisi transazionale, va bene la terapia psicodinamica, ecc.
Colgo l’occasione anche per ricordare che, secondo gli studi, i vari approcci psicoterapeutici più o meno si equivalgono in termini di efficacia. Quello che fa la differenza non è l’approccio terapeutico, bensì quel mix di qualità che va sotto il nome di ‘fattori comuni’ o ‘fattori aspecifici’ (per es. Frank & Frank 1993; Wampold & Budge, 2012). In totale gli studiosi hanno contato fino a 89 fattori comuni! Ovviamente non ve li elenco tutti, vi dico soltanto le 5 aree che vanno a toccare: processi di cambiamento, qualità del terapeuta, elementi della relazione, elementi del trattamento, caratteristiche del paziente.
Il succo della teoria dei fattori aspecifici, comunque, è che l’elemento più predittivo circa il successo del trattamento psicologico è la relazione che si instaura tra psicologo e paziente. Quindi il mio consiglio agli aspiranti pazienti è di non stare tanto a guardare l’approccio dello psicologo a cui si rivolgono: fate caso piuttosto a quanta fiducia sentite nei suoi confronti e a come il suo modo di relazionarsi sia compatibile con il vostro”.
Si ringrazia il Dottor Fabrizio Gaoni per la collaborazione.
Luigi Cacciatori